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CAPITOLO 4 CONCLUSION

4. La pratica come percezione

Se nel paragrafo precedente ho apportato materiale a argomentato sul fenomeno della percezione in quanto pratica appresa e coltivata, dotata di numerose modalità e sfumature applicative, per contro a una concezione dei sensi come “procedure automatiche” di acquisizione di una realtà data, nelle righe che seguono propongo un corollario a questa posizione, circa la qualità percettiva delle pratiche quotidiane, ovvero come gli habiti di un dato sistema culturale possano significativamente orientare l'acquisizione da parte dei nostri organi di senso degli indizi presenti nell'ambiente.

Accanto all'imponente presenza televisiva del cibo esiste naturalmente una altrettanto generosa cornucopia di fotografie culinarie in Giappone – fenomeno che da diversi anni a questa parte, grazie soprattutto a Internet, si sta diffondendo in tutto il mondo attraverso blog e pagine web dallo stile più o meno professionale che raccolgono intere enciclopedie di ghiotte vedute, in special modo turistiche. Visitando i profili dei miei conoscenti giapponesi, tuttavia, notavo sì una grande abbondanza di banchetti di viaggio – una forma di souvenir forse meno immanente, ma non meritevole di venire esclusa da questa classe di fenomeni, come invece fa Duccio Canestrini nel suo Trofei di viaggio (2001) – ma altrettanti scatti casalinghi, spesso con soggetti decisamente poco

aulici, come gli untuosi contenitori di polistirolo pieni di yakisoba liofilizzati, apparentemente l'unica forma di sostentamento di un mio amico barista di giorno e rockstar di notte. Poiché l'immagine di un elegante piatto di porcellana adorno di tortellini e guarnito con la didascalia “Bologna!!!” appariva sul profilo facebook di una mia amica viaggiatrice accanto ai konbini meshi44 mal ripresi dalla mano incerta del barista/musicista nel retro del minuscolo locale dove lavora part- time mi si presentavano senza apparente discontinuità, il mio senso categoriale era confuso: l'estetica convenzionale sembrava aver poco a che fare con quella pratica compulsiva.

Vedevo piatti ovunque, ripresi sempre dall'alto: foto centrate sul cibo ma implicitamente centranti sulla posizione del fotografo, ricurvo sulla sua porzione, investito dai vapori e dai profumi della pietanza, pregustava il pasto immortalandolo e condividendolo sulla rete: kitsune ramen con sullo sfondo il sudicio bancone di qualche ramen-ya malfamato, donburi presi ai famiresu coi colleghi di lavoro, fette di sacher in qualche café alla moda di Harajuku, pizze da Napoli e pappu da Seoul. Una caotica, infinita ragnatela di corrispondenze, di esotismi relativi – amiche italiane immortalavano con ugual entusiasmo un piatto di onigiri serviti a Mestre, così fuori luogo in un ristorante45 – di località e di momenti si concatena all'infinito.

L'aspetto più interessante di questi scatti è sicuramente l'inquadratura, che tradisce il posizionamento del fotografo: perpendicolarmente sopra il piatto. Da questo punto di vista è possibile osservare tutto il contenuto esattamente come si presenta agli occhi del soggetto fotografante e ne rivela la tensione osservativa. Nient'altro rientra nell'inquadratura, se non eventualmente altre stoviglie, tovaglioli, bicchieri... Naturalmente non si tratta in nessun modo di una regola o di una formalità, esistono scatti ibridi che ritraggono il cibo con un angolo minore, comprendendo anche uno sfondo che può contenere i commensali o la vista al di là del tavolo e anche in questi casi le sensibilità individuali del fotografante sono rivelate dagli elementi che decide di includere nel suo scatto.

Barthes () scrive della qualità deittica della fotografia, affermando che non c'è “una fotografia senza qualcosa o qualcuno”, sostenendo quindi che l'atto stesso di fotografare pertiene all'implicita oggettivizzazione di un invariante luminoso, il soggetto ritratto (p. 7). Allo stesso modo, sedersi per mangiare qualifica quel che si ha davanti, posto in un recipiente adatto, in quanto pasto, ma al contrario dell'approccio simbolico del filosofo francese, la tensione realizzativa di questa asserzione io la identifico nell'azione, nella classe di azioni, del sedersi, osservare, annusare, assaggiare; tale asserzione, almeno nel sistema etico di riferimento in cui sono abituato a muovermi, appare

44 "Pasti-konbini”, in genere cup-noodles o yakisoba liofilizzati dal costo di uno o due Euro, preparati sul posto con l'acqua calda fornita gratuitamente dai convenience store (konbini). La cena degli studenti, degli squattrinati e molto spesso anche del sottoscritto.

45 L'onigiri è uno snack, una pagnotta di riso con un cuore di pasta di pesce o altri gusti, venduto insieme ai sandwich nei chioschi delle stazioni. In Italia è una tipica portata dei ristoranti giapponesi.

univoca: il pasto altrui non può sovrapporsi al mio, pena l'infrazione di una norma della tavola – norma presente in buona misura anche in Giappone: è scortese servirsi dal piatto del vicino se non esplicitamente invitati a farlo. Similmente, si possono osservare tanti altri simili processi di marcatura prossemica, anche in un luogo comune come il supermercato. Al nastro, prima di arrivare alla cassa, i beni che la persona A sta acquistando sono già “marcati” in quanto suoi e se una persona B cercasse di toccarli o appropriarsene, sorgerebbe come minimo del disagio, se non aperta ostilità. Fotografare è una “marcatura” molto particolare, in quanto coinvolge uno strumento specifico, orientato e orientante, che si risolve in un attimo e lascia un ambiente neutrale: ci si scansa se qualcuno sta fotografando qualcosa sul nostro cammino, ma una volta fatto lo scatto (e abbassato l'obbiettivo), possiamo proseguire senza paura di invadere il “suo” spazio. La direzione dello scatto indica un orientamento muscolare, una posturalità e un'attenzione localizzate, tutti elementi inerenti alle pratiche di ricerca e selezione sensoriali che nel precedente paragrafo abbiamo visto essere frutto di apprendimento.

Greg Downey, nel suo studio già citato sui ballerini-boxeur capoeiristi (Cap. 3 par. 6), ha espresso ammirazione e interesse per la capacità dei maestri di mantenere sempre alta l'attenzione sull'avversario, sul ring e sugli spettatori, pur continuando a compiere piroette, movimenti erratici, inversioni a testa in giù in equilibrio sulle mani eccetera. Nel corso della sua ricerca, ha scoperto che i capoeiristi esperti imparano a sfruttare le proprietà anatomiche dell'occhio in modo da favorire la visione cosiddetta periferica, laddove l'uomo – apparentemente per riflesso – tende a centrare il suo obbiettivo al centro della fovea, la zona centrale della pupilla che permette la visione particolareggiata (cfr. p. 227). I combattenti brasiliani rinunciano alla capacità di mettere a fuoco e vedere nel dettaglio per un campo visivo più ampio e una pupilla più dilatata46. In particolare,

questa tecnica dello sguardo ben si adatta ai rapidi movimenti disorientanti del capoeira, e se ben allenata permette un orientamento perfetto anche durante la lotta.

Ancora una volta abbiamo a che fare con un panorama determinato dalla pratica, la complessa e impegnativa pratica della danza-lotta brasiliana, che plasma una “bolla percettiva” sfocata, in movimento e comprensiva attraverso gli obbiettivi della pratica: tenere d'occhio l'avversario e contemporaneamente sventare ogni tipo di interferenza esterna – e questo tipo di attenzione “del malfidato” è coltivata anche nelle forme più empiriche di combattimento giapponese, come lo jiu jitsu o il karate.

Nel suo recente “Being alive: essays on movement, knowledge and description” (2011), Ingold ci

46 Questo è un esperimento che chiunque può fare: fissate il cielo di notte mettendo a fuoco una singola stella e prendete mentalmente nota del numero di stelle che potete vedere. Quindi rilassate gli occhi, sfuocate

volontariamente la vista: la quantità di stelle visibili è immediatamente aumentata, in virtù del maggior numero di fotoni che colpiscono la pupilla dilatata.

introduce al prossimo esempio di pratica in quanto attività percettiva, una pratica che adempiamo tutti quotidianamente e che, come Mauss ha osservato (2000), è oggetto di un intenso training che differenzia quest'atto nel mondo: il camminare. Partendo dagli scritti degli evoluzionisti Darwin, Huxley e Tylor (pp. 35-6), Ingold inquadra una concezione del piede e della gamba come mezzi di locomozione, ancorati al suolo e alla brutalità della materia, sopra i quali si elevano le mani, simbolico strumento dell'evoluzione umana, e ancor oltre il cranio, massima espressione causale dell'uomo in quanto tale. Osserva Ingold, tuttavia, che la riduzione del piede a indifferenziata piattaforma, cinta da scarpe e stivali costringenti, non sembra tanto frutto dell'evoluzione umana quanto dell'avvento della modernità in Europa, che ha portato con sé nuove forme di trasporto, architettura, educazione e inurbamento: idealmente, il piede è stato estromesso dalle espressioni della civiltà e, laddove i suoi utilizzi si differenziassero dal mero camminare, come presso gli aborigeni australiani, i quali raccolgono le loro lance sfruttando la parziale prensilità delle dita dei piedi, o i sarti Hindu che fanno lo stesso con i loro tessuti, identificato con stadi premoderni di vestigialità scimmiesche (ibid.). Con l'utilizzo sempre più diffuso di calzature – a loro volta protagoniste della nascita della produzione industriale – in Inghilterra e in Francia il piede ha subito una progressiva desensibilizzazione e, fatto peculiare su cui ritornerò in seguito, una rimozione mnemonica:

”Walking was a mundane, everyday activity, taking them to work, market and church, but rarely over any great distance. Walkers did not travel. […] They considered walking to be tedious and commonplace, a view that lingers in the residual connotations of the word ‘pedestrian’. If they had to walk, they would do their best to blot the experience from their memories, and to erase it from

their accounts.” (pp. 37-38, corsivo mio)

Analogamente le tecniche dello stare sono state influenzate dall'introduzione della sedia come pezzo ordinario di mobilia, avvenuto solo nel corso degli ultimi duecento anni (p. 39), che ha ulteriormente deprivato l'uomo europeo della sensibilità del piede – un'intuizione condivisa dai nativisti giapponesi del movimento jikkan, peraltro (v. Cap. 3 par. 5); se Mauss divideva l'umanità accovacciata da quella seduta (Mauss 2000, p. 401), Ingold è più propenso a dividerla tra scalzi e calzati, intendendo con questa distinzione il diverso grado di sensibilità podologica sviluppato da queste due grandi famiglie (p. 39)

Felicemente, l'ecologo scozzese cita l'opera dell'attore teatrale Suzuki Tadashi circa il lavoro del piede nella danza in Giappone e altrove; al tempo del melodramma “le grandi ballerine romantiche, attraverso la martoriante disciplina delle punte, piegavano il corpo a esprimere l'ascesa

nell'immaterialità” (Chiappini 2006: 35), mentre il piede del ballerino giapponese non alza mai i calcagni e, grazie al sapiente lavoro del ginocchio, si sposta sulla superficie liscia del palco strisciando elegantemente i piedi. Suzuki traccia un collegamento tra la “coscienza del piede” e la tecnica tipica delle pulizie giapponesi: a gambe larghe e leggermente piegate, con torso piegato in avanti ed entrambe le mani che reggono un panno, si lavano i corridoi di legno con movimenti oscillanti del busto, imprimendo peso sulle mani47; in questo modo “the perception that our hands

are also our feet, gained from a "floor-cleaning" kind of movement, is an important one. A child who experiences this will understand, even after growing up, that parts of the body other than the feet can have a dialogue with the ground” (Suzuki 1986: 21). La scomparsa dei pavimenti in legno in favore del linoleum e della moquette e l'introduzione dell'aspirapolvere, uno strumento la cui postura di utilizzo è eretta, provoca un senso di perdita in Suzuki, che mi ricorda molto quello di Tanizaki quando assisteva alla diffusione della luce elettrica, rea di aver dissipato la penombra in cui le pratiche giapponesi della domesticità trovavano la loro dimensione estetica e identitaria. Il senso di perdita che la trasformazione delle tecniche del corpo, secondo me, non è un mero artificio retorico dal vago sentore sciovinista, ma l'implicita ammissione del valore fondativo della pratica nei confronti della percezione e della costruzione intellettuale delle estetiche nazionali. Mi ricorda da vicino la perdita – ben più grave e debilitante – della terra stessa causata dal disastro del Tohoku, trattato in parte in questo capitolo (par. 1) e nel capitolo 2 (par. 1): qui le tecniche, lì l'intero ambiente socioarchitettonico che le contiene e le indirizza, quando vengono a mancare portano con sé una massiccia misura di memorie, senso del self sociale e individuale, sensibilità, percezione, presenza; perdite estese a tal punto, da far pensare che esista ben più di una semplice contiguità “strutturale” tra l'esserci e il fare, e tra il percepire e l'agire.