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4. I sonetti delle rime morali

5.0. Le rime morali: edizione critica e commento

5.0.6. Se di questo volume empio le carte

Marino dimostra come gli effetti di Dio si possano conoscere e riconoscere con fa- cilità, a patto che l’animo umano si impegni con diligenza. Il tema della possibilità di esperire Dio nel mondo lega questo sonetto al terzo, in cui si sottolineava l’incapacità dell’ingegno umano di penetrare il velo che tiene protetti i segreti dell’Universo. Nel presente sonetto si noti la rima equivoca legge-legge (ai versi 2- 6), la rima derivativa corregge-regge (ai versi 3-7), la rima inclusiva comprende- prende (ai versi 12-14), il tricolon del verso 4. Il sonetto presenta un’architettura classica, il cui schema rimico prevede per le quartine una struttura incrociata (ABBA-ABBA) e per le terzine incatenata (CDC-DCD).

v. 1 ampio (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) → empio • v. 2 Mondo (Mo09) → mondo • v. 3 Del’Autor, (Mo02 = Mo04) > De l’Autor (Mo09 = Mo14) = De l’Autor, | corregge, (Mo04 = Mo09) > corregge (Mo14 = Mo02) → corregge • v. 4 l’arte. (Mo02) > l’arte, (Mo04 = Mo09) > l’arte; (Mo14) = l’arte; • v. 5 studio: (Mo02 = Mo04 = Mo09) > studio; (Mo14) = studio; | a parte a parte (Mo02 = Mo04) > à parte à parte (Mo09 Mo14) = à parte à parte • v. 6 La nfini- ta (Mo04) [emend. in la’nfinita] (Mo04) > La infinita (Mo09) > La’nfinita (Mo14) = La’nfinita | bontà, (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) → bontà • v. 9 de fregi (Mo09) > de’ fregi (Mo14 = Mo02 = Mo04) = de’ fregi | d’oro, (Mo09) > d’oro (Mo14 = Mo02 = Mo04) = d’oro • v. 12 de- le (Mo02 = Mo04 = Mo09) > de le (Mo14) = de le | comprende (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14)

→ comprende, • secreti (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) → secretti

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SE di questo volume empio le carte,

Che mondo ha nome, e’n cui chiaro si legge De l’Autor, che’l compose, e che’l corregge L’alto saver, la providentia, e l’arte;

Volgesse altri con studio; a parte a parte La’nfinita bontà l’eterna legge

Impareria di lui, che tutto regge, Quasi ascose dottrine in lor consparte. Ma l’huom de’ fregi suoi purpurei, e d’oro

Qual semplice fanciul, che nulla intende, s’arresta sol nel publico lavoro.

E de le note sue non ben comprende, Gli occulti sensi: e de’ secretti loro

Commento

Il sesto componimento apre una parentesi la quale, prolungandosi anche nel sonetto successivo, muove dalla possibilità di esperire Dio, ottenendo così una conoscenza per- fetta, e approda sulla constatazione della caducità della vita umana in balia della Morte che, da inesperta arciera, diventa temibile guerriera. Questo componimento si concentra sulla prima parte, ovvero sulle manifestazioni di Dio che si squadernano nell’Universo e sull’inadeguato interesse che l’uomo, immaturo come un semplice fanciul, nutre nei loro confronti.

La prima quartina si apre con un lungo periodo ipotetico costruito sui verbi empio e

volgesse, la cui protasi, che inizia dal verso 7, è costituita dal verbo impareria, un con-

dizionale marcatamente siciliano. Fin dall’inizio, aleggia nel componimento un vago sapore dantesco che si manifesta non solo nei richiami testuali (evidente è la ripresa, che a breve si analizzerà, di parole o stilemi ben precisi) ma anche nella più ampia ispira- zione e nell’intento marcatamente didattico del sonetto, almeno per quanto concerne le due quartine. La peculiarità saliente di questa lirica è la divisione della componente di- dattica da quella più propriamente morale: sin qui ogni insegnamento aveva implicazio- ni morali e viceversa, ogni messaggio morale veicolava un insegnamento; ora, i due ri- svolti si presentano separati e la poesia si snoda lambendo dapprima le implicazioni di- dattiche e, successivamente, quelle morali. Questo taglio netto (che corrisponde a una divisione visiva) aiuta a delineare meglio i rispettivi campi di indagine: la didattica si occupa di introdurre una questio e di analizzarla, sviluppandone gli intrecci in maniera obiettiva e neutrale; la spinta morale, invece, constata una situazione particolare, quella dell’uomo colto in un preciso momento della sua evoluzione (il più delle volte si tratta della condizione immanente), indagando l’impatto che quel determinato insegnamento ha nella sua sfera più intima e personale. Come accennato, nel presente sonetto è evi- dente il discrimen che fa da spartiacque fra i due filoni: incisivo è, al verso 9, il ma che campeggia in posizione iniziale cui viene affidato il compito di introdurre, nello svol- gimento del discorso, un cambio di argomento dirottato su risvolti più dichiaratamente morali. Insegnamento morale e letteratura dottrinale sono le due peculiarità che questo componimento condivide con la Commedia che, soprattutto nell’attacco iniziale, risuona con forza: come tipico per il modus poetandi di Marino, il modello non è mai aperta- mente esplicitato, ma sfiorato con riservatezza, rievocato attraverso scelte di termini o di costrutti che si mescolano perfettamente al contesto circostante (inconfondibile è la rima in -egge che caratterizza le quartine); il procedimento trascende la veste linguistica per chiamare in causa la più ampia ispirazione del capolavoro dantesco.

Già nel primo verso si staglia un termine che, in maniera smaccata, reclama la sua illu- stre paternità, volume. Marino, restando sempre neutrale nell’esposizione dei concetti, si limita a spiegare la situazione: se riempisse le pagine di questo volume che si chiama mondo nel quale si legge chiaramente la firma del suo Autore e se questo volume atti- rasse a sé altri intelletti, allora si imparerebbero più alte manifestazioni del suo Creatore, ossia l’infinità bontà e la legge eterna con la quale governa il mondo, nelle quali si tro- vano quasi ascose le dottrine universali. Il precedente illustre di questo tema, del mondo visto come volume in cui si riconoscono gli effetti di Dio è senza dubbio il canto XXXIII

del Paradiso, ai versi 85-90:

Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna;

sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume1.

Il contesto è analogo: Dante, giunto ormai al termine del suo viaggio nei mondi extrater- reni, arriva alla beatificante visione di Dio nel quale vede, legate insieme, tutte le su-

stanze che si squadernano nel mondo. Ancora: gli effetti divini di cui il mondo, secondo

Marino, porterebbe indelebile traccia, sarebbero l’alto saver, la providentia, e l’arte; similmente, in Dante, nel canto IV dell’Inferno, dopo la spiegazione che Virgilio forni- sce su perché i peccatori finora incontrati non siano racchiusi nella Città di Dite, alla domanda del Poeta su come l’usura offenda la bontà di Dio, il poeta latino risponde:

- Filosofia - mi disse - a chi la ’ntende, nota non pur in una sola parte,

come natura lo suo corso prende dal divino intelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte,

che l’arte vostra quella, quanto pote, segue, come ’l maestro fa il discente; sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote2.

Omnia appetunt Deum ut finem: Dio, in quanto creatore e guida del mondo (che ’l com-

pose, e che ’l corregge; o per dirla con Dante, in tutte parti impera e quivi regge3), ha

disseminato il vero insegnamento nella sua infinità bontà e nell’eterna legge grazie alla quale tutto regge. In questi luoghi mariniani, si ritrovano due influenze particolari: in

primis Dante, poc’anzi citato, che ricorre ancora sia nella rima legge-regge (canto X, vv.

82-84: «e se tu mai nel dolce mondo regge, / dimmi: perché quel popolo è s’ empio / in-

1 Paradiso, XXXIII, vv. 85-90 (per la Commedia si intende fare riferimento a SAPEGNO 1962). 2 Inferno, XI, vv. 97-105 (SAPEGNO 1962).

contr’a’ miei in ciascuna sua legge?»), e nello stilema eterna legge che rimanda esplici- tamente all’etterna legge del canto XXXII del Paradiso, in cui San Bernardo spiega a Dante come in Paradiso il caso sia completamente sconosciuto (vv. 52-57: «dentro a l’ampiezza di questo reame / caüsal punto non puote aver sito, / se non come tristizia o sete o fame: / ché per etterna legge è stabilito / quantunque vedi, sì che giustamente / ci si risponde da l’anello al dito») e Pietro Massolo. Letterato veneziano e monaco cassi- nese, Massolo rappresenta un modello importante per il presente sonetto di Marino dal momento che aiuta a classificarne l’argomento come didattico: la lirica Di fole di Ro-

manzi empier le carte rappresenta un passo fondamentale per analizzare l’ispirazione

del nostro poeta. Tralasciando la palese identità di attacco che accomuna i due compo- nimenti, è interessante leggere l’intervento del monaco che, accusando l’inutilità e la

vanità (come si legge nel commento al sonetto, edito in una raccolta datata 1583) dei Romanzi e dei lascivi versi d’Amore, invita l’ingegno umano a sol [...] darsi a la Scrit- tura sacra. Il paragone con Marino è scontato: quello che Massolo indica con “Scrittura

sacra” altro non rappresenta se non le quasi ascose dottrine di Dio. Di fole di Romanzi empier le carte

Et di lascivi amor, chi s’affatica, inutilmente spende la fatica,

benché vi ponga sommo studio & arte, ne avien per dilettar ch’alcun mi dica ciò farsi da’ Scrittor, che Dio comparte il ver diletto, & chiunque non si parte da libri suoi, e in quei s’involve e implica,

nascer buon frutto non può da rio seme, et son de gli otiosi i parti brutti,

onde per questo il mondo plora e geme, ciascun ch’à Christo si dona e consacra, posti da canto gli altri studi tutti,

sol dovria darsi a la scrittura sacra1.

Entrambi i componimenti intendono lo studio come una delle peculiarità che devono es- sere proprie di chi si accosta allo studio delle Sacre Scritture. Entrambi dimostrano che Dio può essere conosciuto attraverso le creature, attraverso l’attenta analisi delle mani- festazioni divine sulla terra: Massolo si scaglia con un’invettiva spietata contro coloro che non si accostino alla Scrittura sacra e, per raggiungere l’effetto voluto, ricorre ad un versificare solenne, categorico, la cui logica è racchiusa nel sol dell’ultimo verso. Il ve- neziano sente di dover intervenire per salvaguardare la moralità del secolo e decide di agire in prima persona, come se la produzione di romanzi e di lascivi amori fosse un af- fronto personale, un rigetto dell’inclinazione a voler conoscere il proprio Creatore, un insulto all’istituzione che lui, in qualità di monaco, rappresenta. Il messaggio di Marino,

al contrario, si avvale di toni molto più delicati, più blandi: il poeta non sente come per- sonale l’eventuale rifiuto ad accostarsi allo studio della Bibbia e la sua bonarietà traspa- re dal quasi del verso 8. Le verità sono a portata di mano ma, ancora una volta, è il letto- re che, facendo appello alla propria forza di volontà, deve decidere se cogliere o meno il messaggio. Nel quasi è racchiuso un mondo di possibilità, negato dal sol di Massolo: è per questo motivo che le prime due quartine del sonetto mariniano si possono considera- re didattiche, perché insegnano, ma mai istigano, indicano senza mai costringere, dimo- strano al lettore la vicinanza di Dio ma non la impongono. Riuscire a scorgere la mano divina nelle carte che si dispiegano nel mondo è un’accortezza che solo le menti più a- cute possono percepire: l’universalità del messaggio si scontra quindi con l’esclusività condivisa da quei pochi che riescono a cogliere la sua veridicità.

Nelle due terzine è rintracciabile il vero e proprio nucleo morale del sonetto: il degra- do contemporaneo ha portato l’uomo a ricoprirsi sempre più di ornamenti esteriori, piut- tosto che di fregi interiori, ed è quindi naturale che, adesso, il suo comportamento venga paragonato a quello di un semplice fanciul, che nulla intende. Ormai il valore di una persona si ferma al publico lavoro, ossia alle apparenze: la sfera intima viene sovente sacrificata per quella estrinseca e visibile, il pubblico viene preferito al privato, l’interiorità è perennemente scalzata dall’esteriorità che permette una (vana)gloria mag- giore e un conseguente felice auto-compiacimento. Persino le fonti, in questa immagina- ria seconda sezione del componimento, si ridimensionano e si adeguando al messaggio che si vuole trasmettere: il didattico Dante viene abbandonato e al suo posto viene as- sunto il Tasso più moraleggiante, l’autore de Le sette giornate del mondo creato. I fregi

suoi purpurei, e d’oro di Marino sono gli stessi dei tassiani purpurei [...] e d’aurei fre- gi1 o ancora dei purpurei fregi delle Rime2; il semplice fanciul rispecchia il semplice e

sincero fanciul3 tassiano, così come gli occulti sensi sono sì quelli del presente sonetto,

ma anche quelli de Il mondo creato4. L’imbruttimento e la regressione morali che acco- stano l’uomo adulto al bambino (vaneggiante è infatti inteso in senso etimologico, col significato di “dire o fare cose vane, da fanciulli”) non solo non permettono di com- prendere le arcane manifestazioni di Dio sulla terra, ma impediscono loro di prenderle anche lontanamente in considerazione: la faciloneria e la leggerezza tipiche dei bambini si fanno caratteristiche proprie dell’età adulta. Nonostante il declino generale e la sua evidente constatazione, il contesto in cui sono sviluppate queste riflessioni rimane aset-

1 PETROCCHI 1951, giornata III, vv. 982-984: «e di speranze giovenili altero, / e di purpurei adorno e

d’aurei fregi, / sparso d’Arabo odor la chioma e ’l volto».

2 BASILE 1994, vol. I, numero 895 (Italia mia, tutti i tuoi duci egregi), p. 891, v. 5: «però ch’i tuoi cercar

purpurei fregi».

3 BASILE 1994, vol. I, numero 850 (Questa, ove prima semplice e sincero), p. 845, vv. 1-2: «Questa, ove

prima semplice e sincero / fanciul scherzasti con incerto piede».

tico, completamente privo di inflessioni negative o positive, lontano da qualsiasi giudi- zio o intervento autoriale. Indirizzare il pubblico di lettori verso una decisione già stabi- lita non permette la crescita, ma favorisce un ulteriore allontanamento: nocive risultano le imposizioni alla Massolo che, senza ritegno, redarguisce e condanna; Marino non sente di avere il diritto di elevarsi a incorrotto giudice decidendo, infatti, di avvalersi di toni dimessi che cerchino di blandire più che di colpevolizzare. L’onestà del poeta e- merge a livello umano: egli non ha la presunzione di dirsi o descriversi superiore agli uomini a cui sono indirizzate le liriche morali, ma rimane una voce nel coro, una voce consapevole di quanto poco possa motivare e spingere un tono saccente. La superficiali- tà, male del secolo, non si sana inveendo con prediche categoriche e tonanti paternali, ma indicandole i giusti mezzi per affrontare la profondità delle questioni, guidandone i passi laddove il terreno è più insidioso, curandone la miopia con pazienza e pacatezza dal momento che gli uomini, regrediti al loro stadio infantile, ascoltano con più propen- sione ragionamenti tranquilli piuttosto che irati rimproveri.