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CAPITOLO 3 L'OCCHIO: PERCEZIONE E RAPPRESENTAZIONE

4. L'impero dei sensi

Wim Wenders nel 1985 ha dedicato una parte del suo documentario Tokyo-ga (“Immagini di Tokyo”) ai sanpuru, immortalando con sguardo quasi etnografico un vivace laboratorio artigiano in cui ancora si lavorava con la cera. Indugia a lungo sulle mani e sui movimenti esperti degli scultori, senza nessun tipo di commento o colonna sonora, lasciando che i rumori di sottofondo accompagnino la visione. Il sanpuru per Wenders diviene una metafora del film, una riproduzione artistica della realtà, la cui costruzione talvolta, morfologicamente, si sovrappone ai processi degli eventi reali: per realizzare un tramezzino di cera l'artigiano dispone prosciutto, insalata e fettine di pomodoro tra due fette di pane e quindi taglia il tutto con un coltello arroventato. Il sanpuru diventa una copia dell'oggetto empirico, ma allo stesso tempo ne è icona, simbolo, in un eterno girotondo semiotico nel quale è impossibile definire con sicurezza cosa è vero e cosa non lo è.

Questa “doppia valenza” fa del sanpuru un oggetto di studio complesso e spesso sfuggente. Da un lato resta un sine qua non nelle vetrinette degli shokudō dei grandi tāminaru depāto, un mezzo per attirare l'attenzione dei potenziali clienti nei corridoi sotterranei gremiti di pendolari, per velocizzare la scelta, per indurre l'affamato viaggiatore a fermarsi, sedersi, ordinare. In questo senso è sul suo realismo che si basa la facoltà mimetica di suggerire all'osservatore non semplicemente un sapore o un profumo, ma l'atto estremamente denso di sedersi al bancone e gustare un piatto.

I sanpuru di buona qualità riescono a suggerire non solamente textures e colori ma, con smalti e vinili modellatiad arte, rievocano la lucentezza e la liquidità in modo sorprendente. Alcuni modelli particolarmente audaci riescono a suggerire la consistenza e la densità attraverso disposizioni

dinamiche in cui, ad esempio, la forchetta impugnata da una mano invisibile regge una cascata di spaghetti al pomodoro che emergono dal piatto, o una salsiera metallica di foggia indiana versa un fiotto di curry vellutato, solcato da morbidi bocconi di verdure stufate su un letto di riso candido. Questi trompe l'oil sinestetici stimolano non tanto l'occhio o la lingua, ma quella sottile tattilità propria della bocca, dei denti e della gola, che Barbara Kirshenblatt-Gimblett chiama appropriatamente mouthfeel (Kirshenblatt-Gimblett 1999: 6), la cui cogenza con la gastronomia e la cucina è stata forse sinora sottovalutata. Con grande acume, Roland Barthes osserva che le textures e le densità, accuratamente ricercate, delle pietanze e delle stoviglie giapponesi sono, come in un dipinto, pregne di quella «qualità meno immediatamente visiva, la qualità più profondamente connessa al corpo (inerente al peso e al lavoro della mano che traccia o copre) e che non è il colore ma il tocco» (Barthes 1984: 17).

Se andiamo oltre la finalità classica del sanpuru di attirare clientela nei ristoranti, accediamo al secondo livello di rappresentazione, ovvero i modelli differenziati. La dialettica messa in atto dai negozi di Kappabashi in questo caso vorrebbe il sanpuru come una piccola immagine portatile della cuisine giapponese da usare come portachiavi o accessorio per cellulare, il che subordina decisamente le facoltà mimetico-evocative in favore di una iconizzazione, rivolta a sé stessi e agli altri in forme visivamente discorsive, meno sinestetiche. Questa fancyness del cibo come ornamento o simbolo di status si può interpretare come un ripiegamento semiotico, in cui il sanpuru diventa un simbolo di sé stesso: spogliato dalla sua funzione originale e investito di funzioni secondarie – probabilmente tutti hanno bisogno di una chiavetta USB, ma nessuno ha bisogno di una chiavetta USB a forma di uramaki sushi – diventa o un modo trendy di esprimere una preferenza culinaria, per esempio usando un mini-boccale di birra come portachiavi, o il marchio iniziatico di una competenza specifica, per esempio essere un fan dei sanpuru. A sua volta, abbandonare la posizione voyeuristica di consumatore di cibi immaginati rappresenta un terzo scalino in questa spirale di simulacri, cioè il momento in cui il consumatore diventa produttore accedendo ai kit fai da te della compagnia Iwasaki.

Kappabashi, così come una qualsiasi via di Tokyo, è in definitiva un festino per gli occhi, destinato alla multiforme e transeunte folla di passanti, dei curiosi e dei voyeurs che con gli occhi “mangiano” il panorama della metropoli. David Howes ha definito il fenomeno di saturazione delle afferenze sensoriali – in termini di suoni, immagini, odori, sapori e sensazioni tattili – col termine di “iperestesia” (Howes 2005: 281). Richiamando la figura del flâneur, l'immagine del consumatore sensoriale postmoderno resa celebre dal filosofo Walter Benjamin (1969, 1973), “the voyeuristic idler who threated the whole city as though it were a department store, a variegated spectacle of goods to be viewed and occasionally sampled” (Howes 2005: 285), un ricettacolo passivo nei

confronti del quale le astuzie creative dei pubblicitari si sono fatte nel corso degli anni sempre più estensive e totalizzanti, creando un universo in continua espansione, pregno di attrazioni sensali da acquistare e consumare. A quest'invasione si contrappongono secondo un processo di dominazione- resistenza, pochi puristi, curiosamente giapponesi, nell'esempio citato da Howes:

“ To some Japanese nativists, their people's best hope of liberating themselves from Western cultural domination and rediscovering their Japanese souls lies in the process of jikkan – 'retrospection through actual sensation'.39 Thus the smell of incense at a shrine or the tactile and

kinesthetic sensations of sitting on tatami (suwaru) rather than sitting on a chair (koshikakeru) can produce a reconnection with the eternal, authentic Japanese culture and soul.” (Tobin, citato in Classen e Howes 1996: 179)

Sento di dissentire con Howes nelle sue implicazioni. Tralasciando le improprie considerazioni linguistiche (suwaru è utilizzato nel linguaggio corrente per indicare il sedersi, senza distinzioni particolari su dove ci si siede), il flâneur viene descritto come un fannullone, idler, al quale è estranea la dimensione pratica dell'esistenza, ovver quel complesso e sempre cangevole insieme di tecniche del corpo (cfr. Mauss 1936) e le sue molteplici, spesso enigmatiche connessioni con l'apparato intellettuale-linguistico, al quale invece Howes dedica una grande attenzione. Paradossalmente le tecniche di riappropriazione sensoriale dei nativisti jikkan corrispondono meglio a quella che secondo me è l'esperienza di un passante tokyoita a Kappabashi: attraverso le sensazioni e le tecniche del pasto proprie dell'inculturazione, questo ipotetico passante ha forgiato tanto una conoscenza quanto un approccio sensoriale specifico per tutto quel che riguarda il cibo; queste esperienze risuonano con le disposizioni dinamiche, sinestetiche e magnificanti dei modelli. In nessun modo, date queste premesse, l'esperienza di un osservatore è mai “passiva”, ma sempre fortemente imbricata con le pratiche quotidiane di quest'ultimo, le quali a loro volta determinano – in modo “morbido” e mai in termini assoluti – il sistema di vincoli e possibilità che dà forma alla sua esperienza.