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Arcipelaghi: note per un'urbanistica della metropoli e del disastro in Giappone

CAPITOLO 4 CONCLUSION

2. Arcipelaghi: note per un'urbanistica della metropoli e del disastro in Giappone

Tokyo, o pieni vuoti. Il paesaggio urbano si avvicenda rapido dal finestrino del piccolo vagone metropolitano. È primo pomeriggio, quindi non c'è l'affollamento tipico della mattina e ci si può sedere. Passiamo da diverse stazioni, senza fermarci (è un treno kyūkō, espresso) e scorgo brevemente gli ideogrammi toponimi, che con i mesi ho lentamente imparato a riconoscere e interpretare. Leggere gli ideogrammi è difficile all'inizio, perché l'occhio indugia su ogni parte, senza trovare appigli: così tanti minuti segnetti, spesso con differenze minime tra loro! Gradualmente, invece, con lo studio quotidiano, ho imparato a scinderli in radicali, commutarli, intuitivamente discernere le differenze e a volte anche ipotizzare le possibili pronunce. Anche la “lingua del diavolo” si può imparare.

Arrivo alla mia fermata, che è anche il capolinea: Shinjuku. Nonostante il mio treno sia semivuoto, la stazione come al solito pullula. Zigzago tra la gente, districandomi per corridoi e scale fino a raggiungere l'uscita e pago la corsa con la mia tessera Pasmo (una sorta di carta Oyster su cui si può caricare credito da spendere per le corse metropolitane, ma anche per comprare bibite ai distributori o, più recentemente, fare la spesa al konbini). Ho una certa premura, perché ho un appuntamento di lavoro, lezioni di italiano. Svicolo tra i palazzoni attraversando i viali che conosco, ignorando quelli che mi porterebbero fuori strada e raggiungo il landmark convenuto con la mia cliente, la signora Mayumi.

Barthes (2002) ha scritto sull'anonimia delle strade tokyoite: non ci sono numeri civici disposti in modo progressivo, vige la non-classificazione. Per spostarsi e trovarsi si usano “espedienti” (p. 33), piccole mappe improvvisate, disegnate su quel che capita (tovaglioli di carta, retro di biglietti da visita, post-it). Un interlocutore intento a disegnare una piantina di questo tipo ha affascinato il semiologo francese, che ha scritto “the fabrication of the address greatly prevailed over the address itself” (p. 35). Ne convengo, anche se da una prospettiva meno testuale-interpretativa: la pratica, nella quale ormai mi ero impratichito, di aggirarsi tra le vie, ricercando spots orientativi, negozi, monumenti, edifici significativi nell'olimpico panorama tokyoita era molto più complessa e affascinante che non muoversi freddamente da un punto A a un punto B seguendo l'informatività logica del sistema via-numero civico.

La signora Mayumi prende lezioni di italiano sorseggiando un cappuccino al Caffè Segafredo, ai margini del famigerato Kabukicho, il vecchio quartiere dei piaceri di Shinjuku. Io ordino un té freddo e il cassiere esclama “Un té freddo per favore!” in italiano. L'italiano è come rappreso nell'aria, al Caffè Segafredo, si aspira dai vapori dei cappuccini e si sbocconcella con i baci di dama alle mandorle. Leggiamo qualche articolo di giornale e poi ci cimentiamo in una breve conversazione, sorseggiando le nostre bevande; nessuno ci disturba, nei bar giapponesi si svolge ogni tipo di business nell'indifferenza generale, cosa impensabile in Italia.

Sulla via del ritorno ripercorro gli snodi dell'andata, con lievi variazioni – una sosta al chiosco della signora Nagase per prendere la cena, yakisoba casalinghi, una breve pausa fuori dalla stazione di Komae per fumare una sigaretta nel gabbiotto recintato del box fumatori, quattro passi lungo il Tamagawa, gli occhi puntati all'orizzonte in direzione del Fujisan, lontano, sfocato. Sembra una nuvola, una suggestione, eppure proprio ieri si vedeva bene. Penso alle strade non prese e ai collegamenti mancati, al fatto che la mia esistenza è cresciuta come un organismo attraverso i vincoli delle linee metropolitane e le possibilità dei lavoretti, delle consulenze, della ricerca sul campo. Ho calcato i marciapiedi di questo e quel quartiere, mentre altre strade e altre vite mi sono rimaste precluse, meri nomi, ideogrammi di passaggio e sagome indistinte lungo la mia strada, eppure i luoghi della vita sono diversi per tutti, e ogni snodo è percorso da qualcuno.

Tokyo è una città enorme eppure si finisce per percepirla in modo razionale, cioè discreto: qualche chilometro quadrato nel quartiere del luogo di lavoro, un raggio forse più ampio intorno alla propria casa, i luoghi di ritrovo, l'izakaya, il konbini preferito. Ci sono sovrapposizioni esplicite, come Hachiko, attrattore di centinaia, migliaia di appuntamenti giornalieri a Shibuya: “Ci vediamo da Hachiko alle quattro!”, quante volte l'ho detto o scritto. Ci sono luoghi più intimi, come Mejiro, un capannone anonimo tra altri capannoni dove ho insegnato per troppi pochi mesi rudimenti di scherma rinascimentale a una classe di ragazzi perplessi. La mappa cognitiva della Tokyo somatica, esperita e toccata, è come l'ikura gunkan o un omuncolo corticale: magnifica luoghi e interstizi in base al mobile esserci, impregnato di sensi e sensazioni che magnificano il territorio e lo riempiono di senso. C'è un lungo tunnel, nella mia Tokyo, una via di fuga sulle montagne, un'ora e mezza di treno per arrivare a Okutama, cittadina tenacemente avvinghiata sulle irte pendici, irsute di pini. È dipinta con i vividi colori dell'inaka, il verde intenso dei boschi, l'odore del terriccio, i richiami delle scimmie che giocano in equilibrio sulle reti metalliche. Nessuna mappa riporterà mai questi “colori” né la legenda per interpretarli. Intorno a queste linee, a queste concrezioni esistenziali, ci sono quelle degli altri, pienezze per me in gran parte vuote. La socialità si plasma intorno alla condivisione dei luoghi come descritti da Francesco Ronzon (2008): “uno spazio abitato […] un mezzo e un risultato di azioni, non come un mero contenitore […] un qualcosa di intimamente coinvolto e che non può essere separato da esse” (p. 11), i quali a loro volta sono densi di azioni, pratiche e abitudini.

Ishinomaki, o vuoti pieni. C'è un altro cimitero a Ishinomaki, oltre a quello sui fianchi della collinetta (cfr. cap 2, par. 1). È al porto, un grande spazio recintato pieno di rottami di automobili; si può osservare bene dal tempio shinto sulla collina più alta della città, scampato al disastro. Nella gelida primavera del Tohoku, i boccioli dei prugni si schiudevano timidamente incorniciando il desolante panorama della costa con delicate punteggiature pastello.

Dietro al cimitero delle automobili si stendono due grandi spiazzi polverosi nei quali si possono ancora intuire le fondamenta di piccoli edifici, presumibilmente un quartiere residenziale prima dell'onda. Discorrendo con gli altri volontari e con qualche autoctono, vengo a sapere che il vero dramma per chi aveva una casa a Ishinomaki è la demolizione della stessa, opera dai costi incredibilmente alti. Peraltro non è più possibile tornare ad abitare negli edifici apparentemente risparmiati dal disastro, perché l'acqua ha già silenziosamente danneggiato il legno delle strutture e gli impianti elettrici oltre ogni possibilità di riparazione. Nessuno passa quasi mai di qui.

Alle domande poste da Gianluca Ligi (2009) sulla ricostruzione post-disastro, “Che fare delle strade, delle piazze, delle abitazioni ridotte in macerie? Rifarle tutte perfettamente uguali a com'erano prima del disastro, oppure riprogettarle in modo differente? Rifarle lì, nello stesso identico luogo, oppure altrove?” (p. 77) non è stata data risposta, come se la portata della tragedia avesse irrigidito la mano e fissato l'occhio nell'abisso dell'horror vacui. “Non è sufficiente” continua l'antropologo “ricostruire la struttura fisica dei luoghi, se non si tiene conto della struttura del sentimento che li anima; né, d'altro canto, è possibile occuparsi del recupero affettivo, emotivo, psicologico, relazionale delle vittime in modo del tutto indipendente dai luoghi in cui si trovano, dalla ricostruzione fisica dei riferimenti concreti” (ibid. corsivo mio). Il rapporto di mutuo sostentamento tra persone e luoghi (mai spazi), che regola la quotidianità pratica dell'esserci, di quella presenza al mondo tanto cara all'etnologo De Martino (1973, 1977) viene meno se i tentativi di ricostruzione si concentrano unicamente su una faccia del problema. Ma le cicatrici e le memorie a volte impediscono tanto il recupero dei luoghi quanto quello delle presenze, lasciando solo rottami contorti da contemplare, o spiazzi vuoti e case vuote.

I nuovi landmark di Ishinomaki si dividono in due grandi categorie: macerie e novità. Le prime sono il cimitero delle auto, il Mangattan, la futuristica sagoma del museo dei manga, evacuato e riaperto nel dicembre 2012, dopo la mia partenza dal Giappone (le mie geografie pratiche andrebbero aggiornate), la statua della libertà di Ishinomaki, un deposito dell'acqua rovinato al suolo, troppo massiccio per essere spostato, che ora sembra un frutto caduto rosso ruggine, in parte schiacciatosi al suolo. Le ricostruzioni sono state poche, qualche konbini, un paio di edifici logistici, una grande e rumorosa sala pachinko, sempre molto affollata. Ci si sposta in auto o al limite in bicicletta: gli ampi spazi vuoti rendono poco pratiche le passeggiate, specialmente d'inverno.

Ho scavato lungo la costa, insieme agli altri volontari, dissotterrando frammenti di vite. Tegole, materiale isolante, travi di legno marcite, vetri rotti, ammucchiavamo tutto secondo il materiale, perché potessero portarli via con i camion. A volte la terra fredda rivelava oggetti meno neutri, più pregni di presenza, come una palla da baseball autografa (dopo numerosi tentativi di recapitarla agli eredi del legittimo possessore andati a vuoto, ora riposa sulla mia libreria), piccole rane di terracotta

poste vicino alle fonti d'acqua dei giardini come numi tutelari, trofei di tennis, ossa. Un cane? Un uomo? Mentre aspettiamo la polizia per l'identificazione (pratica obbligatoria in questi casi), ci fermiamo a osservare il mare, irrequieto quel giorno, spumoso di bianco intorno ai bōhatei, i frangiflutti ammassati a decine e decine lungo la costa, consumando il nostro bento, salato dal vento di mare.

Il Tohoku post-disastro è un luogo in cui muoversi è difficile. Non per le ripide stradine di montagna, i faraglioni di roccia a ridosso del mare e il clima impervio, ma per l'assenza di quei “riferimenti concreti” che un tempo veicolavano la presenza e le pratiche e che ora sono diventati nel migliore dei casi monumenti alla resilienza strutturale, nel peggiore tabula rasa. Il riflusso si è portato via macerie, automobili, innumerevoli vite umane, ma anche habiti, saperi, bellezze. Il nare (cfr. Cap. 2 Par. 1), la patina unta di vita vissuta che ricopriva la città è stata erosa dal sale e ora rimangono superfici lisce, prive di appigli.