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La dimensione del documentario può dare origine a risultati sperimentali se la danza non è solamente l’oggetto di un’indagine audiovisiva ma entra a far parte nel tessuto del linguaggio delle immagini in movimento, determinando la realizzazione non di documentari sulla danza ma di documentari di danza. Il documentario di danza non è un’area particolarmente sperimentata, ma ha prodotto comunque alcune opere interessanti.

Hilary Harris

Hilary Harris è un documentarista e filmmaker sperimentale interessato al mondo della danza, tanto che lo abbiamo già incontrato come operatore per alcune opere di Amy Greenfield. Nel 1966 realizza un cortometraggio in pellicola in bianco e nero molto particolare: 9 variations on a Dance theme214.

Il cineasta americano filma la danzatrice Bettie De Yong eseguire una serie di movimenti in una sala prove illuminata con luce naturale da grandi finestre.

211 http://www.ubu.com/dance/keers_counter.html.

212 Estratto: https://www.numeridanse.tv/videotheque-danse/prelude-la-mer?s.

213 http://www.ubu.com/dance/forsythe_flat.html. Questo video è la base per un interes-

sante esperimento di trasformazione della documentazione della coreografia in una serie di dati visualizzati al computer presente in questo sito: https://synchronousobjects.osu.edu/.

214 http://www.ubu.com/film/harris_9-variations.html. L’opera è disponibile nel Dvd the

La breve sequenza coreografica viene ripetuta nove volte, ciascuna delle quali ripresa e montata con modalità differenti. In questo cortometraggio la camera è sempre portata a mano, il che contribuisce al senso di “reportage” dell’intera operazione.

La prima volta la macchina da presa ruota intorno al corpo della danza- trice senza effettuare alcun tipo di montaggio. La seconda volta sempre in pianosequenza la camera esegue un giro intorno alla danzatrice muovendosi in un altro verso. Dalla terza ripetizione subentra il montaggio che articola vari punti di vista. La quarta versione è tutta giocata sul montaggio di dettagli ravvicinati della danzatrice, mentre nella quinta la frammentazione diventa più veloce e offre una visione frenetica della sequenza. Nella sesta ripetizione l’occhio del cineasta si concentra esclusivamente sul movimento delle mani e dei piedi, nella settima vengono montati punti di vista dall’alto verso il basso e viceversa, nell’ottava i dettagli si fanno ancora più ravvicinati. Se finora Hilary Harris è stato attento a mantenere la continuità temporale e la durata originale della sequenza coreografica, nell’ultima parte questo meccanismo si dissolve per creare un libero montaggio di tutti i punti di vista utilizzati, ripetendo alcuni gesti e assemblando le varie riprese per creare una sorta di coreografia artificiale generata solo ed esclusivamente dal montaggio. Tutto il cortometraggio è accompagnato da un brano per clavicembalo e flauto tra- verso composto da McNeil Robinson215.

Nella sua semplicità quest’opera propone una serie di riflessioni interes- santi sul rapporto fra la danza e la macchina-cinema. Innanzitutto l’idea di proporre allo spettatore la stessa breve sequenza coreografica trattata in di- versi modi dimostra un intento di analisi scientifica e fredda dell’evento, per- ché elimina qualsiasi tipo di piacere visivo derivato dalla visione di un corpo danzante. Al contempo Hilary Harris riflette su cosa significhi riprendere la danza, realizzando un saggio su tutte le possibili modalità che la macchina- cinema può adottare di fronte a un evento coreografico, ovvero la varietà di punti di vista da un lato e le possibilità linguistiche del montaggio dall’altro. Con un suggestivo crescendo, il cineasta americano parte dalle soluzioni più semplici, che idealmente lavorano sul concetto di documentazione (il corpo intero, l’assenza di montaggio), prosegue intervenendo sempre di più soprat- tutto attraverso il montaggio, per finire con una coreografia “virtuale”, creata

con l’artificio del montaggio medesimo. Una gamma di possibilità che va dal massimo della nautralità al massimo della finzione.

L’opera si presenta come una sorta di documentario sul cinema di danza stesso, ovvero sull’intervento che il linguaggio cinematografico può operare su un evento performativo, sulle varie modalità con le quali la macchina può interpretare qualcosa di vivente.

Charles Atlas

Ritorna il nome di Charles Atlas nella veste non più di autore di documen- tazioni di danza ma di un’opera che apparentemente si presenta come un vero e proprio documentario, girato in pellicola a colori, dedicato alla figura del coreografo Michael Clark216: Hail the New puritan, del 1986, prodotto

dall’emittente televisiva inglese Channel Four. Lungo la durata di ottanta- cinque minuti, quest’opera sciorina tutti gli elementi di cui un documentario necessita: interviste, brani di spettacoli di Michael Clark rimessi in scena per la camera, documentazioni di prove di spettacoli, scene di vita privata, con- versazioni con amici, riflessioni di vari personaggi sul coreografo di vari per- sonaggi. Nel combinare tutti questi elementi tradizionali Charles Atlas attiva un processo di osmosi fra il linguaggio del documentario classico e l’estetica post-punk tipica del coreografo, creando un’opera coerentemente sgangherata e irriverente, dove tutto sembra una messa in scena autodistruttiva.

Il fatto che il documentario inizi con un sogno fatto dallo stesso Michael Clark avverte lo spettatore che la documentazione della vita quotidiana del co- reografo scozzese viene costantemente filtrata dalla sua dimensione onirica e a volte allucinatoria. Lo spettatore viene proiettato nella dimensione mentale del protagonista dell’opera, quindi paradossalmente è come se Charles Atlas realiz- zasse un documentario sulla psiche di Michael Clark. Gli spettacoli sono messi in scena in scenografie televisive improbabili e anche quando vengono docu- mentate con le loro scenografie originali non sono mai introdotte o presentate, per cui lo spettatore non sa quale sia il loto titolo. A volte la troupe entra in scena durante le esibizioni e il montaggio spezza in continuazione la continuità delle performance. Atlas in alcuni momenti introduce degli “effetti Méliès” grazie ai quali i danzatori compaiono e scompaiono. Le interviste e le scene “di vita rea- le” non comunicano allo spettatore nessun tipo di informazioni significative, le

conversazioni con alcuni amici, che ammiccano in continuazione verso la cine- presa, sono chiaramente messe in scena. Tutta l’opera viene interrotta spesso da scene in cui membri della compagnia di Clark corrono per le strade di Londra, sono al pub o in discoteca. In definitiva: il caos per circa un’ora e venti minuti. Non mancano le performance più provocatorie di Michael Clark, come l’esibi- zione, musicata dal gruppo post-punk The Fall217, dove danzatori e danzatrici

si esibiscono vestiti con costumi sgargianti che lasciano scoperte le loro natiche. Questa performance, come vedremo, sarà una delle prime collaborazioni espli- cite fra il mondo della coreografia contemporanea e della musica rock-pop che investirà inevitabilmente anche l’area produttiva dei video musicali.

Piuttosto che un documentario sulla “danza punk” di Michael Clark, Charles Atlas, ovviamente nei limiti del possibile di una produzione televisiva comunque lungimirante, realizza un “documentario punk” sull’immagina- rio del coreografo, adeguando il linguaggio audiovisivo all’estetica originale e trasgressiva del soggetto trattato.

Clara van Gool

Clara Van Gool, dopo aver diretto insieme a Lloyd Newson Enter Achilles, continua la sua carriera di cineasta realizzando una serie di opere in cui la danza assume un ruolo sempre molto importante. Una sua opera significativa è voices of Finance218, realizzato in HD a colori nel 2016. Il mediometraggio di

trenta minuti è tratto dal blog dall’omonimo titolo, curato da Joris Luyendijk e pubblicato su «The Guardian», in cui compaiono varie interviste anonime, trascritte sotto forma di monologhi, di diversi operatori della finanza che raccontano, o per meglio dire confessano, retroscena e impressioni personali di quel mondo219.

La cineasta raccoglie dieci interviste e le trasforma in monologhi danza- ti interpretati da Jozef Varga, Kim-Jomi Fischer, Ankur Bahl, Joseph Mill- son, Medhi Walerski220, Nadia Yanowki, Jordi Cortés Molina, Dane Jeremy

Hurst221. La formula di fondo ricorda le scelte linguistiche di 21 Etudes à danser

217 http://thefall.org/. 218 Estratto: https://claravangool.nl/Voices-of-Finance. 219 https://www.theguardian.com/commentisfree/joris-luyendijk-banking-blog/2013 /oct/01/10-best-quotes-financial-insiders-banking-blog. 220 https://medhiwalerski.com/. 221 http://www.danejeremyhurst.com/.

di Thierry De Mey: gli interpreti danzano e recitano un testo svolto in prima persona guardando direttamente in macchina e danzando. La profonda diffe- renza è che in questo caso il monologo ha un approccio fortemente narrativo e autobiografico. I danzatori e le danzatrici vengono inseriti in ambienti coerenti con la loro professione, quindi fondamentalmente interni di uffici o di abitazio- ni personali, anche se non manca il contesto urbano e architettonico suggestivo della City di Londra, il cuore finanziario della Gran Bretagna.

Ogni personaggio rappresenta una possibile declinazione del mondo della finanza: il “Bank Equity Analist” danza mentre si veste nella sua camera da letto, il “Broker” si esibisce in vari luoghi della città, arrampicandosi su tetti, co- lonne e scale, il “Programmer of Algorithms” è seduto in un inquietante ufficio deserto pieno di computer, il “Derivates Trader” è ritratto all’interno di un taxi, i “Dealmakers” sono corpi che vagano nella hall di un palazzo lussuoso, l’“In- vestment Banker” esegue la sua performance dentro un ascensore fatto di vetri, la “Human Resourses Manager” è in un ufficio pieno di persone ma sembra invisibile perché nessuno interagisce con lei, il “Former treasurer of a Collapsed Bank” si muove in una grande sala riunioni deserta, “The Girlfriend” è da sola nella sua camera da letto, infine il “Former Head of Structured Credit”è seduto in un pub, elegante ma disabitato. Nella maggior parte dei casi i monologhi sono interpretati dai danzatori stessi, in altri da una voce fuori campo.

Le riprese e il montaggio adottano uno stile omogeneo molto semplice e diretto, in modo tale che lo spettatore possa concentrarsi ad ascoltare le storie e a guardare i corpi dei performer in rapporto allo spazio nel quale sono inseriti. Le coreografie sono curate direttamente dai danzatori chiamati a interpretare i singoli episodi. Poché la parola è la protagonista dell’opera, la musica è poco presente e assume il ruolo di accompagnamento sonoro della performance.

voices of Finance è un esempio coraggioso di come si possa realizzare un

documentario usando come unici strumenti comunicativi la danza e la parola rappresenta un’abile sperimentazione di osmosi fra il linguaggio del docu- mentario e quello del cinema di danza, in grado di generare un vero e proprio “documentario danzato”, naturale declinazione del “film danzato” già speri- mentato insieme a Lloyd Newson. L’opera non vuole avere un atteggiamento neutro nei confronti del tema: la cineasta cerca le interviste in cui emergono l’alienazione, la spersonalizzazione, il cinismo, le delusioni e le contraddizioni che condizionano i protagonisti. La danza si adegua ai racconti di ciascun personaggio e si presenta il più delle volte come un’esecuzione fredda, risulta-

to di una sostanziale dissociazione fra parola e corpo, come se i protagonisti presenti in quest’opera fossero automi che hanno perso la loro umanità da molto tempo. I luoghi che abitano sono quasi sempre due: l’ufficio e la camera da letto, come se il loro tempo fosse scandito esclusivamente da due dimen- sioni: il lavoro e il riposo. Il rapporto con l’esterno costituisce sempre un problema: nell’episodio “The girlfriend” una giovane donna parla con il suo compagno esclusivamente attraverso messaggi telefonici e, se la protagonista si lamenta della sua situazione di solitudine, la voce registrata le elenca tutte le cose che può comprare.

La critica al materialismo è molto presente in quest’opera ma non è il rifles- so di un atteggiamento ideologico esterno, perché paradossalmente sono molte le interviste che insistono sul fatto che, nonostante i soldi guadagnati, il prezzo da pagare sia una fortissima solitudine, l’incapacità di intraprendere una vita sociale al di fuori dell’ufficio e un sostanziale inaridimento emotivo che porta a una sorta di frustrazione costante, di desiderio di voler possedere sempre di più. Per questo motivo la cineasta rappresenta gli uffici, che spesso sono arredati sontuosamente o appaiono di grandi dimensioni, come luoghi vuoti, a volte bui, certamente non abbandonati ma in qualche modo desolanti. Scale e ascensori diventano elementi ricorrenti come riferimenti diretti ai concetti di ascesa e di caduta.

Le rare volte in cui il paesaggio urbano della City è co-protagonista degli episodi, da un lato sovrasta i performer, dall’altro funge solo da paesaggio per corpi che la attraversano (come il “Derivates Trader” in taxi) trasformandola in una dimensione unicamente utile alla propria carriera personale. La mag- gior parte dei personaggi è affetta da un egotismo infantile che impedisce di guardare il mondo esterno come “altro da sé”, ma come una semplice estro- flessione del proprio io, e lo strumento della danza spesso sottolinea questa vanità di fondo che attraversa tutti i personaggi. Anche per questo motivo la dimensione esterna è poco presente.

voices of Finance pone le basi per una possibile nascita di un genere ibrido fra