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CAPITOLO 4 CONCLUSION

3. La percezione come pratica

Una delle novità più importanti introdotte dall'antropologia di Tim Ingold è stata una nuova concezione del rapporto tra individuo e ambiente, volta a rigettare l'idea della percezione come “salto” da un esterno al sé verso l'interno della mente. L'antropologo ecologista Francesco Ronzon, curatore con Cristina Grasseni della traduzione dei saggi di Ingold in Italia e autore di numerose ricerche (Ronzon 2002, 2008, 2009 etc.), ha nelle sue pubblicazioni sistematizzato e commentato questo approccio.

Nell'antropologia ronzoniana, l'ambiente ha un ruolo predominante nelle descrizioni etnografiche (cfr. Ronzon 2006): il paesaggio sensoriale che circonda il ricercatore e i suoi interlocutori è fittamente intrecciato con le pratiche e le tecniche di chi vi interagisce; citando il naturalista tedesco Jacob von Uexkull (2010), l'antropologo si rifà al termine di umwelt per indicare “l'ambiente inteso come insieme delle caratteristiche territoriali a cui è sensibile un certo animale” (Ronzon 2008: 41); da questa premessa possiamo dedurre che diversi animali posti in uno stesso spazio, abiteranno luoghi diversi – intrecciati a vari livelli gli uni con gli altri – in relazione alle caratteristiche dei loro corpi e delle loro necessità, compresi naturalmente gli esseri umani. “Ben prima del linguaggio sarebbero […] i vari incontri del corpo umano con i suoi ambienti quotidiani a generare quella larga matrice di esperienze motorie e percettive che costituiscono le strutture elementari del senso del luogo” (p. 42, corsivo mio).

Per converso, avvicinandoci alla mente umana e a come essa interagisce con l'ambiente, trovo utile adottare l'ipotesi di Gregory Bateson (1979) per cui la connessione tra la mente e l'ambiente non si configuri come un “salto” dall'interno verso l'esterno (o viceversa, nel caso della percezione), “bensì

come un legame emergente” (p. 60). Quest'ipotesi, raccolta da Tim Ingold e da lui sintetizzata con la psicologia di James Gibson (1979) e la socioantropologia di Pierre Bourdieu (1972), tratta dei sensi non come di canali atti a ricevere un corpus di informazioni “già lì”, oggettivamente date, e della mente come un “calcolatore” che elabora dagli input una rappresentazione interna della realtà; ma di un complesso sistema cognitivo orientato alla ricerca attiva (“to pick up”, p. 62) di indizi, legato “[alle] azioni, [agli] interessi e a [alle] pratiche di esplorazione del soggetto percipiente” (Gibson, citato in ibid., corsivo mio). Le pratiche quindi sono al centro del rapporto tra uomo e mondo in quanto classi di azioni sistematizzate ed apprese in modo implicito o esplicito.

Nella categoria delle pratiche si inscrivono anche – e qui entriamo nel vivo della questione – le abilità visuali, vere e proprie “tecniche del corpo” frutto dell'apprendimento imbricato nell'ambiente. Analizzando la complessa cultura visuale degli operatori voodoo di Haiti (serviteurs), Ronzon (2002) ha individuato alcune caratteristiche nelle abilità visuali dei suoi interlocutori utili ad approfondire il concetto: per prima cosa, evidenzia una particolare attitudine all'analisi figurativa delle fotografie, dei murales e delle insegne di Haiti, che riconduce al diffuso analfabetismo dei suoi interlocutori; allo stesso tempo dal ricco ambiente visuale dell'isola, i serviteurs estraggono i dettagli funzionali (come determinati colori e sagome) riordinandoli secondo le conoscenze e le priorità proprie della magia caraibica, secondo una coltivata attenzione appresa implicitamente e discreazionalmente durante il loro apprendistato (cfr. Ronzon 2002, pp. 57-60).

Approfondendo il concetto di educazione della percezione, Ronzon (2009: 49) cita Baxandall (1972), storico dell'arte che ha voluto analizzare l'ipotetico bagaglio di abilità visuali (o “occhio del periodo”) col quale un artista o un fruitore d'arte del Quattrocento italiano analizzava i dipinti in quanto stimoli visivi complessi; la novità introdotta da Baxandall fu di mettere da parte “l'esegesi letterale e narrativa dei motivi figurativi” (p. 50) e di includere nel bagaglio culturale dell'osservatore il “più ampio ed eterogeneo mondo di pratiche culturali ed esperienze sociali disponibili al pubblico dell'epoca” (ibid.), portando in primo piano gli habiti storicamente determinati di un gruppo sociale, quali potevano essere la conoscenza delle complesse classificazioni delle vicende neotestamentarie o la capacità di calcolare a occhio i volumi, le proporzioni e i rapporti, tipica dei commercianti, in quanto articolazione del loro approccio sensoriale (v. anche Geertz 1983: 130-32).

Baxandall nella sua analisi esplicita una serie di fattori che, con un certo grado di generalizzazione, possiamo postulare anche negli sguardi tokyoiti sui sanpuru. Prima di tutto una prima scomposizione e classificazione tipologica del piatto in base alle stoviglie in cui è servito: i piatti piani, le ciotole o i cestini per fritti individuano tassonomie pratiche di consumo; le pietanze al piatto in genere si mangiano con fochetta o cucchiaio, come il kare-raisu, mentre gli hashi sono di

rigore per tutto ciò che è servito in donburi, ciotole per riso di dimensioni variabili, una sotto- categoria delle quali individua anche i piatti omonimi, che consistono in una base di riso con un topping companatico variabile (carne di manzo, pollo, uova, tonkatsu etc.) e per i vari tenpura, le fritture, che ultimamente vengono serviti in cestini di bambù intrecciato.

Un primo discrimine quindi, tocca il tipo di stoviglia in cui il cibo è servito e con quali posate viene consumato, il che individua naturalmente una classe di pratiche cinestetiche ben precisa. Tra gli ulteriori possibili clues che un osservatore isola dal contesto del sanpuru, senza dubbio individuo la lucentezza, soprattutto nei piatti come il ramen o i donburi. Nelle pietanze “reali”, come ho già osservato altrove (Cap. 3, par. 2), i caratteri della lucidità e della lucentezza vengono magnificati attraverso stratagemmi fotografici o particolari set di riflettori, mentre nei sanpuru la luce esterna e gli angoli di incidenza dello sguardo non sono valori posto sotto il controllo dell'artigiano. Per suggerire una superficie lucente, dovuta all'abbondante presenza di grassi nel brodo, vengono quindi utilizzate sostanze che mimano il comportamento del grasso, creando una patina trasparente che copre gli ingredienti. Si noti che in questo caso la scelta del tipo di materiali per massimizzare la resa estetica del modello in quanto “lucido” – mi astengo dall'utilizzare la categoria di “realistico” in questo caso perché si tratta solo in parte di attinenza all'attuale qualità dell'originale, quanto a un'inferenza estetica e tacita sull'appropriatezza della patina di brodo grasso – rappresenta un buon esempio di skill artigianale gelosamente custodita. Il ventaglio di materiali possibili e disponibili in commercio per realizzare quest'effetto è naturalmente noto a chiunque pratichi il mestiere, ma l'utilizzo esperto e contestuale dei mezzi rappresenta una dimensione altamente qualificante, piuttosto che una mera esecuzione strumentale.

In ultimo, chiamando in causa qui quella classe di modelli definiti “dinamici” (cfr. Cap. 3 par. 3-4), un occhio esperto nella cucina giapponese saprà inferire, sulla base delle similitudini nella consistenza – ad esempio la densità del curry, a sua volta dotato di particolari caratteristiche di rifrazione della luce, variabili tra diversi tipi di curry – e nella disposizione dinamica, riconducendole a determinate classi di cibi, come appunto curry, spaghetti, ramen, pizza con mozzarella filante... Come le stoviglie e le posate, la consistenza a sua volta è generalmente implicata con le pratiche del consumo e della preparazione, rappresenta uno snodo di significazione in una rete di pratiche ed estetiche del cibo, determinate da e determinanti il corpus storico di conoscenze pratiche relative degli abitanti di Tokyo, di Ishinomaki o in generale del Giappone – al netto delle specificità regionali e locali. Tali pratiche sono in gran parte implicite nell'inculturazione infantile e vengono trattate entro modalità didattico-discorsive solo in relazione a specifiche competenze, come ad esempio la cerimonia del té (chanoyu), analizzata da numerosi antropologi (ad es. Kondo, in Howes 2005; Kato 2004), nella quale vengono rigidamente definite e

contestualizzate le pratiche del consumo del té, che vanno a sovrapporsi con quelle dell'apprezzamento dello stesso.

Non mi dilungherò nella descrizione delle sottigliezze della cerimonia – o per meglio dire delle cerimonie, in quanto diverse correnti se non diversi maestri presentano una grande variabilità nei precetti e nelle forme – tuttavia in questo caso l'aderenza tra la formalità del gesto e l'appropriatezza dello stesso è un buon esempio di come la sensorialità esperta determina in buona misura anche il bagaglio estetico che la contraddistingue; scrive Kondo: “By its precise orchestration of sequence and the interrelations among symbols in different sensory modes, the tea ceremony articulates feeling and thought, creating a distilled form of experience set apart from the mundane world” (p. 208). L'autrice riconduce la dimensione eticamente e storicamente “sospesa” della cerimonia alla rigidità del suo ritualismo, riecheggiando con la pretesa dei nativisti del movimento jikkan (v. Cap. 3 par. 5) di percepire il “vero” (jitsu) attraverso le sensazioni (kanji) date da determinati stimoli culturalmente ricchi, come la trama ruvida del tatami, o la posizione seduta seiza, resa desueta e indesiderabile dalle sedie. Mi dissocio naturalmente dalle implicazioni essenzialiste sia dei nativisti che di Kondo, ma l'importanza riconosciuta da entrambi allo stretto rapporto tra le pratiche esperte dei corpi e la dimensione estetica propria di un sistema culturale conferma la tesi sostenuta in queste pagine secondo la quale la percezione si può configurare come una pratica, e in quanto tale suscettibile di enskillment.