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4. I sonetti delle rime morali

5.1. Il ciclo di Roma

5.0.12. Pur da’ gravi riposi Anime invitte

Marino indirizza il sonetto alle Anime invitte, creando un equivoco fra l’attribuzione della dedica alle anime dei morti che giungono sul monte del Purga- torio e sui membri dell’Accademia Romana che salgono sul monte Parnaso. La so- vrapposizione occupa buona parte del sonetto, chiarendosi solo nella prima terzi- na. Si noti l’uso frequente di dittologie sinonimiche (spedite, e dritte e veloci, e preste). Si consideri inoltre che il componimento è l’ultimo della sezione delle Mo- rali e per questo il messaggio si carica di sfumature allegoriche di portata ben più ampia: la chiusura è sottolineata da un implicito discorso sull’importanza della poesia e sul rispetto che il suo cultore merita. Il sonetto presenta un’architettura classica, il cui schema rimico prevede per le quartine una struttura incrociata (ABBA-ABBA) e per le terzine incatenata (CDC-DCD).

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PUR da’ gravi riposi Anime invitte,

Sorger vi veggio, ove fin qui giaceste Già dal mortal Lethargo, e da la peste Del’Otio vil sì lungo spatio afflitte. Tempo gli è ben per vie spedite, e dritte

Al giogo alpestro1 immortalmente deste, Volger le piante homai veloci, e preste, Cui di gloria non son mete prescritte. Ivi di verde lauro altri riceve,

Nobil corona, ivi le piagge inonda Fontana, ov’immortal vita si beve. Virtute è ben d’honor pianta feconda,

Ma buono studio è suo cultor, né deve (Se non solo il sudor) rigarla altr’onda.

v. 1 riposi, (Mo09) > riposi (Mo14 = Mo02 = Mo04) → riposi | invitte (Mo02 = Mo04) > invit- te, (Mo09) > invitte (Mo14) → invitte, • v. 3 Letargo (Mo09) > Lethargo (Mo14 = Mo02 = Mo04) = Lethargo | dala (Mo02 = Mo04) > da la (Mo09 = Mo14) = da la • v. 4 De l’ (Mo14)

→ Del’ • v. 5 egli (Mo02 = Mo04 = Mo09) > gli (Mo14) = gli | ben, (Mo04 = Mo09) > ben

(Mo14 = Mo02) = ben • v. 6 alpestro, (Mo02 = Mo04) > alpestro (Mo09 = Mo14) = alpestro | deste, (Mo02) > deste (Mo04 = Mo14) > deste, (Mo14) = deste, • v. 8 mette (Mo09) > mete (Mo14 = Mo02 = Mo04) → mete • v. 9 riceve (Mo02 = Mo04 = Mo09) → riceve, • v. 10 co- rona: (Mo02 = Mo04) > corona, (Mo09 = Mo14) = corona, | piaggie (Mo04 = Mo09) > piagge (Mo14 = Mo02) = piagge • v. 11 Fontana (Mo09) > Fonata, (Mo14 = Mo02 = Mo04) → Fon-

tana, | vita beve (Mo09) > vita si beve (Mo14 = Mo02 = Mo04) = vita si beve • 14 Senon

(Mo02 = Mo04) > Se non (Mo09 = Mo14) = Se non

Commento

Il cerchio si chiude e la sezione delle Morali volge al termine. L’interpretazione che si può attribuire a questo sonetto è duplice: nell’Introduzione è stato messo in relazione al primo componimento della raccolta, il quale trattava dell’inesorabile scorrere della vita umana. Sotto quest’ottica, la presente lirica rappresenterebbe un bilanciamento della ne- gatività proemiale, dal momento che inizia con un incoraggiante «sorger vi veggio». Dall’altro canto, l’edizione delle Rime del 1674 riporta, come intestazione, la dedica all’Accademia Romana1 («Riprende l’otio, e loda l’Accademia Romana»).

A ben guardare la presenza dell’Accademia Romana è giustificabile solo nella prima terzina, nella quale Marino cita esplicitamente il verde lauro, la corona (di alloro, sim- bolo del genio poetico) e la Fontana, identificabile - parlando di Accademia e di poesia - con la Fonte Castalia2 situata sul Parnaso, monte sacro ad Apollo e alle Muse. Tuttavi- a, prima delle due terzine, l’esegesi del messaggio delle quartine è libera e può riguarda- re sia l’Accademia Romana (conclusione forzata, condotta a posteriori) sia il Monte del Purgatorio: le Anime invitte, oltre a quelle dei poeti, possono riferirsi a quelle dei defun- ti, nel momento dell’ascensione al secondo regno ultraterreno. Il moto ascensionale, il

sorgere (riferito alle anime del verso precedente), alluderebbe sia ad un momento di

particolare prosperità dell’Accademia (in qualità di auspicato ritorno in auge, dopo un periodo particolarmente buio - peraltro, poiché l’Accademia era piuttosto famosa, è strano che Marino usi il verbo sorgere e non ri-sorgere) sia alla resurrezione delle ani- me che, abbandonando la prigione corporea, si elevano fino al raggiungimento del loro posto sul monte. Il mortal Lethargo e il vile Otio non affliggono più il sonno delle ani-

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«Sorta con il nome di Romana, [l’Accademia Pomponiana] è generalmente nota con il nome che le deriva dal fondatore Pomponio Leto, che, intorno al 1464, aveva raccolto in Roma, nella sua dimora al Quirinale, un gruppo numeroso e scelto di eruditi e studiosi. L’accademia informava la sua vita a una osservanza rigorosa di antiche costumanze romane, ma ben presto l’amore irrefrenabile per l’antichità classica e il gusto di riesumazioni di aulici usi e costumi fecero aleggiare attorno ai membri una ventata di calunnie e di sospetti, che andavano dall’accusa di paganesimo e di “cinismo” a quella molto più pesante ma anche scarsamente provata di una vera e propria congiura antipapale. L’accademia venne sciolta (1468) da Paolo II come un covo di congiurati e di eretici; ancor oggi non è stata fatta piena luce sulla consistenza delle accuse, come del resto su quella della repressione papale; le esasperate testimonianze del Platina sulle torture che egli stesso e altri soci dell’accademia avrebbero sofferto rimangono ancor oggi piuttosto oscure e dubbie. Il Leto, il Platina e altri soci vennero bensì imprigionati, ma riguadagnarono poco dopo la libertà salvandosi con ampie giustificazioni e umili professioni di fede e di obbedienza; e di lì a qualche anno l’accademia era ritornata viva e attiva, acquistando nuovamente notevolissima fama. La morte del fondatore venne superata senza crisi, e le riunioni andarono accrescendosi anzi di numero e di solennità, raccogliendo durante il pontificato di Leone X gli ingegni più illustri dell’Urbe, con scopi sempre di letterarie dissertazioni e di mondani trattenimenti» (GDE 1970, s.v. Pomponiana, Accademia, a cura di Gianfranco Torcellan, vol. XIV, p. 896).

2 «Nome di una celebre fonte sul monte Parnaso, presso il santuario di Apollo a Delfi, nella quale la Pizia

faceva il bagno e i pellegrini si purificavano prima di accedere all’oracolo; era sacra ad Apollo e alle Muse, che erano per questo chiamante Castalidi» (Ferrari 1999, s.v. Castalia, p. 150).

me che, ora, lasciano la condizione del giaceste e dell’afflitte per accogliere la nuova vi- ta che si prospetta. Il riferimento potrebbe essere anche in questo caso anfibio, rivolto da un lato a qualche avvenimento negativo per l’Accademia che avrebbe costretto i suoi membri all’ozio e all’inattività; e dall’altro - in un senso più materiale - alla morte del corpo. In quest’ultimo caso, l’Otio e il Lethargo assumono quindi la valenza di caratte- ristiche proprie della condizione umana sulla terra. Si noti, peraltro, anche la scelta les- sicale: gravi sono definiti i riposi ed entrambi condividono un sapore squisitamente fisi- co; il verbo giacere, dal latino iacere, che significa etimologicamente “stare col corpo disteso”, si accompagna all’aggettivo mortale e alla peste1 (dell’Ozio).

Anche la seconda quartina mantiene l’ambiguità, corroborando l’idea che il sonetto si possa riferire in egual misura sia alla vita dopo la morte, sia alla scalata del monte Par- naso, dal momento che si parla di giogo alpestro, accompagnato dall’altrettanto indefi- nito attributo modale immortalmente. La sovrapposizione fra i due monti (insieme con le diverse implicazioni) viene quindi mantenuta: anzi, a ben guardare, il verso 8 («cui di gloria non son mete prescritte») sembra tradire la volontà di circoscrivere questa infor- mazione alla sola vita ultraterrena, nella quale - per definizione - non esistono distinzio- ni fra vincitori e vinti. Nella morte (e nella seguente rinascita) non c’è alcuna gloria e la circostanza descritta è attribuibile solo a questo frangente dal momento che il monte Parnaso assicura a chiunque coltivi con scrupolo e dedizione la poesia riconoscimenti anche materiali (che vengono esplicitamente espressi nel primo verso della terzina). Questa conclusione procede per esclusione, poiché sarebbe improbabile che per i cultori della poesia non siano previse mete di gloria, considerando che nelle terzine si elencano tutti i riconoscimenti e i privilegi per chi si distingue nella composizione poetica, com- presa la fontana che assicura immortal vita.

Tuttavia, entrambe le interpretazioni mi lasciano poco persuaso dato che, per giustifi- carle, si deve ricorrere a supposizioni e conoscenze date per scontate e troppo esterne ai collegamenti istituiti dal sonetto: Marino, soprattutto nei componimenti di risonanza collettiva, tende a inserire nella lirica tutte le informazioni necessarie per una chiara comprensione. Di conseguenza, sono dell’idea che il prescritte vada intenso in senso e- timologico, formato da prae («prima, avanti») e scribere («scrivere»), ovvero «scrivere

1 Di particolare impatto emotivo deve essere stata la parola peste, soprattutto in un contesto dove le

epidemie di peste sono avvertite ancora con grande paura. In Italia, infatti, si sono verificate diverse pestilenze in tre secoli: nel 1360, nel 1404, nel 1527-29, nel 1577-79, nel 1598 e nel 1629-30. Quella del 1598 viene definita peste francese dal momento che si propagò dalla Francia dapprima verso l’Italia orientale (Piemonte e Liguria) e successivamente verso tutta l’Italia centrale. Non sappiamo con sicurezza se Marino abbia usato questo termine volendo instaurare una relazione diretta con la propagazione della malattia, ma possiamo immaginare l’impatto emotivo non indifferente che questo termine deve aver suscitato nei primi lettori delle Rime, sicuramente ancora memori del triste contagio avvenuto pochi anni prima. Inoltre, questo passo delle Morali deve, al tempo, esser stato considerato di grande attualità dal momento che, dopo solo un trentennio, si ripresenta in tutta Italia il problema della peste.

prima» che, per estensione, diventa «assicurare». Le future mete di gloria, quindi, non sono sicure per il semplice fatto di essere parte di un’Accademia, ma perché - per il loro conseguimento - sono stati profusi sforzi e fatiche di non trascurabile entità. Inizia così a dipanarsi l’alone di mistero che impediva, all’inizio, una chiara attribuzione della liri- ca anche nelle terzine, nonostante l’equivoco venga mantenuto: la possibilità di attestare la validità di entrambe le letture sfuma, la linea di demarcazione si fa più labile e l’esegesi relativa all’Accademia Romana diventa preponderante.

In base a questa dedica, si può facilmente pensare - e a buon diritto - di ricondurre la stesura della lirica alla permanenza di Marino a Roma (se non al suo primissimo spo- stamento nella città, quasi certamente al trasloco definitivo avvenuto nell’ottobre del 1600). La datazione rimane tuttavia un azzardo, dacché il sonetto non fornisce alcuna notizia in tal senso: bisogna considerare inoltre l’eventualità che il Nostro concepisca e scriva questa lirica in un’altra città e che non abbia a che fare in prima persona con l’Accademia, ma che ne abbia solo sentito parlare1 (d’altronde, la Pomponiana ha da sempre attirato l’attenzione, negativa o positiva, del Pontefice il quale - solo per la sua autorità e influenza - assicura ad ogni notizia un’ampia risonanza; a questo bisogna ag- giungere che Marino, partito per Venezia da Roma, resterà sempre in contatto con l’Urbe). Ancora: il tono della lirica si rivolge alle Anime invitte e non a qualche perso- naggio specifico. L’invocazione ha una sfumatura troppo generalizzata per poter delimi- tare con efficacia il tempo per la composizione del sonetto. Scorrendo anche veloce- mente i versi, si ha infatti l’impressione che l’autore si concentri di più sull’elogio dello studio e della poesia che sul resto, descrivendo come questa possa essere inclemente an- che nei confronti dei suoi cultori i quali, d’altronde, non possono permettersi di praticar- la se non bagnandola esclusivamente col sudore della fronte.

Le due terzine ragionano, in ordine cronologico invertito, sul come ottenere la gloria in campo letterario e descrivono i privilegi della poesia che conseguono dal suo eserci- zio: prima di tutto il conferimento della corona d’alloro (simbolo del genio) e la cele- brazione ufficiale in Campidoglio (secondo l’esempio inaugurato da Francesco Petrarca l’8 aprile del 1341); la possibilità di attingere acqua alla fontana che stilla nettare per la vita immortale e che rappresenta il raggiungimento della cime del monte Parnaso; il compiacimento tutto personale derivante dall’esercizio della virtù, descritta come la pianta che conferisce onore a chi la coltiva (come nella parabola del seminatore raccon- tata dal Vangelo secondo Marco); infine, perché tutti questi obbiettivi si possano realiz-

1 In realtà, per quanto possiamo saperne, Marino potrebbe aver composto il presente sonetto durante il

viaggio che da Roma lo porta a Venezia per stampare le Rime: niente esclude questa terza possibilità e, anzi, i contatti fra il Nostro e l’Urbe sono supportati dalla testimonianza epistolare (durante la permanenza a Firenze, Marino scrive a Gaspare Salviano, raccontando le cortesie ricevute nella città toscana e annunciando l’imminente ripresa del viaggio).

zare, la necessità e l’obbligo (morale e non) di accostarsi alla pratica della poesia con passione e con buono studio.

Anche in questo sonetto, è facilmente visibile la cesura metrica che Marino inserisce fra le quartine e le terzine: la presentazione dell’argomento nella parte iniziale trova so- stegno e forza in quella finale, nella quale il poeta cerca di dare conforto ai suoi anonimi interlocutori prospettando loro una carriera felice e proficua, ricca di riconoscimenti e di risultati. Sopravvive un frammento della proemiale sovrapposizione fra Purgatorio e Parnaso nell’aggettivo riferito alla vita, immortale, qualità conferita dalle acque della non meglio identificata fontana. Stabilire se la fonte sia il Lete, l’immersione nelle cui acque simboleggia l’abbandono totale di qualsiasi memoria della vita mortale per ab- bracciare, senza indugi, quella immortale nel Regno dei Cieli, o la fonte Castalia, scatu- rita dallo sbattere di uno zoccolo di Pegaso contro la roccia, il cui zampillare trasforma chiunque in poeta, non ha più importanza. Quello che interessa in questa sede (e a Ma- rino in primis) è che il lettore trascenda dal particolare sonetto per imparare una lezione ben più universale: la poesia dischiude le porte dell’immortalità e il cultore che con pro- fitto la coltiva può ben aspirare all’eternità. L’ivi di inizio verso, la cui intensità viene ulteriormente sottolineata dall’attacco dattilico, demarca il principiare di un nuovo svol- gimento, caratterizzato da un reiterato gusto per il locus amoenus. L’impostazione è si- curamente da apprezzare: anziché usare i semplici caratteri del locus, Marino trasla alle situazioni descritte le peculiarità visive del paesaggio che intende dipingere. Accanto al

verde lauro e alla fontana che irrora con la sua pioggia le piagge circostanti, la virtù di-

venta pianta feconda e lo studio si trasforma nell’unica onda che può lambire la poesia: l’autore riconduce tutto ad un’unica area semantica, quella della natura, del verdeggiare, conferendo all’immagine un’idea di rigoglio e di freschezza che tocca il suo apice nell’equivoco creato dalla contrapposizione fra l’onda del sudore e l’onda che si riferi- sce alla fontana del verso 11.

La situazione conosce un notevole cambiamento man mano che il lettore si avvicina alla fine del componimento: l’iniziale condizione di inerzia e aporia che imprigionano le anime invitte è abbandonata; sebbene lo status sia debilitante e le difficoltà di liberarsi dal laccio del Lethargo remote, il «sorger vi veggio» introduce la possibilità di un ri- scatto1. È ufficialmente arrivato il tempo (con la seconda quartina) di sforzarsi di rag- giungere, speditamente, la cima del Parnaso: i passi si fanno veloci e presti (questa dit- tologia sinonimica rappresenta una forte contrapposizione al Lethargo e all’Otio di qualche verso prima). L’epilogo, infine, assume la forma di un elenco dei benefici che la poesia comporta. Difficile stabilire per quale motivo Marino abbia deciso di mettere il presente componimento nelle Morali, dato che - per quanto sentito e felicemente con-

dotto - l’elogio della poesia risulta poco attinente al clima generale della sezione. L’invito finale, per quanto vanti una chiara ascendenza illustre, è afferibile ad una esor- tazione rivolta ad un gruppo elitario più che un insegnamento universale; forse però era proprio questo l’intento della lirica: indirizzare il sonetto di chiusura della sezione ai cultori della poesia significa richiamare l’attenzione sulla sua importanza e sui suoi be- nefici. L’immortalità è il dono che essa concede a chi sa renderle giustizia e il destinare questo tema alla chiusura della raccolta delle Morali ha una valenza simbolica (dato che crea una contrapposizione fra la fugacità della vita descritta nella prima lirica) e concre- ta (gli sforzi profusi nello studio poetico - quelle che potremmo definire le sudate carte di Marino - verranno premiati pubblicamente riconosciuti). Questa preghiera accoglie (nel tredicesimo verso), nei meandri delle similitudini e degli equivoci stilistici, un iso- lato ricordo, un’influenza di origine dantesca, recuperata sia nella scelta lessicale sia nell’ispirazione generale del messaggio: l’idea centrale alla base di entrambe le produ- zioni verte sulla passione, sull’importanza di un accostamento intimo allo studio e sull’imprescindibilità del sentimento che instancabilmente deve guidare e condurre il poeta fra gli ostacoli tipici della sua attività. Marino, in più, sottolinea l’impatto fisico di questo impegno che, traducendosi nel crudo sudor, risalta con maggior forza e maggior concretezza se rapportato all’atmosfera generale, dominata dalla gentilezza dei termini e della vaghezza delle sensazioni. In modo analogo Dante, nel primo canto dell’Inferno, descrive l’eccitazione dell’incontro con Virgilio in questi termini:

«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?», rispuos’io lui con vergognosa fronte.

«O de li altri poeti onore e lume,

vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume»1.

Il Poeta esalta il maestro dapprima accostandolo ad una fonte (simile alla mariniana fon-

tana) e successivamente rendendolo edotto della grande dedizione e dell’instancabile

amore che lo hanno mosso alla ricerca della sua opera: il Nostro riutilizza il termine

studio rievocandone, nello stesso momento, il contesto (senza il quale non si potrebbe

parlare di vera e propria citazione).

Marino decide di chiudere la sezione delle Morali con un’esaltazione della poesia, dei suoi effetti e riconoscimenti e, cosa non di poco conto, della fatica che soggiace alla ste- sura di qualunque composizione, per quanto banale possa sembrare e per quanto poca gloria possa riscuotere. La costruzione del sonetto, a questo punto dell’analisi, si spiega con maggiore facilità: la primissima parte (la prima quartina) rappresenta un bilancia- mento al primo sonetto delle Morali. Il movimento ascensionale che si è riconosciuto

lungo tutta l’unità poetica è costante e trova nell’ultimo componimento, e in particolare nella formula «sorger vi veggio», il suo apice più alto. Questa volontà si accompagna con un congedo universale: la mente del poeta, volendo unire queste due funzionalità, ha genialmente pensato ad un progressivo migrare da un piano allegorico all’altro, cre- ando una fine sovrapposizione fra Purgatorio e Parnaso. Quest’ultimo tema dà l’occasione di disquisire più liberamente sulla poesia e sulle sue implicazioni, su quanto sia difficile il lavoro del poeta e su quanto possa dimostrarsi insidioso il volubile gusto del pubblico (non sempre, infatti, è assicurato il successo).

In realtà, nascosto fra la selva di similitudini e metafore, è presente un messaggio mo- rale anche per il lettore (distinto dalle anime dell’Accademia), il quale è invitato ad ave- re riguardi nei confronti del generale lavoro poetico (a prescindere dalla sua entità, im- portanza o estensione), onorando il cultore della materia e sforzandosi di riconoscerne gli sforzi che, più o meno tacitamente, si agitano dietro ad ogni composizione. Marino invita quindi al rispetto, valore imprescindibile per la convivenza e per l’armonia della comunità umana: col plasticismo di quest’ultima composizione il Nostro riesce a evi- denziare con forza, anche semplicemente accennandole, le difficoltà del fare poesia, le probabilità - sempre in agguato - che il proprio lavoro non piaccia e le delusioni che ne derivano. Marino tratteggia con pennellate leggere i retroscena del significato di poeta, ponendo attenzione per la prima volta al “dietro le quinte” dell’ispirazione, dimostrando anche al più profano e scettico (non si dimentichi che da quanto esistono gli Studi e le Università si è sempre discusso su quale fosse la materia più importante e quale la più difficile) come la poesia possa essere fautrice di privilegi e di inconvenienze, riscattan- do la figura del letterato del quale si tende sempre a sottovalutare l’importanza e met- tendo in rilievo l’impegno intellettuale e lo sforzo fisico che devono sottostare a qualsi- asi composizione, persino a quella che - in superficie - appare semplice e banale.