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CAPITOLO 2 LA MANO: PERFORMATIVITÀ E SINESTESIA

3. Autunno: Takoyaki

frettoloso invito al takoyaki party degli amici di una mia conoscente. Senza avere idea di cosa fosse un takoyaki party, misi un cappotto pesante e mi avviai con qualche incertezza verso la stazione di Komae (il mio quartiere), seguendo ciecamente le coordinate che mi erano state date: raggiungere la data stazione, cambiare col dato treno, scendere alla tal altra stazione e via così, una serie di incroci e connessioni che avrebbero nel giro di dodici mesi plasmato un vero e proprio arcipelago cognitivo urbano, fatto di cambi, linee, in cui la conoscenza di ogni singola fermata si irradiava dalla stazione e talvolta – ma raramente – arrivava a fondersi con la mappatura del quartiere vicino. Il viaggio per raggiungere la residenza dei miei ospiti fu piuttosto lungo, almeno tre cambi di linea, ma per fortuna alla stazione di arrivo fui accolto e accompagnato dalla mia amica – Yuki, una ragazza che avevo conosciuto via internet come pen pal per lo studio del giapponese. Camminammo a lungo, sferzati dal vento gelido per parecchio in un quartiere residenziale poco illuminato, massicci blocchi condominiali di cemento alternati a sparute detached house alla giapponese, rialzate dal suolo e circondate da una strisciolina di verde. Scambiamo qualche parola, ma il freddo e la fame ci fanno presto zittire, tirare su i baveri e allungare il passo.

Al pianterreno di un anonimo condominio raggiungiamo l'appartamento con ingresso indipendente dei coniugi Yamada, una giovane e allegra coppietta stipata in un bilocale caotico. Il genkan ingombro di scarpe e ombrelli si apriva direttamente sulla cucina, le pareti adorne di sportelli e utensili appesi. Armeggiai fin troppo a lungo con le stringhe delle scarpe chino nell'ingresso – sebbene il gesto di togliermele e metterle fosse naturale, farlo appena entrato in casa d'altri, ancora prima delle presentazioni, mi riusciva innaturale e imbarazzante – e finalmente riuscii a entrare a casa Yamada, ponendo il piede sul pavimento rialzato. Si complimentarono a lungo per il mio giapponese usando l'espressione “jōzu desu ne”, una strategia di disimpegno già notata con acume da Will Ferguson nel suo “Autostop con Buddha” (2009):

“I giapponesi amano profondersi in elogi inutili a favore degli occidentali. Se un occidentale riesce a maneggiare i bastoncini, loro gli fanno i complimenti per l'eccellente coordinazione oculo-manuale; se riesce a intercettare un pop fly debole nel campo di sinistra, riceverà elogi per la sua abilità sportiva; se impara a dire ciao in giapponese, verrà lodato per la pronuncia fluente e così via” (p. 15).

Decidemmo infine di metterci “a tavola”, vale a dire intorno al chabudai pieghevole del salotto, contiguo alla cucina ma tappezzato da tatami. La signora Yamada estrasse dai recessi della cucina un fornelletto a gas – allora non lo sapevo ma sono un elemento necessario e onnipresente in tutte le cucine giapponesi, io stesso ne avrei comprato uno nel giro di poco – e una piastra di ghisa formata da numerose semisfere cave. Nel frattempo suo marito aveva ammassato sui bordi del tavolo una

grande quantità di ingredienti, tra i quali riconobbi i frammenti di pastella fritta tenkasu, il cavolo cinese, lo zenzero shōga, carne di maiale, formaggio, tentacoli di polpo tako tagliati a cubetti. Mentre i coniugi, a turno, mi facevano domande in un misto di inglese e giapponese sull'Italia, su come trovavo il Giappone, complimentandosi sempre molto del mio timido giapponese (“jōzu desu ne!”) col quale rispondevo.

Non nego che le mie esitazioni linguistiche mi avevano messo in uno stato di lieve imbarazzo, specialmente di fronte all'ospitalità e alla generosità dei miei nuovi amici, quindi con l'inizio dei preparativi mi risollevo, sperando di spostare il fuoco dell'attenzione dalla lingua parlata alle pratiche culinarie. Preparare i takoyaki è facile, si usa una speciale pastella fatta con la polvere apposita (consistente in farina, katsuobushi polverizzato e addensanti) mista ad acqua e uova. Dopo aver unto la piastra e averla scaldata, si versa la pastella in ognuna delle semisfere riempiendole, quindi si prendono porzioni dei vari condimenti e si depositano nelle piccole pozze formatesi. Il contenuto canonico di un takoyaki sarà naturalmente il tako, il polipo, tagliato a cubetti, accompagnato eventualmente da panko, cavolo tritato e shōga, ma le variazioni fanno parte dello spirito del takoyaki party. Quindi si passa alla parte più impegnativa e ludica dell'operazione, ovvero rigirare le semisfere di pastella ormai semi-solida e condimenti, con l'utilizzo di uno speciale utensile appuntito (sospetto fosse originariamente un punteruolo per rompere i blocchi di ghiaccio esattato come strumento ruota-takoyaki). Si tratta di una performance di buon tempismo e destrezza, in cui si valuta se il fondo del takoyaki è cotto a sufficienza, si insinua la punta acuminata della bacchetta sotto la pastella e con una decisa mossa semicircolare si rivolta il boccone, portando così la parte superiore a contatto con la ghisa per completare la cottura. La cottura ideale di un takoyaki porta la parte esterna a diventare leggermente dura croccante, ma non ad annerire.

Una volta pronte, le palline vengono tirate fuori, messe nei piatti e condite con salse in abbondanza. Anche il, il canone è la salsa takoyaki, un condimento molto simile alla salsa okonomiyaki (v. par. 4 di questo capitolo), basata quindi sulla Worchestershire, ma meno forte. Come con l'okonomiyaki, dopo una spennellata di salsa scura, si aggiunge un filo di maionese al karashi. Una spolverata di aonori (alga essiccata e polverizzata) e un pizzico di katsuobushi completano l'opera. Mangiare i takoyaki è molto impegnativo, perché se l'averli ricoperti con salse ha certamente intiepidito lo strato esterno, la parte interna ancora semiliquida rimane normalmente incandescente. Per raffreddare l'interno della bocca si inspira quindi aria attraverso le labbra, producendo un risucchio molto simile a quello di chi mangia gli spaghetti in brodo rāmen – che anche in quel caso ha la stessa funzione. In entrambi i casi, in pubblico, il risucchio è considerato cattiva etichetta per le donne, ma una virile concessione alla grettezza per gli uomini.

consumazione si configurano in una cornice di giocosa performance, cui ogni convitato partecipa scegliendo i condimenti, armeggiando col suo punteruolo, producendo successi – bei takoyaki perfettamente sferici, cotti in modo uniforme – o fallimenti, assaggiando le sue creazioni e quelle altrui in cui anche il gustare i sapori ha una sua performance e una sua classe di vocaboli – il più comune certamente è oishii, “buono”, declinato a volte in un più mascolino umai. Il risucchio dell'aria, quando si addenta un takoyaki particolarmente rovente, è fonte di risa e compatimento. La particolarità di questa attività – e delle altre simili, come il nabe o lo shabu-shabu – è che la preparazione e la consumazione di questi piatti non sono separate né escludenti: si passa dal cucinare al consumare e poi nuovamente al cucinare in modo fluido. Alla fine di un giro di takoyaki, infatti, si pulisce la piastra con un pezzetto di carta assorbente intinto nell'olio e si procede a una nuova distribuzione della pastella, che quando termina segna in genere la fine del party. Ad accompagnare i takoyaki vi sono bevande conviviali, generalmente alcoliche, come la birra o il più amabile umeshu, un leggero liquore distillato dal prugnolo giapponese ume, tendente al dolce e servito con ghiaccio.

Dopo il pasto mi trattengo ancora un po' per chiacchierare – per quanto mi è concesso dal mio giapponese e dal loro inglese – e infine mi congedo, rifacendo la strada a ritroso verso la stazione in compagnia di Yuki.

Il takoyaki nacque a Osaka e del Kansai mantiene quella grezza sostanzialità che condivide con l'okonomiyaki, insieme alla preparazione alla piastra. Nella strutturalità Levi-straussiana sicuramente ricadrebbero tra i piatti “arrosto”, i piatti più “naturali” in quanto cotti dall'azione non mediata del fuoco. Ancora, questa specialità nasce all'inizio del Novecento, precisamente intorno agli anni Trenza, senz'altro come alternativa al riso, che dapprima subì un vertiginoso aumento dei prezzi e in seguito fu persino razionato dalle autorità militari (cfr. ad es. Cap. 1, par. 7). Un piatto povero e “naturale” dunque, da accostarsi a un suo diretto opposto, lo shabu-shabu, uno stufato – lesso e quindi “culturale” – molto costoso e prelibato.