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Molti cineasti sperimentali che abbiamo incontrato nel capitolo precedente cambiano tecnologia, passando dalla pellicola al video, per esplorarne la pos- sibilità, processo che in molti casi segna un mutamento di linguaggio all’in- terno della loro estetica.

Ed Emshwiller

Ed Emshwiller è il responsabile dell’ingresso del chroma-key all’interno della videodanza. Nel 1972 realizza, con la coreografia di Emery Hermans e Sarah Shelton, un video a colori di ventotto minuti: Scape-Mates. Realizzato con la collaborazione dello studio televisivo di New York WNET/Thirteen e di alcuni centri di produzione di immagini che sono già digitali, il passaggio dalla pellicola al video per Emshwiller rappresenta l’ingresso in un dominio tecnologico che lo avvicina sempre più al suo passato di disegnatore e grafico. Con il suo usuale spirito innovativo l’ex filmmaker e ora videoartista combina le possibilità tecnologicamente più avanzate che le macchine dell’epoca gli consentono di sperimentare, realizzando un’opera che diventa uno spartiac- que nella storia della videodanza in particolare e della screendance.

L’inizio del video combina fin da subito due dimensioni astratte: elettro- nica e digitale; la prima consiste in un magma caotico e colorato di forme liquide in movimento, la seconda è rappresentata da una serie di forme sem- plici di colore grigio in grado di simulare oggetti primitivi che assumono le sembianze di ambienti prospettici, fondamentalmente stanze. All’interno di queste due dimensioni virtuali, create esclusivamente dalla macchina-video, compaiono frammenti di un corpo maschile e di uno femminile che emer- gono dal nulla per interagire con gli ambienti. Mani, braccia, teste navigano e affondano negli spazi che costruiscono nel corso del video simulazioni di ambienti sempre più complessi e prospetticamente coerenti con un’idea pio- nieristica di paesaggio virtuale.

Verso la metà del video i danzatori si manifestano come corpi interi, co- perti da calzamaglie rosse che lasciano scoperte gambe e braccia, che lette- ralmente “abitano” gli spazi virtuali, ne sono sovrastati. I loro corpi vengono moltiplicati in silhouette dentro le quali scorrono linee energetiche e lumi- nose, mentre intorno a loro anche gli oggetti semplici simulati al computer si muovono come se partecipassero attivamente alla coreografia. Nell’ultima parte del video gli elementi elettronici e digitali che interagiscono coi corpi aumentano esponenzialmente in un crescendo suggestivo nel quale si forma una sorta di labirinto digitale attraversato dai performer. L’ultima immagine mostra il labirinto vuoto. Tutto il video è commentato da una musica elettro- nica composta da frequenze basse e da suoni più acuti che sottolineano alcuni momenti della coreografia.

Scape-Mates si presenta come una sorta di alfabeto possibile di un linguag-

gio che verrà sperimentato da molta videodanza. Emshwiller non si acconten- ta di associare la figura umana al magma elettronico, ma ipotizza il fatto che il video, sia esso elettronico e digitale, può costruire un ambiente artificiale in grado di ospitare figure danzanti: diventa lo spazio necessario che le nuove tecnologie offrono a un corpo che, come avveniva in un certo cinema di dan- za del passato, acquista dei poteri in più: si frammenta, vola, si trasforma in continuazione, proprio come l’immagine video. L’idea della frantumazione e al contempo della moltiplicazione del corpo è comune nella videodanza di questi anni perché il chroma-key attiva delle possibilità di gestione dello spazio inedite prima. Le possibilità di poter combinare fonti molto differen- ti fra loro (riprese dal vero, immagini astratte elettroniche e forme digitali) crea un’estetica da “collage” che Emshwiller sperimenta volentieri, dato il suo passato di pittore e grafico, e determina gli inizi di quello che sarà la prati- ca del compositing. Nonostante l’apparente eterogeneità delle fonti coinvolte in questo processo, l’artista americano intuisce che il video può diventare il luogo privilegiato dell’incontro di queste differenti dimensioni, soprattutto fra quella astratta e quella più referenziale. Il video diventa il luogo della miscelazione per eccellenza, il territorio dell’ibridazione di diverse “specie” dell’immagine.

Anche in Emshwiller l’idea della fluidità dell’immagine video si riversa in modalità di montaggio che il più possibile lavorano sulla continuità senza stacchi, sul passaggio graduale fra una situazione visiva e l’altra, mostrando allo spettatore la formazione degli ambienti digitali, facendo intervenire i

corpi in modo tale che emergano dal o affondino nel paesaggio virtuale. Tutte le immagini nascono e muoiono nel centro dello schermo, che diven- ta una sorta di punto di riferimento, anche prospettico, di tutte le forme coinvolte. Al contempo l’artista americano introduce soluzioni di montag- gio più tradizionali, come i tagli che servono per mettere in sequenza i vari quadri laddove la complessità della loro composizione non permette più passaggi graduali che rallenterebbero il ritmo interno dell’opera. La com- plessità tecnologica e tematica di questo video rappresenta uno stimolante primo sviluppo di quello che sarà il rapporto quasi costante fra videoarte e videodanza.

Nel 1973 Emshwiller tenta la soluzione del video di lunga durata (seguen- do lo standard dei cinquanta minuti) con l’opera a colori pilobolus and Joan, con la coreografia della compagnia Pilobolus Dance Theater5. L’opera è il ten-

tativo di inserire elementi narrativi all’interno del linguaggio che Emshwiller sta sperimentando in questi anni. Tratto dal racconto Metamorphosed di Carol Emshwiller6, moglie di Ed e scrittrice di fantascienza, l’opera vuole essere una

versione “inversa” del famoso romanzo di Franz Kafka e racconta le vicende di uno scarafaggio, Pilobolus, che si sveglia come un uomo. Inizialmente il personaggio vive un momento di solitudine e di perplessità nei confronti del mondo degli uomini, ma incontra Joan, una fanciulla che guida il proagoni- sta nelle bellezze del mondo dell’arte e della cultura newyorchese. Pilobolus vuole diventare un poeta: Joan non si dimostra particolarmente entusiasta di questa scelta e dopo una serie di vicende tragicomiche il protagonista decide di tornare scarafaggio, deluso dalla grettezza e dalla falsità dell’ambiente che ha frequentato.

Ed Emshwiller, precursore di molte tendenze all’interno del cinema di danza, con quest’opera si presenta anche come il primo promotore del- la formula del “video lungo” narrativo, la quale, come vedremo, non avrà una grande successo all’interno della videodanza sperimentale che preferisce esprimersi tramite formati corti. Alternando riprese dal vero girate a New York ed elaborazioni elettroniche di vario tipo, Ed Emshwiller si concentra sull’elemento più interessante di tutta l’opera, ovvero la rappresentazione di Pilobolus, una creatura formata da quattro danzatori intrecciati fra loro (fra i

5 https://pilobolus.org/.

quali compare Moses Pendleton, futuro fondatore della compagnia Momix7)

che acrobaticamente interpretano un unico stralunato corpo con otto gambe e otto braccia. Ironico e a tratti irriverente, questo video costituisce un’inte- ressante eccezione nella produzione di Emshwiller.

Il terzo video a colori che l’artista americano realizza tornando alla sua estetica sperimentale è Self Trio8 del 1976, con la coreografia di Carolyn

Carlson. Ritorna protagonista il chroma-key. La danzatrice da fuori campo entra in uno spazio totalmente nero e si presenta moltiplicata per tre, vesti- ta con una calzamaglia arancione. A turno le sue immagini moltiplicate si esibiscono in un solo: la prima senza nessun tipo di elaborazione, la seconda diventa un’immagine in bianco e nero che si gonfia, ruota su se stessa e si deforma lungo linee sinusoidali, mentre la terza diventa una silhouette bianca. Alla fine del video le tre versioni della danzatrice si esibiscono in un, come suggerito dal titolo, “self trio”. Dal punto di vista del montaggio il video di otto minuti è divisibile in due parti: la prima nella quale le singole versioni di Carolyn Carlson si esibiscono in successione, e la seconda dove danzano insieme, entrambe presentate come due pianisequenza. Diversi brani di musica elettronica ripetitiva commentano l’andamento del video.

Anche in questo caso Emshwiller anticipa alcuni trend stilistici della vi- deodanza. Innanzitutto la possibilità di moltiplicare il corpo del performer e farlo interagire con se stesso, creando così una coreografia virtuale di cloni del medesimo danzatore. In secondo luogo la capacità di creare situazioni spazio- temporali paradossali, perché entrambe le parti del video si presentano come riprese in continuità di un evento che fisicamente non può avvenire in tempo reale, se non grazie a una illusione gestita dalla macchina-video, in grado di creare pianisequenza simulati grazie all’uso del chroma-key. Al contempo l’elaborazione elettronica del secondo e del terzo clone di Carolyn Carlson avviene sotto gli occhi dello spettatore, che risulta quindi ancora di più con- vinto di assistere a un processo in continuità, come se stesse guardando uno spettacolo dal vivo dove avvengono eventi impossibili.

L’idea che il video possa lavorare sul concetto di tempo, grazie alla diretta, seguendo le stesse leggi della coreografia, in quest’opera crea un’interessante corto circuito percettivo perché proprio grazie al fatto che questa tecnologia lavora in

7 https://www.momix.com.

tempo reale è possibile creare situazioni paradossali dal punto di vista spazio-tem- porale, inganni percettivi, illusioni che affondano nell’idea di “meraviglioso” tipico di un certo pre-cinema, in particolare quello di Georges Méliès. Nella nostra epoca di selfie, Self Trio diventa anche un inconsapevole – ma straordinario – anticipatore della tendenza che la tecnologia ha di potenziare l’immagine di sé. In effetti così facendo forse la danzatrice potrebbe creare una coreografia con quanti cloni vuole, dato anche il fatto che lo spazio, completamente nero, può essere riempito poten- zialmente all’infinito. Il ritorno dello spazio vuoto nella videodanza assume anche il significato della presenza di un ambiente virtuale, e potenzialmente infinito, che può essere abitato in vari modi. Il concetto di virtualità sta cominciando a farsi strada già dalle prime esperienze di videodanza. È solo l’inizio di un lungo viaggio di reinterpretazione dell’immagine del corpo danzante.

Doris Chase

Doris Chase fa parte di quel gruppo di cineasti concentrati su un’estetica astratta che trovano nel video un mezzo per far scorrere in tempo reale il proprio immaginario.

Fra le numerosissime produzioni in video a colori di Doris Chase due desta- no particolare interesse: Dance 7 del 1975 e Jazz Dance del 1980. Nella prima le evoluzioni di Marnee Morris in uno spazio scuro sono riprese in continuità per sette minuti. La sua figura vestita con una calzamaglia chiara viene elaborata con un effetto di ritardo del segnale video che moltiplica il corpo creando dei cloni in sovraimpressione sempre più grandi e attraversati da linee energetiche verticali. Il corpo stesso della danzatrice lascia delle scie al suo passaggio e cam- bia colore durante la coreografia. La gamma cromatica dei video di questi anni testimonia la scoperta di una sorta di mondo primordiale di colori saturi che fa parte del linguaggio proprio della macchina-video.

Non c’è alcun riferimento consapevole all’arte psichedelica, quanto piut- tosto la volontà di far esprimere liberamente la tecnologia elettronica senza frapporre alcun filtro o tentativo di correzione. L’effetto di scia applicato ai movimenti del corpo è un’altra delle tante elaborazioni in tempo reale che non solo dimostrano le possibilità metamorfiche della tecnologia elettronica, ma la “naturale” reinterpretazione della coreografia filtrata dall’occhio del video. La colonna sonora di accompagnamento è un’improvvisazione jazz molto ritmica, una scelta piuttosto particolare in questi anni dove la musica elettronica è costantemente usata nelle produzioni di videodanza.

Jazz Dance rappresenta un ulteriore passo in avanti nell’associare il corpo

danzante al mondo delle forme astratte in movimento. Anche in questo caso la base visiva è una sequenza coreografica ripresa senza stacchi in uno spazio scuro eseguita da Guy DeLanghe. Il corpo del danzatore viene moltiplicato per due e trattato in modo tale che si trasformi in una sottile silhouette gialla circondata da linee sinusoidali blu, mentre tutta la performance viene forte- mente velocizzata. Il risultato finale in alcuni momenti presenta delle imma- gini in cui è veramente difficile distinguere una forma umana, ma solo sottili linee colorate in movimento. La simbiosi fra figura umana e linee astratte qui è completa e definitiva, tanto che forse quest’opera può essere definita un video astratto che approfitta di una coreografia, piuttosto che un’opera di videodanza, perché la performance originale si trasforma in un puro e sem- plice sample al servizio della macchina-video. Al contempo l’opera si presenta come una visione radicale di un modello di danza del futuro realizzato solo ed esclusivamente per la macchina, o verrebbe da dire dalla macchina. La musica è costituita da una serie di sequenze elettroniche che impone un ritmo freddo e robotico alla performance.

L’avvento e lo sviluppo dell’animazione digitale riprenderà queste sugge- stioni per immergere la danza in un universo veramente matematico, mentre in questi anni, anche e soprattutto per una questione tecnologica, questo pro- cesso è solo un’intuizione visualizzata con altri strumenti tecnologici.

Shirley Clarke

Fra tutti i cineasti citati in questo paragrafo che effettuano il passaggio dalla pellicola al video, Shirley Clarke è la più sorprendente. Sia Ed Emshwiller che Doris Chase vedono nel video una tecnologia più consona alle proprie sperimentazioni. Shirley Clarke sembra lontana da questo tipo di approccio, e potrebbe usare il video come semplice sostituto della pellicola, ma in realtà si immerge completamente nelle possibilità manipolatorie di questa tecnologia ottenendo risultati solo apparentemente simili alle opere citate finora.

Le produzioni video di Shirley Clarke sono due, entrambe realizzate a co- lori nel 1978 e coreografate da Marion Scott: Four Journeys into Mystic Time:

Trans e Four Journeys into Mystic Time: One-Two-three9. Il primo video è una

9 Entrambi i video sono disponibili nel cofanetto in versione Dvd e Blu-ray the Magic

ripresa in continuità di otto minuti di un solo della danzatrice Carol Warner ripresa all’interno di un teatro e illuminata dall’alto. Verso la metà dell’opera, lentamente, alla danzatrice viene applicato un effetto di scia che aumenta sempre di più. Il video è accompagnato da un brano atmosferico e suggestivo composto dal pioniere della musica elettronica Morton Subotnik10. Fin qui si

tratta di elaborazioni presenti in opere già citate, ma Shirley Clarke interviene con il suo “occhio” cinematografico perché questo effetto non vuole ragionare sulle possibilità di intervento sull’immagine in tempo reale, ma avere un rife- rimento preciso. Alla fine del video l’effetto, grazie ai particolari movimenti della danzatrice, disegna intorno al suo corpo una figura luminosa molto rico- noscibile: la Serpentine Dance di Marie Louise Fuller. L’omaggio alla pioniera del rapporto fra danza e luce è consapevole, e avviene attraverso una sorta di “passaggio di testimone” nel quale il video assume sia il ruolo di contenitore di memorie sia la funzione di pontenziamento tecnologico dell’idea originale. Se nelle documentazioni cinematografiche la “danza serpentina” è ottenuta con l’ausilio di lunghi bastoni e pesanti costumi, qui basta manovrare un mi- xer video. Da una dimensione fisica a una leggera, liquida, fatta di energia e luce intrinsecamente legate al mezzo stesso. La tecnologia del futuro in questo video si presenta come indissolubilmente legata alla tradizione del passato.

Four Journeys into Mystic Time: One-Two-three è una elaborazione in chro-

ma-key di nove minuti di una sequenza coreografica eseguita da due danzatrici e un danzatore. Questi ultimi vengono presentati uno per uno come sagome bianche immerse in una palette che cambia continuamente colore, per poi ap- parire nel loro aspetto naturale. Incontratisi, i danzatori, sempre inseriti in una campitura cromatica cangiante, eseguono una sequenza che viene ripresa in continuità. La musica composta da Ernst Toch è un brano interamente soste- nuto da un gruppo di voci che ritmicamente cantano un testo fatto di semplici parole, e contribuisce a dare all’opera un tono leggero e scanzonato. Per Shirley Clarke il chroma-key produce una dimensione ludica che viene costantemente svelata al pubblico. Se per esempio in Ed Emshwiller e in Doris Chase la came- ra è sempre fissa, in modo tale che i danzatori sembrino effettivamente inseriti in un ambiente, qui Shirley Clarke la muove in continuazione, e gli spostamenti relativi dell’immagine costituiscono una sorta di coreografia aggiuntiva che fa letteralmente volare i danzatori nello spazio colorato. Il risultato fortemente

bidimensionale di questo tipo di trattamento dell’immagine richiama un’este- tica da collage dichiarato, e distrugge qualsiasi possibile risultato correttamen- te prospettico. I danzatori vengono catapultati in uno spazio astratto e come tali perdono peso e annullano qualsiasi coerenza gravitazionale. Il desiderio di svelare il trucco è palese e, paradossalmente, richiama il “patto di fiducia” che il teatro impone allo spettatore che deve accettare scenografie a vista, sfondi dipinti e tutto l’artificio presente sul palco. Certamente anche Ed Emshwiller e Doris Chase lavorano su un’estetica esplicitamente artificiale, ma qui il gioco nella sua apparente semplicità è più dichiarato, frutto di una scelta radicale di accostamento fra corpo e sfondo astratto.

Amy Greenfield

Anche per Amy Greenfield il passaggio da pellicola a video impone degli scarti di linguaggio piuttosto significativi. La cineasta americana si approccia al video come strumento che può liberarla dai vincoli di durata delle bobine cinematografiche, e quindi realizza delle opere che inizialmente si manife- stano come esperimenti di ripresa di situazioni al contempo performative ed esperienziali sulla relazione fra uomo e donna. Nel video in bianco e nero e a colori del 1979 videotape for a Woman and a Man11 Amy Greenfield architetta

una situazione piuttosto particolare: in una sala prove la cineasta, che anche in questo caso si mette in scena, e il danzatore Ben Dolphin improvvisa- no nudi alcune sequenze coreografiche che vengono riprese da un operatore, Hilary Harris, e da un’operatrice, Pat Saunders, anch’essi nudi, come si può vedere in alcuni momenti nei riflessi del grande specchio appoggiato a una parete. Per la quasi totalità del video che dura trentatré minuti i danzatori sono dentro la sala prove, per poi uscire e continuare a danzare fra le onde del mare, e rientrare in studio. Nel video viene dichiarata l’intimità che intercor- re fra i due performer: si parlano, ridono, si incontrano, si scontrano, senza che questo, come avviene sempre nelle opere di Greenfield, produca un’atmo- sfera erotica. Il “doppio sguardo” che condivide la nudità dei soggetti ripresi si muove nello spazio improvvisando, cercando di seguire la coreografia e di addentrarsi allo stesso tempo nei dettagli dei corpi in azione. Gli operatori usano strumenti leggeri e poco ingombranti che li lasciano liberi di muoversi

11 Tutte le opere di Amy Greenfield citate in questo paragrafo sono dispinibili nel Dvd

nello spazio e di avvicinarsi ai performer. Tutte le riprese sono effettuate ri- gorosamente a mano e restituiscono all’osservatore un senso di spontaneità. L’intimità innescata fra danzatori e operatori è possibile anche grazie al fatto che la tecnologia video è più portabile. Il sonoro dell’opera è una combina- zione di audio in presa diretta e di testimonianze dei protagonisti registrate successivamente all’esperienza.

videotape for a Woman and a Man è un esperimento di visione della naturalezza della nudità espresso come danza all’interno dello studio e sca- tenamento del movimento nell’ambiente naturale del mare, osservato da due sguardi, uno maschile e l’altro femminile, che documentano una situazione coreografica che è dichiaratamente un work in progress, un’improvvisazione,