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Nonostante il focus di questo libro non sia la documentazione audiovisiva di un evento coreografico, è utile segnalare la presenza di alcuni registi che si concentrano su questo genere perché sviluppano delle linee autoriali e perché in alcuni casi, come sempre succede nel mondo dell’arte, refrattario a qual- siasi classificazione, realizzano opere a metà fra la documentazione vera e propria e la screendance.

La rilocazione è la strategia più usata dai registi per reinterpretare lo spa- zio originale dello spettacolo coreografico e rendere il prodotto audiovisivo un’opera autonoma, cercando di ambientare la performance, senza modificar- la nella sua struttura coreografica, in luoghi architettonicamente interessanti o in spazi naturali adattabili. La rilocazione è una modalità presente in molte opere che abbiamo analizzato, come la produzione di Lloyd Newson o di Bernar Hébert, ma in questi casi diventa una scelta scenografica all’interno di una reinterpretazione narrativa o simbolica dello spettacolo originale che si svincola dalla funzione di documentazione.

In questo paragrafo verranno trattati autori che lavorano indifferentemen- te in pellicola e in video.

Babette Mangolte

Babette Mangolte192, nome che abbiamo già incontrato come collaboratrice di

Yvonne Reiner, è una cineasta sperimentale che lavora assiduamente nel cam- po della documentazione della danza. Nel 1973 realizza per Trisha Brown il mediometraggio di trentadue minuti in pellicola a colori Roof and Fire piece193.

Trisha Brown in questi anni sta realizzando degli eventi coreografici ambientati in spazi urbani, inaugurando una tendenza che sarà seguita da molti coreografi ma soprattutto da molti filmmaker che si rendono conto delle possibilità cine- matografiche di un’idea di questo tipo. In questo caso l’ambientazione è ancora di più suggestiva, perché si tratta di una performance ideata per essere eseguita sui tetti delle case194. Con una serie di inquadrature fisse vari performer vestiti di

rosso, tra cui Trisha Brown, eseguono dei semplici movimenti. L’opera è muta: lo spettatore deve concentrarsi esclusivamente sulle immagini.

L’articolazione fra corpo e spazio architettonico in questo caso produce im- magini spettacolari e surreali che già da sole potrebbero costruire mediometrag- gio di danza originale, se non fosse che quest’opera è una fedele documentazione della performance originale, con una particolarità non indifferente: l’opera offre allo spettatore un punto di vista privilegiato che dal vivo non può avere, perché tutte le inquadrature sono realizzate piazzando la cinepresa su un tetto, in modo tale da stare alla stessa altezza dei danzatori e offrire come sfondo la veduta dei tetti che crea uno sfondo suggestivo e articolato di elementi. Quindi nessuno può vedere questa performance in questo modo se non attraverso la visione di questo mediometraggio, se non mediando il proprio sguardo con quello della cinepresa. Per questo motivo Roof and Fire piece è un classico esempio di opera che sta a metà fra una documentazione (non rilocata) e un’opera di cinema di danza, perché senza l’ausilio della macchina cinema non esisterebbe un punto di vista in grado di guardare e registrare questa particolare performance.

Charles Atlas

Charles Atlas è un nome che incontreremo spesso, anche e soprattutto come esponente di primo piano del movimento della videodanza. Autore di un nu-

192 http://babettemangolte.org/.

193 http://www.ubu.com/dance/brown_roof.html. Il mediometraggio è disponibile nel

Dvd Trisha Brown. Early Works 1966-1979, ARTPIX Notebooks.

194 http://babettemangolte.org/maps.html. In questo link Babette Mangolte racconta de-

mero copiosissimo di opere instaura durature collaborazioni con coreografi importanti per e con i quali realizza opere di documentazione, e stabilisce con Merce Cunningham una sorta di sodalizio artistico. Il coreografo americano spesso usa il video per riprendere le improvvisazioni dei danzatori della sua compagnia in modo tale da poterle utilizzare come “campioni” per la creazione i suoi spettacoli. Charles Atlas è l’autore di gran parte di queste riprese che a volte diventano prima dei video e successivamente degli spettacoli. Per questo motivo molti video firmati da Charles Atlas in collaborazione con Cunnigham – che vengono presentati come opere specifiche di videodanza – sono in realtà documentazioni di work in progress di futuri spettacoli. Come vedremo nel capitolo sulla videodanza, Atlas e Cunningham sono gli autori di un’opera fon- damentale per questo genere che si sgancia completamente da qualsiasi intento documentario. Ma nel frattempo i due artisti producono una serie numerosa di opere ibride che qui verranno molto parzialmente citate, concentrandoci su un periodo storico che ruota intorno alla produzione dell’opera di videodanza sopra accennata.

Nel 1978 Charles Atlas realizza in video a colori e in bianco e nero Frac-

tions I195, dove il linguaggio audiovisivo comincia a diventare un poco più

complesso di una semplice documentazione: la camera si muove per sotto- lineare i movimenti dei performer, l’alternarsi fra bianco e nero sottolinea alcuni passaggi, ma soprattutto la maggior parte delle riprese è pensata per integrare all’interno dell’inquadratura la presenza di quattro monitor che trasmettono in tempo reale varie fonti: le riprese della performance, altri mo- menti della coreografia e primi piani di alcuni danzatori che si rivolgono di- rettamente alla camera. La musica è affidata al compositore minimalista Jon Gibson, membro dell’orchestra di Philip Glass196. La visione simultanea della

performance e dei quattro monitor all’interno dei quali avvengono eventi diversi pone lo spettatore in una situazione di molteplicità della visione che lo obbliga a compiere delle scelte e a fruire della coreografia in maniera mediata. Inizialmente pensata solo per il video questa performance viene rappresentata a teatro nello stesso anno.

Sempre nel 1978 Charles Atlas realizza due opere in pellicola a colori: Ex-

195 Estratto:https://www.youtube.com/watch?v=P3Xj_HcjuvM. 196 https://philiplass.com/.

change197 e Locale198. Nella prima le scelte di inquadratura sono rigorose: ven-

gono usate due camere frontali, una piazzata in alto in modo tale da ripren- dere la totalità della coreografia eseguita da un gruppo di performer inserito in una sorta di “cubo nero”, e una seconda ad altezza del palco che sottolinea alcuni momenti privilegiando la presenza di alcuni danzatori. La musica è di David Tudor. La seconda opera rappresenta uno scarto piuttosto significativo rispetto al rigore documentaristico delle opere precedenti, perché in questo caso la camera sta dentro il palco e segue i danzatori da vicino, muovendosi con panoramiche e carrellate fluide – ma partecipi – e diventando una sorta di spettatore privilegiato che vive lo spettacolo al suo interno, accompagnato dalla musica di Takehisa Kosugi.

Elliot Caplan

Elliot Caplan199 è un altro cineasta che per un certo periodo di tempo crea

un sodalizio importante con Merce Cunningham, realizzando anch’egli varie documentazioni alcune delle quali sperimentano le possibilità visive della rilo- cazione. La sua carriera inizia facendo l’operatore per alcune opere di Charles Atlas. Nel 1986 realizza per la BBC Television in pellicola a colori points in

Space200, un’opera che nasce “for camera” e diventa uno spettacolo del reper-

torio della compagnia. Nella prima parte viene visualizzata una sorta di back- stage dove le prove della performance vengono alternate a interviste di Merce Cunningham, John Cage e danzatori della compagnia. La seconda parte invece visualizza la coreografia girata in studio dove le camere, come avviene in Locale di Charles Atlas partecipano alla danza lavorando in prossimità dei movimenti dei danzatori, coinvolgendo lo spettatore in un’estrema varietà di piani e campi che rimangono comunque sempre frontali allo spettacolo.

Nel 1987 Elliot Caplan realizza un’opera piuttosto particolare, girata in video a colori e in bianco e nero prodotta dalla televisione francese La Sept,

Changing Steps201. La presenza di emittenti come la BCC e La Sept in veste di

partner produttivi testimonia l’interesse che in questi anni il sistema televisivo

197 Estratto: https://www.youtube.com/watch?v=kjVCLdwTtZA. 198 Estratto: https://www.youtube.com/watch?v=uBTPMzysdo. 199 https://www.picturestartfilms.com/.

200 Estratto: https://vimeo.com/304906943. L’opera integrale è disponibile nel Dvd Merce

Cunningham Dance Company. points in Space, Kultur.

europeo dimostra nei confronti della danza filmata. Quest’opera è un’artico- lazione visiva della performance originale di Cunningham declinata in varie situazioni: in un ambiente naturale e in uno spazio interno dotato di grandi finestre e illuminato con luce naturale. Queste riprese vengono alternate con materiale video in bianco e nero del 1974 dove si vedono le prove dello spetta- colo eseguite da performer differenti. Queste ultime sono realizzate a mano, con una qualità amatoriale e si scontrano con le riprese del 1989 caratterizzate da un’estrema cura fotografica e rigore formale delle inquadrature. L’alternar- si di questi due differenti flussi visivi, uno appartenente al passato e l’altro al presente, determinano la nascita di un’opera a suo modo coinvolgente che si svincola dalla funzione di pura documentazione addentrandosi in una possi- bilità di linguaggio più coinvolgente per lo spettatore. Anche in questo caso torna la collaborazione fra Cunningham e il musicista John Cage.

L’opera più riuscita della collaborazione fra Caplan e Cunningham, e quella più vista in televisione e nei festival di screendance, è Beach Birds for Camera202,

girato in pellicola a colori e in bianco e nero nel 1992. L’opera è sonorizzata at- traverso un mix fra i rumori prodotti dai movimenti dei danzatori e interventi audio rumoristici. Se fino a ora le opere dei due artisti sono sempre firmate in tandem, in questo caso Caplan risulta l’unico regista. Il cineasta evidentemente è più libero di compiere le sue scelte e il titolo stesso dell’opera, dove ricompare la terminologia “for Camera” inaugurata da Maya Deren, lo testimonia. Non si tratta quindi solo della documentazione dello spettacolo Beach Birds, ma qualcosa di più. Al contempo i due artisti collaborano su altri aspetti, come il montaggio che è firmato da entrambi, o la scenografia che viene reinterpretata da Caplan per la realizzazione del mediometraggio, segno questo dell’estrema libertà e fiducia che Cunningham concede al regista. L’opera è divisa in due parti, una in bianco e nero e ambientata in una grande sala prove dalle pareti bianche e dalle enormi finestre che mostrano uno scorcio urbano, e la seconda, a colori, situata in un’enorme sala pose dove sullo sfondo campeggia un grande rettangolo blu che funge da sfondo scenografico.

La prima parte dell’opera crea una serie di suggestioni visive approfittando del fatto che i costumi sono realizzati in modo tale che la parte superiore del corpo sia nera e quella inferiore bianca, per ricordare la figura dei gabbiani.

202 Estratto: https://vimeo.com/141096694. L’opera integrale è disponibile nel Dvd Merce

Dissolvenze incrociate, parti del corpo fuori fuoco e altre a fuoco costitui- scono un’architettura visiva che più che documentare crea una vera e propria trasfigurazione in immagini della performance originale. In un secondo mo- mento il linguaggio diventa più descrittivo e segue l’andamento della core- ografia attraverso inquadrature fisse attente alla composizione del quadro e movimenti fluidi effettuati in steadicam che sottolineano alcuni momenti della performance.

L’articolazione fra la posizione dei corpi e le finestre dietro di loro crea un’at- mosfera sospesa che comunque è in grado di offrire una documentazione sugge- stiva dello spettacolo originale. Il passaggio al colore e al secondo spazio segna l’inizio di un percorso visivo ancora più descrittivo ma sempre attento a creare inquadrature in cui il posizionamento dei danzatori rispetto allo sfondo è in grado di creare immagini visivamente complesse e suggestive che accompagna- no lo spettatore in una visione privilegiata e non fredda dello spettacolo stesso.

Rosas

Se negli Stati Uniti il coreografo più documentato è Merce Cunnigham, in Europa questo “primato” appartiene alla coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker e alla sua compagnia Rosas203. Anche lei intraprende una colla-

borazione privilegiata con un regista che sarà trattato nel paragrafo successi- vo, ma al contempo le sue coreografie sono state oggetto di interesse da parte di vari cineasti. Anche per quello che riguarda il genere della documentazione dal punto di vista produttivo si registra una sorta di “passaggio di testimone” dagli Stati Uniti all’Europa, e la quantità di produzioni audiovisive legate alle coreografie di Keersmaeker ne è una testimonianza. La rilocazione diventa uno modalità usata per quasi tutte queste produzioni.

Wolfgang Kolbe

Nel 1989 Wolfgang Kolbe realizza Hoppla!204, adattamento dello spettacolo Rosa

Bartók, girato in pellicola a colori negli interni della biblioteca di Ghent e pro-

dotto da un consorzio di televisioni europee. Kolbe inserisce sia i danzatori sia i musicisti che eseguono vari brani di Béla Bartók all’interno dello spazio archi- tettonico, seguendo le diverse performance sia con inquadrature fisse sia con

203 https://www.rosas.be/en/.

carrellate fluide che seguono alcuni passaggi della coreografia. Il punto di vista è sempre frontale e i danzatori sono inquadrati a corpo intero. Nella sua semplicità è un esempio interessante di “grado zero” delle possibilità della rilocazione.

peter Greenaway

Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti gli anni Novanta rappresentano l’inizio di un processo di osmosi fra il cinema di danza, cinema sperimentale, cinema narrativo e video musicali: alla “cinematografizzazione” impressa da molti autori, soprattutto dai coreografi-registi, non corrisponde un processo al contrario, ovvero la nascita di un’interesse di registi di cinema nei confronti del cinema di danza, a parte alcune eccezioni tra cui quella rappresentata da Peter Greenaway, regista contaminato di per sé, attento ai processi della nar- razione e al contempo alla sperimentazione dei linguaggi. Nel 1992 realizza in pellicola e in bianco e nero Rosa205, un cortometraggio di quindici minuti

con la musica ancora una volta di Béla Bartók. Greenaway estrapola un duo tratto dall’omonima coreografia di Anne Teresa de Keersmaeker e la inserisce nel foyer del Teatro dell’Opera di Ghent. Le scelte di inquadrature, tutte frontali ai soggetti, oscillano fra un campo totale in cui le figure dei danza- tori sono quasi sommerse dal sontuoso arredamento del foyer, a piani medi che si concentrano sul busto o piani ravvicinati che mostrano solo i piedi o le braccia in azione. Alcune carrellate sottolineano i momenti più dinamici della performance, ma tutta l’opera gioca su alternare dimensioni di prossimità e di distanza articolate da un montaggio che abilmente spezza la coreografia senza modificarne la fluidità e che invita lo sguardo dello spettatore a osservare i dettagli del movimento e al contempo il rapporto che il corpo intraprende con lo spazio architettonico.

Anne Teresa De Keersmaeker

Nel 1993 la compagnia è oggetto di una documentazione realmente “d’autore” perché è realizzata dalla coreografa stessa: Anne Teresa De Keersmaeker dirige in pellicola in bianco e nero Achterland206, dal suo omonimo spettacolo. Questa

opera si presenta come una documentazione potenziata della performance ori- ginale, eccetto per due elementi che la allontanano da questo genere: il bianco

205 L’opera è disponibile nel Dvd Rosas Shorts. three short films based on the work of Anne

Teresa De Keersmaeker, éditions à voir.

206 http://www.ubu.com/dance/keers_achterland.html. L’opera è disponibile nel Dvd

e nero che proietta l’atmosfera dell’opera in una dimensione temporalmente indefinita, e una suggestiva scelta registica, verso la fine dell’opera, che contrad- dice l’intento documentario del mediometraggio.

Tutto il film è ripreso con inquadrature frontali che visualizzano la totali- tà del palco alternate a riprese avvicinate che puntualizzano alcuni momenti della coreografia. Anche in questo caso il montaggio articola inquadrature fisse, carrellate e panoramiche fluide. A circa tre quarti dell’opera la coreo- grafa attiva un cambio di linguaggio piuttosto evidente, perché una camera a mano sul palco segue da dietro le sue spalle i movimenti di una danzatrice che guarda i suoi compagni scendere o e rapidamente scomparire nel buio. Spaesata, si gira intorno a sé e si rende conto che è rimasto solo il pianista in scena che la guarda. La camera ancora segue la danzatrice che continua a ruo- tare su sé stessa rimanendo alle sue spalle fino a mostrare il lato in cui c’è il set approntato per la documentazione: anch’esso è deserto, con una cinepresa su un carrello senza alcun operatore, e varie attrezzature poggiate per terra. Nel frattempo la camera, fino a questo momento posizionata dietro la testa della danzatrice, si trasforma nella sua soggettiva che completa il suo giro a trecen- tosessanta gradi fermandosi davanti al pianista che guarda in macchina.

Lo svelamento della macchina-cinema che documenta la performance vuole sottolineare la presenza di un filtro che inevitabilmente modifica la performance originale, ma la coreografa belga va oltre questa semplice sug- gestione, immaginando un set vuoto, come se la tecnologia fosse autonoma, svincolata da qualsiasi presenza umana.

thierry De Mey

Il caso di Thierry De Mey è particolarmente interessante perché le sue opere di documentazione lavorano sistematicamente sulla rilocazione di coreografie originali. Fermo restando che la rilocazione modifica comunque la natura del- la performance, Thierry De Mey, grazie alla sua attitudine documentaristica, pone lo spettatore di fronte a una pura descrizione dell’evento coreografico, adottando un linguaggio cinematografico complesso, ma al contempo molto comunicativo, dove ogni singola inquadratura è studiata nei minimi dettagli e il montaggio è calibrato per sezionare la coreografia mantenendone intatte il ritmo e la struttura di fondo. Il risultato di questo procedimento complesso è la creazione di opere direttamente leggibili in grado di soddisfare principalmente il pubblico amante della danza contemporanea e in seconda istanza un’audien-

ce, soprattutto televisiva, oramai abituata a fruire di opere in cui la danza svolge un ruolo principale. Anche in questo caso la presenza di partner produttivi televisivi è importante anche per le scelte linguistiche adottate dal regista.

Gli esordi della produzione cinematografica di Thierry De Mey, come abbiamo accennato, corrispondono alla nascita della collaborazione con Michèle-Anne De Mey. Per lei realizza un’opera di documentazione girata in pellicola a colori: Love Sonnets207 del 1994, musicata da alcune sona-

te di Domenico Scarlatti che vengono miscelate con i rumori d’ambiente, una scelta questa piuttosto tipica dell’estetica di De Mey che evita l’effetto “colonna sonora esterna”, ovvero l’inserimento di una musica che annulla completamente i rumori provocati dai movimenti dei performer. Questa attenzione nel preservare il suono dei gesti dei danzatori evidenzia la pre- senza di una coreografia, aumentando la sensazione di assistere a uno spet- tacolo di danza filmato. Lo spettacolo originale (Sonata 555) viene inserito in contesti rurali abbandonati e paesaggi montagnosi e brulli situati fra la Catalogna, l’Alsazia e il Belgio. Thierry De Mey lavora sulla suggestione di combinare questi ambienti impervi e poco adatti alla danza con la presenza di una coreografia che si svolge sotto gli occhi dello spettatore occupando uno spazio temporale che dal mattino prosegue fino alla notte. Il medio- metraggio viene interrotto alcune volte da danzatori seduti che recitano guardando in macchina brevi poesie d’amore, anticipando l’idea di fondo di 21 études à danser.

Il regista e musicista belga instaura una duratura e proficua collaborazione con Anne Teresa de Keersmaeker per la quale realizza in pellicola a colori una serie di documentazioni rilocate: Rosas Danst Rosas208 del 1996, Tippeke209 del

1997 e Fase del 2002. Rosas Danst Rosas della durata di cinquanta minuti può essere considerata il capolavoro delle documentazioni rilocate di Thierry De Mey, e l’opera più trasmessa in varie televisioni e proiettata in festival di screen- dance e non solo. Ambientata negli interni di un enorme edificio scolastico situato a Lueven in Belgio, il lungometraggio mette abilmente in simbiosi la struttura architettonica del luogo con quella della coreografia che si basa su due

207 Estratto: https://www.numeridanse.tv/videotheque-danse/love-sonnets?s. La maggior

parte delle opere citate in questo paragrafo sono disponibili nel cofanetto in Dvd the