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Come avviene anche per il cinema contemporaneo, la pellicola viene sostitu- ita dal formato digitale in Alta Definizione (o HD): per alcuni autori questo fatto non determina nessun tipo di cambiamento di linguaggio, così come accadrà per gli sperimentatori dell’immagine elettronica, che nel digitale sco- priranno uno strumento per testare ulteriormente la propria personale este- tica. Chi lo vede come proseguimento naturale del linguaggio del cinema (narrativo o sperimentale), chi lo considera uno strumento versatile in più per poter approfondire la ricerca elettronica sperimentale o videoartistica, dagli anni Duemila in poi con gradualità l’HD diventa il formato utilizzato da tutto il mondo audiovisivo.

Bruno Aveillan

Bruno Aveillan176 è un fotografo e regista francese di video musicali, spot

pubblicitari prevalentemente di moda, corti più autoriali e cortometraggi di danza. Il fatto che un regista legato a una casa di produzione commerciale (la Quad Production, con sede a Parigi) realizzi produzioni all’apparenza così eterogenee non deve trarre in inganno, perché i mondi della musica e della moda (nella loro versione audiovisiva) sono sempre più legati da un linguaggio comune: quello della danza contemporanea. E si sottolinea il termine “contemporanea”, non la danza “da musical” tipica di un certo linguaggio di intrattenimento che ha attraversato, e continua comunque ad attraversare, il teatro, il cinema e la televisione. Questo significa, nel bene e nel male, che la screendance ha trovato un nuovo mercato, ovvero quell’area produttiva dispersa in generi piuttosto specifici legati alla musica e alla moda, in quei paesi dove questi settori producono un vero mercato che ha bisogno di oggetti audiovisivi per potersi promuovere sotto svariate forme. Quest’ultimo settore, come vedremo, ha sviluppato un nuovo genere audiovisivo separato dal tradizionale “spot” definito “fashion movie”, un ambito nel quale avviene uno scambio costante con i linguaggi della danza contemporanea. Dagli anni Duemila in poi quindi non è raro incontrare registi come Bruno Aveillan che lavorano su settori specifici usando un linguaggio commerciale e che allo stesso tempo si esprimono in maniera più sperimentale adottando la formula della screendance. Per la Quad Productions produrre delle opere di questo tipo significa arricchire la qualità del proprio “portfolio” audiovisivo, motivo per cui il linguaggio della danza contemporanea sta diventando in questi anni il luogo di una sperimentazione non più rivolta solo agli “addetti ai lavori” o agli appassionati di danza contemporanea, ma a un pubblico più diffuso, composto anche da professionisti dell’immagine. Questo fenomeno da un lato determina il fiorire di produzioni di screendance che non sono minimamente interessate a una qualsiasi forma di ricerca di linguaggio, tanto che molte opere di questi anni sembrano essere degli “spot lunghi” di moda glamour, dall’altro allarga le possibilità di produzione a soggetti, come Bruno Aveillan, che abilmente riescono a coniugare produzioni commerciali a esperienze di ricerca.

Il regista francese attiva una proficua collaborazione con il coreografo Philippe Combes per la creazione di due lavori entrambi realizzati in HD a

colori: il primo è Minotaur-Ex177, del 2001. L’opera di dieci minuti è suddivisa

in quattro “capitoli” introdotti da numeri progressivi a tutto schermo. Una serie di corpi nudi maschili e femminili, ricoperti di argilla bianca, danza all’interno di una fabbrica abbandonata. Da soli o a gruppi di due o di tre, i performer si incontrano e si scontrano, mentre l’argilla che li copre crea vari effetti di sgretolamento o di sottolineatura dei loro movimenti, e vengono ripresi con un’estrema variabilità di punti di vista: dall’alto, frontalmente, con inquadrature rasoterra, con campi lunghi che li mettono in rapporto con lo spazio o con primissimi piani. Spesso l’immagine va fuori fuoco o si mette a fuoco davanti agli occhi dello spettatore, creando effetti interessanti di pro- fondità di campo. Le immagini sono fotograficamente molto curate.

Non c’è un reale svolgimento tematico o simbolico, ma un alternarsi con- tinuo di fasi in cui i corpi si cercano e altre in cui lottano violentemente. I vari episodi scandiscono cambiamenti di spazio e di situazioni: all’inizio i per- former sono in una zona della fabbrica piena di terriccio marrone, nella seconda si esibiscono su strutture architettoniche di cemento, nella terza in uno spazio dove il pavimento è solcato da profonde pozzanghere d’acqua con le quali i performer interagiscono creando effetti visivi, nella quarta i danzatori, lavati e apparentemente dotati di una sembianza più umana, vengono ricoperti da cumuli di sabbia bianca che scendono violentemente dall’alto. Il montaggio giustappone le varie riprese creando un ritmo interno che spesso non segue l’an- damento delle musiche, elaborando sapientemente una sua linea ritmica visiva autonoma che gioca sulla contrapposizione di elementi all’interno del quadro, evitando qualsiasi tentazione di simulare una qualsivoglia continuità. L’opera è totalmente musicale e alterna brani, non composti appositamente per l’opera, di vari autori fra cui Clint Mansell, celebre compositore di colonne sonore di film, e Laurent Garnier178, dj e autore di musica elettronica.

Minotaur-Ex lavora solo ed esclusivamente su suggestioni visive che asso-

ciano danza e musica ed evita qualsiasi soluzione narrativa preferendo evocare in maniera molto libera il mito del Minotauro. Il labirinto è rappresentato dalla fabbrica abbandonata, un luogo molto “frequentato” dal genere della screendance rilocata e da molti video musicali, ma che qui assume un ruolo piuttosto preciso, ovvero lo spazio in cui performer deambulano senza tro-

177 Il video è visionabile nella pagina Facebook ufficiale di Bruno Aveillan:https://www.

facebook.com/watch/?v=1018205348866.

vare una sostanziale via d’uscita. I danzatori sono rappresentati come entità primordiali stordite e dominate da pulsioni primitive ma al contempo fragili come l’argilla: mentre si muovono perdono letteralmente i pezzi, diventano parte integrante della fabbrica in disfacimento. Anche la presenza dell’acqua non determina, neppure simbolicamente, alcuna via di fuga vitale, perché i loro corpi sono condannati a essere ricoperti di sabbia e si dimenano in uno sfogo rabbioso nel quale schizzi d’acqua e grumi di sabbia vengono lancia- ti nello spazio, diventando elementi visivi che contribuiscono a creare una sorta di violenta coreografia danzata da esseri umani ed elementi naturali, entrambi imprigionati nell’inestricabile labirinto della fabbrica abbandonata. La sensazione che i protagonisti dell’opera siano schiacciati da un destino opprimente contribuisce ad avvicinare l’opera a tematiche genericamente ri- ferite alla mitologia greca a alla figura di Ananke, la dea della “necessità” che costringe e punisce gli esseri umani.

La seconda opera, sempre girata in HD a colori lavora su atmosfere diverse ma con risultati visivi in qualche modo simili alla precedente: Morpholab179,

del 2009, realizzata con telecamere ad alta velocità che producono slow-motion particolarmente fluidi. Anche questa opera della durata di diciassette minuti può essere divisa in varie sezioni. Nella prima parte alcuni corpi maschili e femminili, a volte vestiti con una camicia bianca aperta a volte a torso nudo, lentamente attraversano lo schermo mentre compiono dei balzi ripresi al ral- lentatore: le figure sono deformate da lunghe scie sfocate che aggiungono ai corpi degli effetti suggestivi e paradossalmente dinamici, perché sottolineano la direzione dei loro movimenti. I performer sono circondati dal nero e la fo- tografia desaturata crea immagini soffuse e un’atmosfera ipnotica e sospesa. Le inquadrature alternano campi lunghi e primi piani e si mantengono frontali all’azione. Le sfocature a volte invadono gran parte dell’inquadratura in modo tale che i performer affondino in una materia soffice e luminosa.

Con rapidi stacchi compaiono sequenze velocizzate e più definite dei danzatori e inizia la seconda parte dell’opera, dove tornano i movimenti al rallentatore, que- sta volta accompagnati da oggetti scaraventati nello spazio: piatti, tazze e posate. A causa dell’eccessivo rallentamento delle immagini non si capisce se i danzatori stanno saltando o cadendo, e se questi oggetti che volano sono l’effetto di un di- sastro o degli elementi che magicamente partecipano alla danza. La terza parte

visualizza i corpi interi dei performer eseguire una serie di coreografie sempre in slow-motion: le sfocature sono scomparse, gli oggetti pure e questa sezione si pre- senta come la visualizzazione di una danza osservata nei minimi dettagli. Nella quarta parte ritornano le sfocature e l’atmosfera si fa più ansiogena: volano sedie che si infrangono sui corpi dei danzatori, gabbie di legno e piume invadono lo spa- zio, schizzi d’acqua creano orditi luminosi contro i quali i performer si infrangono: ora sembra di assistere all’esplosione di un ambiente al rallentatore, alla rappresen- tazione di un disastro dal quale i danzatori non riescono a fuggire.

La quinta e ultima parte segna un cambiamento di atmosfera piuttosto deciso: i danzatori continuano a volare nell’aria, le sfocature deformano la loro immagine, ma lo spazio questa volta è invaso da una miriade di corian- doli argentati che fuoriescono dagli occhi di un danzatore. I performer si per- dono, come se annegassero, in questa dimensione pulviscolare. Una musica elettronica ambientale e a tratti rumoristica accompagna tutta l’opera.

Anche in questo caso Bruno Aveilan lavora su una singola suggestione articolando diverse variazioni che vanno in crescendo, fino a una situazio- ne visiva caotica grazie all’intervento di elementi di disturbo, spesso natura- li come l’acqua. L’atmosfera dell’opera porta lo spettatore in differenti stati emozionali: all’inizio sembra di assistere a una danza immaginifica di corpi e oggetti che condividono un mondo in assenza di gravità, ma poi si insinua un senso di catastrofe, di naufragio, di perdita di peso che prelude a una caduta fatale. Se nell’ultima parte gli elementi che invadono lo spazio non sono di per sé minacciosi, oramai la sensazione, come in Minotaur-Ex, è quella di es- sere in preda a un destino opprimente che obbliga i corpi a soccombere. Con leggerezza, ma a cadere comunque. Il mistero che avvolge il personaggio che scatena dai suoi occhi l’invasione di particelle luminose non si svela, e non è necessario farlo, perché tutta l’opera di Bruno Aveillan lavora sull’ignoto o forse sulla semplice accettazione, per un certo verso tragicamente giocosa, dell’Ananke.

pedro pires

Il tema della caducità e della mortalità del corpo attraversa molto cinema di danza europeo e trova il suo riuscito compimento in un’opera della durata di nove minuti realizzata da Pedro Pires180 in collaborazione con l’importante

regista teatrale Robert Lepage181 e con la danzatrice AnneBruce Falconer182:

Danse Macabre183, del 2008, girato in HD a colori. Con quest’opera, dal punto

di vista produttivo, torniamo nel Quebec. In questo caso, nonostante il titolo richiami una tradizione iconografica già affrontata da altri lavori, non ven- gono visualizzati scheletri danzanti, ma la morte di una danzatrice. L’opera inizia mostrandoci scorci interni di luoghi abbandonati e strutture dismesse tra cui una chiesa, un ospedale e un bagno pubblico. Improvvisamente in una piccola stanza un corpo di donna con una vestaglia bianca fa cadere una sedia e rimane sospesa nel vuoto, impiccata. La fotografia di questo lavoro si basa su due colori: il verde muffa e un arancione ambrato. Il corpo della protagonista è appeso grazie a una spessa fune che però non le avvolge il collo ma il busto e ruota lentamente intorno a sé stessa, come se stesse coreografando il momento della morte. I suoi piedi lambiscono un tavolo operatorio da autopsia posi- zionato sul palco di un teatro deserto. Alle sue spalle compare la scenografia di uno scorcio campestre dipinto su un grande telo. Con uno stratagemma di montaggio che abbiamo già incontrato molte volte nel cinema di danza, si sfrutta la continuità del movimento del performer per ottenere un paradossale cambio di spazio: il corpo della danzatrice si appoggia su un fianco, sempre ruotando sospesa alla fune e la sua mano tocca il tavolo operatorio che ora è posizionato dentro una stanza d’ospedale. Compaiono dei flash accompa- gnati dal classico rumore dello scatto fotografico: il corpo cade e si posiziona sul tavolo operatorio, mentre una raffica di immagini presenta velocemente numerose foto che ritraggono dettagli del cadavere, alcune mani che con delle forbici tagliano i suoi vestiti e immagini della protagonista da bambina.

Le mani che compaiono velocemente in questa sequenza fotografica sono l’unico segnale di una presenza umana esterna, perché in tutta l’opera si ve- drà solo il corpo della protagonista in relazione ad azioni gestite da presenze lasciate fuori campo o da macchine. Ora il corpo nudo della protagonista giace sul tavolo operatorio: un getto d’acqua lo sta lavando, compaiono tubi di gomma attraverso i quali i suoi liquidi vengono drenati, e lo scolo nel quale viene espulso il suo sangue. La protagonista si muove e si blocca in una posizione rigida e innaturale, muovendo lentamente il busto solcato dalle cicatrici dell’analisi autoptica: il riflesso della sua figura compare sulla super-

181 http://lacaserne.net/index2.php/robertlepage/. 182 http://www.cellovision.com/.

ficie metallica di macchine sparse nella stanza, creando immagini suggestive e deformate del suo viso. Il corpo cade dal tavolo, la camera penetra lo scolo dove viene raccolto il suo sangue e compare l’immagine della danzatrice che lentamente si muove immersa nell’acqua e avvolta da un telo bianco. A stacco vediamo un cuore che viene trasportato da mani invisibili in un contenitore di vetro, e un primissimo piano dell’occhio della protagonista, questa volta sdraiata sul tavolo, dal quale esce lentamente una goccia d’acqua che somiglia a una lacrima.

Se fino a ora le immagini per quanto strazianti sono trattate con una pasta quasi pittorica, e il gioco dei riflessi e lo stile delle inquadrature immergono lo spettatore in un’atmosfera tragica ma poetica, lo stile dell’opera si fa più freddo e descrittivo. Il corpo della danzatrice viene trasportato tramite un elevatore dal tavolo operatorio alla bara. Con una ripresa dall’alto vediamo l’interno della bara dove il suo corpo vestito di bianco, inerte, si muove, esi- bendosi in una paradossale danza, perché il feretro viene trasportato da un oggetto semovente. Compaiono delle carrellate dove si vedono interni di una chiesa, si apre un forno crematorio dove stanno bruciando gli ultimi resti che vengono raccolti con una pala. Il forno si chiude e con questo anche l’opera, musicata dalla celeberrima aria Casta Diva cantata da Maria Callas, tratta dall’opera di Vincenzo Bellini Norma (1831).

L’opera raccoglie la sfida, vincendola, di rappresentare coreograficamente il momento della morte e del dopo-morte affrontati non da un punto di vista metafisico, religioso o filosofico, ma concentrandosi solo ed esclusivamente sulla presenza del corpo, verrebbe da dire sulla potenza che il corpo continua ad avere anche dopo la morte. Citando consapevolmente the Act of Seeing

with One’s Own Eyes di Stan Barkhage (1971) e la serie fotografica Morgue184

di Andres Serrano (1992), quest’opera compie un passaggio estetico ulteriore rispetto ad altri lavori che trattano lo stesso argomento, perché costringe lo spettatore a vedere la morte dal punto di vista di un cadavere coreografato da una danzatrice. Al di là dei momenti in cui la protagonista si muove interpre- tando l’impiccagione e l’insorgere del rigor mortis, anche nelle sequenze in cui il suo corpo scivola sul tavolo operatorio pieno d’acqua, viene trasportato dall’elevatore, e viene sballottato dall’automobile che trasporta la bara vengo- no mostrati atti che diventano pure coreografie.

Lo stile estetizzante di alcune sequenze lavora su una consapevole con- traddizione percettiva: le immagini dei riflessi del corpo e del viso della pro- tagonista nella stanza operatoria e quelle della sequenza della bara, con il suo corpo vestito di bianco che scivola morbidamente sulla fodera di seta bianca, hanno una qualità e una bellezza pittorica che destabilizzano lo sguardo dello spettatore, ma lo portano al contempo alla consapevolezza che non può com- prendere quale sia il motivo che ha spinto la protagonista a questo gesto estre- mo: possiamo solo sentire attraverso il suo corpo il percorso che compie verso un nulla probabilmente liberatorio. Coreografare la propria morte significa liberarsi della morte stessa, celebrando (comunque) la presenza del corpo: la danzatrice che mette in scena il suo suicidio in un teatro deserto, appesa a una fune, lambendo col piede il tavolo operatorio, è presente comunque come figura danzante in tutti i momenti successivi alla sua morte, fino a scompa- rire del tutto, trasformata in un cumulo di ceneri che viene raccolto da mani esterne. Il viaggio verso la fine del corpo, verso il suo ultimo disfacimento, è rappresentato da vari eventi coreografici, alcuni drammatici, altri ancora tragicamente poetici: una danza fatta di tavoli operatori, cuori che vengono trasportati, macchine che drenano liquidi, ambienti che si trasformano da ospedali a palchi teatrali: tutta la materia che circonda il corpo è partecipe dell’ultima danza del corpo della protagonista.

Sabine Molenaar & Lisa De Boeck

Sabine Molenaar185 è una coreografa belga fortemente contaminata col mondo

dell immagini in movimento. Insieme alla fotografa Lisa De Boeck realizza nel 2013, in HD a colori, that’s It186, una reinterpretazione in immagini in mo-

vimento di un solo dal medesimo titolo. Con una serie di inquadrature quasi sempre fisse la camera segue le peregrinazioni di un corpo danzante in vari am- bienti disabitati: appartamenti, ascensori, teatri, androni, sale d’attesa, lunghi corridoi, hall di alberghi. La protagonista compare di volta in volta con vestiti e parrucche differenti e si esibisce in alcune performance dominate dalla distor- sione e dalla mancanza di equilibrio, assumendo a volte pose simili alle tensioni iperboliche delle contorsioniste. Dal punto di vista fotografico l’opera lavora su tessiture cromatiche dense, sature e non realistiche, proiettando lo spettatore in

185 http://sandmandance.com/. 186 https://vimeo.com/69158192.

un mondo apparentemente riconoscibile, ma immerso in un’atmosfera a volte da sogno a volte da incubo. Il commento sonoro elettronico lavora su frequenze basse, inquietanti, attraversate da suoni disturbanti.

Quest’opera deve molto alle atmosfere sospese e inquietanti del cinema di David Lynch187 e si concentra sulla presenza di un’unica performer che si tra-

sforma di volta in volta in personaggi differenti e che deambula in spazi deserti, come se qualcosa di catastrofico fosse successo e lei fosse l’unica sopravvissuta di un mondo in cui gli spazi sono rimasti intatti ma gli esseri umani sono mi- steriosamente scomparsi. Leggeri effetti di velocizzazione, di slow-motion e di reverse rendono i movimenti della protagonista ancora più stranianti, tanto che in alcuni punti le posizioni sconnesse del suo corpo collegate alla fotografia scura di certi ambienti fanno riferimento alle figure femminili che arrivano dall’oltre- tomba tipiche di un certo tipo di horror cinematografico giapponese.

Il rapporto fra la figura, i suoi movimenti e lo spazio circostante è sempre molto curato e determina la creazione di inquadrature in cui a volte il corpo è distante, soggiogato dall’architettura o dall’arredamento che la circonda. Ci sono alcuni luoghi ricorrenti come un ascensore nel quale la protagonista di- venta sempre più disarticolata e con il quale la camera intraprende una sua personale coreografia, avvicinandosi e allontanandosi ritmicamente. Non man- cano episodi dove si intravede un’ironia sottile, come nella sequenza in cui la danzatrice combatte con una borsetta che si ostina a caderle dalle mani, come se fosse impossibilitata a mantenere una qualsiasi situazione in equilibrio.

Il senso di fragilità del corpo e di caduta imminente è molto forte, tanto che verso la fine dell’opera la protagonista con una lunga parrucca rossa e vestita solo con una gonna di seta rosso scura, vista di schiena all’interno di un teatro deserto, lentamente si toglie la parrucca e, abbassando la testa sul suo torace,