• Non ci sono risultati.

Il rapporto fra cinema sperimentale e danza non si ferma con l’esperienza di Maya Deren, ma produce una notevole varietà di esperienze visive che scorre in parallelo, come il lettore potrà verificare nella Timeline alla fine del libro, con il connubio fra videoarte e danza. Molti filmmaker appartenenti a vari rami di sperimentazione, tra cui (non a caso) l’animazione astratta, comincia- no a considerare il corpo danzante come un soggetto privilegiato.

Len Lye

Len Lye34 rappresenta la “seconda ondata” di cineasti interessati all’astrazione,

dopo quella degli anni Venti, fortemente legata alle avanguardie storiche. Lavora prevalentemente presso lo G.P.O. Film Unit di Londra, ovvero l’ufficio che si occupa di produrre spot pubblicitari sui servizi delle poste inglesi, il General Post Office, appunto: un luogo in cui approda, rimanendovi solo pochi anni, anche un altro autore di cui parleremo in seguito: Norman McLaren.

Len Lye ha un approccio radicale con la materia della pellicola, nel senso che sviluppa delle tecniche di intervento diretto su di essa: vi dipinge sopra, la graffia, la sporca, incolla elementi semitrasparenti, la timbra. I suoi film astratti musicali sono dei caleidoscopi coloratissimi dove le immagini si susse- guono velocemente e casualmente, creando delle architetture visive luminose sorrette da un unico elemento: il ritmo. Le scelte musicali si concentrano su brani dove la parte percussiva è preponderante, in modo tale da esaltare il flusso visivo. Come per molti autori concentrati sul concetto di astrazione, anche in Len Lye nasce il bisogno di evocare l’idea della danza non più solo come suggestione teorica che richiama il movimento delle forme, ma come figura vera e propria da integrare nella propria estetica visiva.

Significativo già per il titolo, A Rainbow Dance35 del 1936 è la coniugazione

di due elementi fondamentali dell’opera di Len Lye: il movimento ritmico delle forme (la danza) e il colore (l’arcobaleno). La “danza dell’arcobaleno” irrompe,

34 http://www.lenlyefoundation.com/.

35 Esistono vari Dvd che raccolgono le opere di Len Lye: il più recente e completo è Colour

probabilmente in maniera inconsapevole, come un’opera assolutamente origina- le nel panorama del cinema di danza soprattutto di questi anni, un periodo in cui i registi sono ancora legati all’uso del bianco e nero e al bisogno di inserire la danza in un contesto para-narrativo, e rappresenta un primo passo importante nel processo di osmosi linguistica fra il concetto di astrazione e quello di danza e di rappresentazione di quest’ultima come “movimento in sé”.

All’interno del magma veloce e pieno di colori di forme astratte semplici ti- pico delle opere di Len Lye, viene inserita la figura di un danzatore, Rupert Do- one, mentre compie gesti semplici: suona uno strumento, lancia “virtualmente” con una racchetta cerchi colorati, salta, gioca con gli oggetti come fossero part- ner di un buffo duo. La figura umana a volte è una silhouette monocromatica che cambia ritmicamente colore, a volte ospita al suo interno una serie di im- magini astratte che, per contrasto rispetto allo sfondo, rende riconoscibile allo spettatore la presenza di un corpo. Il danzatore, saltando, emette vari fermo- immagine colorati che sezionano il suo movimento (come nelle fotografie di Eadweard Muybridge), mentre a volte viene inserito in sfondi disegnati raffigu- ranti spazi architettonici semplici che richiamano la pittura metafisica.

Len Lye sfoggia un repertorio di idee che saranno molto importanti per il futuro della screendance, anticipando l’uso del chroma key e della trasformazio- ne del corpo in silhouette colorata (una tecnica che deriva dalla fotografia e che si chiama solarizzazione). In questo cortometraggio Len Lye non vuole tradurre la figura umana in immagine astratta danzante, ma in un elemento visivo per- fettamente organico alle forme messe in campo, in totale dialogo. Il danzatore abita dentro alle immagini astratte: le ospita all’interno del proprio corpo, le può toccare con la sua racchetta, lascia tracce statiche del proprio movimento. Per fare questo egli deve diventare un ibrido fra forma riconoscibile e astrazione: una silhouette colorata che partecipa del ritmo imposto da tutto l’ordito visivo.

Qui il danzatore non è disperso dentro al mondo dell’astrazione, ma ne è in qualche modo il coreografo: sono i suoi gesti a “condurre le danze” delle immagini astratte, che rispondono alla sua performance diventando a tutti gli effetti il vero partner di un duo fra corpo e astrazione. Il connubio fra sperimentazione cinematografica e danza sta cominciando a produrre opere in cui la combinazione dei due elementi diventa una vera e propria fusione in grado di generare un ibrido che offre allo spettatore una “visione” della danza, più che una sua, per quanto rielaborata dalle riprese o dal montaggio, semplice rappresentazione filmata.

Sara Kathryn Arledge

Sara Kathryn Arledge36 è una delle tante presenza femminili che costellano le

origini di un cinema sperimentale americano autoctono che utilizza, in que- sto caso in maniera non sistematica, la danza come oggetto d’indagine privi- legiato. La filmmaker americana realizza solo un cortometraggio che, come lei stessa scrive nei titoli di testa, costruisce un “Dancer Imagery”, un “imma- ginario del danzatore” e quindi della danza eseguita da James Mitchell, Bill Martin e Joe Riccard in numerose sessioni che vanno dal 1941 al 1946, in sincronia con le prime opere di Maya Deren.

Introspection37, del 1946, si presenta come un’opera radicalmente diversa

dall’immaginario che in questi anni Maya Deren sta costruendo, e proietta l’immagine del corpo danzante in un orizzonte visivo vicino all’astrazione tanto caro ai cineasti sperimentali europei. Girato a colori, qui il corpo diven- ta decisamente un oggetto, una parte integrante di una serie di architetture visive suggestive e straordinariamente in anticipo sui tempi: bisogna aspettare gli ultimi lavori di Maya Deren o più precisamente il 1968, l’anno di rea- lizzazione di pas de deux di Norman McLaren, di cui parleremo più avanti, prima che un’opera affronti in maniera così diretta la possibilità di coniugare la figura del corpo danzante con l’estetica delle avanguardie cinematografiche europee, di incarnare nella figura del danzatore l’idea che la natura dell’im- magine in movimento, l’essenza stessa del cinema, è di fatto coreografica.

Nel cortometraggio i danzatori sono rappresentati avvolti da una tuta ade- rente bianca illuminata da colori primari, che li spersonalizza trasformandoli in sagome luminose in uno spazio nero. La figura della “linea bianca su sfondo nero”, la forma danzante protagonista del cinema astratto degli anni Venti, è qui richiamata in modo consapevole. Ma in questo caso l’intento non è esatta- mente quello di individuare l’immagine del corpo da una forma astratta, ma di costruire immagini di “nuovi corpi”: come nei collage surrealisti, tramite una serie di sovraimpressioni e l’uso di singole parti di tute (braccia o gambe), i corpi dei danzatori vengono sezionati e ricomposti, diventano iper-corpi, figure

36 https://www.facebook.com/arledgearts/. La pagina è gestita dalla fondazione Sara

Kathryn Arledge Memorial Trust.

37 Il cortometraggio è inserito nel Dvd viva la dance-the Begginnings of Ciné-dance

nel cofanetto Unseen Cinema. Early America Avant-Garde Film 1894-1941, Image Entertainement.

tentacolari che galleggiano nello spazio. I danzatori sono illuminati ciascuno con un colore primario, in modo tale che la sovraimpressione fra le varie sago- me produca per addizione varianti cromatiche differenti. Il riferimento ai colori primari diventa con questo cortometraggio una sorta di stilema costante anche per molte sperimentazioni video, anticipatore di un’estetica cromatica psichede- lica che sarà molto usata negli anni seguenti.

Un altro tema del cortometraggio, costante nell’opera di Arledge come tentativo di dare forma al concetto di tempo, è la circolarità, richiamata dai movimenti dei danzatori. Dopo aver assemblato parti di corpi, la filmma- ker li seziona concentrandosi anch’essa sulle mani, che vengono moltiplicate come se volassero in moto rotatorio costante e infinito. Grandangoli eccessivi deformano completamente le immagini dei corpi che acquistano una aspetto ovoidale e che vengono continuamente sovraimpressi con parti di corpi dan- zanti. Spesso figure astratte e monocromatiche a forma di ellisse circondano i visi o i corpi dei danzatori, a rimarcare la vicinanza fra la presenza dei corpi e figure astratte semplici. Compare anche l’uso del negativo che ribalta il rapporto cromatico fra figura e sfondo, trasformando i corpi in sagome scure e lo sfondo in una spazio monocromatico chiaro. Il trattamento del corpo in negativo, formula che Maya Deren sperimenta nei suoi ultimi lavori per trasformare le figure in ectoplasmi, qui assume il valore di una sorta di altro punto di vista, un “mondo nel mondo” dove i frammenti di corpi mantengo- no ancora una strana fisicità. In questo cortometraggio è molto chiaro il fatto che se l’evento coreografico deve diventare un elemento interno al linguaggio cinematografico, deve essere costruito appositamente per la camera e non de- rivare da una coreografia già preimpostata.

L’atmosfera visiva del cortometraggio, complici i costumi scelti, è quasi fan- tascientifica e crea un radicale contrasto con la traccia musicale rappresentata dal Quartetto per archi n. 14 ver Tod und das Mädchen (La morte e la fanciulla), secondo movimento, andante con moto, di Franz Schubert (1824) che confe- risce alle immagini un’aura di eternità atemporale, come se qui fosse rappre- sentato un mondo immerso in un futuro remoto o in un passato futuribile. Il tema pittorico della “Morte e la fanciulla” ritorna come riferimento musicale.

Introspection è un’opera fondamentale soprattutto per l’approccio radicale non

solo estetico e stilistico, ma anche tecnologico, che apre un fronte di sperimen- tazione importante e fecondo per gli anni a venire.

Shirley Clarke

Shirley Clarke38 si forma giovanissima presso la scuola di Martha Graham e

dopo aver intrapreso una breve carriera come danzatrice avvia quella di cineasta concentrata, per lo meno in una parte delle sue opere, sul rapporto fra cinema e danza. Pur lavorando in contemporanea all’ultimo periodo produttivo di Maya Deren, non sembra vi siano rapporti diretti fra le due cineaste, ma l’influenza di quest’ultima è evidente nell’opera prima di Clarke: Dance in the Sun39, del 1953.

Il colore sta progressivamente entrando come elemento importante nella storia della screendance: sotto questo aspetto Clarke compie delle scelte interessanti, perché i suoi cortometraggi sono trattati in modo tale che risaltino due colori fondamentali, uno freddo e uno caldo, tanto che i suoi film potrebbero essere definiti “bi-cromatici”.

Un danzatore (Daniel Nagrin) entra in una sala prove dove lo sta atten- dendo una pianista, poggia una valigia sulla coda del pianoforte, la apre ed estrae una conchiglia, osservandola per alcuni secondi: ora, con un cenno, avverte la pianista che può cominciare a suonare. Il danzatore comincia la sua performance, la cinepresa si sofferma sul primo piano del viso che sembra assorto, più che concentrato, e la coreografia, esattamente come aveva speri- mentato Maya Deren in tanti suoi cortometraggi, viene proiettata in un am- biente esterno: una spiaggia in riva al mare. Clarke usa lo stesso stratagemma di montaggio delle opere di Deren: utilizzare i raccordi sul movimento del danzatore per visualizzare la sua performance ora all’interno della sala prove ora nell’ambiente esterno, allo scopo di creare una continuità esclusivamente filmica, si potrebbe dire virtuale. Il cortometraggio si chiude con Daniel Na- grin che conclude la sua performance e si consulta con la pianista su alcuni dettagli.

Lo stile di Clarke, al di là delle scelte di montaggio evidenziate prima, si diffe- renzia da quella di Maya Deren soprattutto per quello che riguarda la ripresa. Se Maya Deren è istintiva, viscerale e usa per lo più la camera a mano, Clarke è più riflessiva, attenta alla composizione dell’inquadratura. Spesso il danzatore è ripreso a figura intera e posizionato in un lato del quadro, lasciando quindi molto spazio

38 http://www.projectshirley.com/.

39 http://ubu.com/film/clarke_shorts.html. In questo link sono presenti Dance in the Sun

e A Moment in Love, con una qualità piuttosto scarsa, mentre tutti i film (in versione re- staurata) e i video di Shirley Clarke sono raccolti nel cofanetto in versione Dvd e Blu-ray the Magic Box. the Films of Shirley Clarke, The Milestone Cinematheque.

all’ambiente: quando è nello studio si creano delle interessanti geometrie, quando è all’aperto la natura prende il sopravvento. Dato che sovente Clarke alterna campi e controcampi, per mantenere la dinamica dei raccordi sulla posizione del danzatore crea delle suggestive articolazioni fra corpo e spazio. Pur muovendola, la camera è fissata rigorosamente su cavalletto, orchestrando riprese molto pulite, fluide, dove lo sguardo dell’osservatore è nascosto dietro l’obiettivo, e non evidenziato come nelle opere di Maya Deren. Il “duo” fra danza e cinema per Shirley Clarke consiste soprattutto nel lavoro sul montaggio e, come vedremo più avanti, sulle possibilità metamorfiche dell’immagine in movimento.

Anche per quanto riguarda la gestione del contenuto visivo Clarke è più tradizionale, individuando un incipit e un finale che aprono e chiudono l’arco narrativo. Ma soprattutto l’apparente illogicità dell’alternanza fra spazio interno e ambiente esterno è risolta da Shirley Clarke, anche in questo caso attingendo a una tradizione cinematografica piuttosto consolidata, attraverso la soggettiva- zione: il danzatore ha una conchiglia nella valigia, mentre balla si sofferma come se stesse pensando a qualche cosa, quindi è chiaro che nel momento in cui la sua coreografia si proietta all’esterno stiamo assistendo alla visualizzazione del mon- do mentale del protagonista: i suoi ricordi, o i suoi desideri, forse i suoi sogni. La dimensione onirica non appartiene all’immagine in sé, come per Maya Deren, ma a una visione “interna” del performer: è uno sguardo intimo e privilegiato sulla danza che forse solo chi ha sperimentato in prima persona questa discipli- na, come Shirley Clarke, può aver provato per restituirlo allo spettatore sotto forma di immagini e suoni in movimento.

Nella sua seconda opera, Bullfight del 1955, Shirley Clarke compie uno scarto decisivo, puntando tutto su un’operazione di puro montaggio strutturato sull’al- ternanza di tre livelli visivi: le evoluzioni coreografiche di Anna Sokolow in uno spazio neutro, scene di corrida e la medesima danzatrice che siede in mezzo al pubblico mentre compie uno strano gesto panoramico con il viso, come se in real- tà il suo sguardo cogliesse un altro livello di realtà. La cromia del cortometraggio è concentrata sull’esasperazione di tre colori fondamentali: il rosso, l’indaco e il nero. Il ruolo della danzatrice all’interno dell’opera viene chiarito fin dall’inizio quando, attraverso una dissolvenza incrociata, la sua figura è collegata al disegno di un torero disegnata su un manifesto. Sokolow reinterpreta coreograficamente i movimenti di quest’ultimo, ne simula i gesti, le cadute, le vittorie e le sconfitte. A volte compaiono veloci soggettive del torero che vengono anch’esse collegate ai movimenti del viso della danzatrice nello spazio neutro, mentre le sua presenza nel

pubblico rappresenta un enigmatico “ponte” fra due dimensioni, una oggettiva (la corrida vera e propria) e una soggettiva (la corrida che diventa danza). Sempre più spesso incontreremo opere di screendance che inseriscono la dimensione della danza in un territorio i cui confini sono rappresentati dal sogno, dalla fiaba, da un’interpretazione mentale o fortemente soggettiva del mondo. Questo cortome- traggio rappresenta anche una delle prime opere dove la danza lavora a livello di movimento traendo ispirazione da una qualche cultura popolare, e non da una tradizione coreografica, e un lavoro in cui Clarke si sgancia da qualsiasi tentazione narrativa per lavorare sulla pura emozione.

Con A Moment in Love del 1957, coreografato da Anna Sokolow, Shirley Clarke torna alle atmosfere di Dance in the Sun e alle cromie di Bullfight, sep- pure più stemperate e meno scure, sperimentando però un linguaggio visivo molto più complesso. Anche in questo caso c’è una semplice traccia narrativa: una coppia di amanti si incontra in un bosco, esegue una serie di evoluzioni coreografiche, e alla fine del cortometraggio li vediamo sdraiati, come a sug- gerire il fatto che tutto quello che abbiamo visto prima è in realtà un sogno. La parte centrale del cortometraggio si articola in una serie di suggestive sequenze dove i danzatori sono spesso immersi in sovraimpressione con im- magini di nuvole, come se volassero, e dove dal punto di vista formale tutta l’architettura visiva diventa opalescente, quasi trasparente, acquistando una notevole eleganza formale. I movimenti dei corpi a volte sono montati in loop, creando un effetto straniante che evita di produrre un’atmosfera banalmente romantica. Infatti si intuisce che il protagonista maschile ha paura di perdere la sua amata: la danza diventa un inseguimento, mentre la figura femminile sparisce letteralmente nello spazio naturale, per ricomparire in altri luoghi. Clarke, che è anche operatrice e montatrice di questo cortometraggio, si eser- cita nella consueta pulizia delle riprese e nella cura all’articolazione fra corpo e spazio. In questo caso però l’ambiente e i corpi si liquefano, rarefacendosi in un’atmosfera opalescente.

Come in the very Eye of the Night di Maya Deren anche qui lo spettatore è immerso in un’atmosfera magica e infantile, dove il repertorio degli effetti del cinema delle origini e soprattutto di quello d’avanguardia ritornano prepoten- ti. Anche in questo caso la ricerca della rappresentazione della leggerezza dei corpi trasforma i protagonisti in iper-danzatori in grado di vincere qualsiasi vincolo col mondo terreno: volano, scompaiono, riappaiono, perdono la loro fisicità per trasformarsi in immagini. Il riferimento a elementi liquidi diventa

necessario, e la deformazione dei corpi dei danzatori ottenuta riprendendoli come riflessi su uno specchio d’acqua è al contempo l’ennesima metamorfosi possibile e un sincero omaggio alle visioni del cinema sperimentale degli anni Venti, soprattutto di quello surrealista. Germaine Dulac e la sua rappresen- tazione della natura, come appare per esempio in Étude cinégraphique sur

une arabesque del 1929, sono riferimenti visivi piuttosto vicini all’estetica di

questa opera di Shirley Clarke, che proietta la tradizione cinematografica sur- realista in una dimensione di movimento puro, creando un’estetica in bilico fra un passato quasi “mitico” e fiabesco e una contemporaneità straniante.

La parte più interessante di questo cortometraggio è ambientata in una città distrutta: fra le macerie il protagonista continua a inseguire la sua ama- ta, che svanisce e ricompare, come fosse il fantasma di un desiderio. Il cor- tometraggio diventa improvvisamente drammatico e scuro, mentre alcune riprese catapultano lo spettatore negli interni scuri degli edifici in rovina. In un ambiente desertico finalmente i due si incontrano e si abbracciano: una serie di sovraimpressioni moltiplica i corpi dei due danzatori, potenziando visivamente la passionalità della scena. Si ritorna al bosco dell’inizio, dove il protagonista offre una rosa alla sua amata.

A Moment in Love è un interessante esperimento di visualizzazione at-

traverso la danza di una serie di paure che diventano angosce: la perdita, innanzitutto, ma anche la distanza, la non accettazione, l’inizio di qualcosa che può spaventare, l’emozione dell’incontro, la frustrazione, infine la morte. Tutto concentrato in un “momento” che si dilata per otto minuti.

Shirley Clarke conclude la sua sperimentazione con la danza con un proget- to impegnativo diviso in quattro parti intitolato Four Journeys into Mystic Time del 1978, con la coreografia di Marion Scott. Se il primo e quarto episodio (Initiation e Mysterium) si presentano come semplici captazioni, gli altri due, realizzati in elettronica, sono più interessanti e saranno trattati nel capitolo de- dicato al passaggio di alcuni cineasti dalla pellicola alla tecnologia video.

Ed Emshwiller

Ed Emshwiller40 (Edmund Alexander Emshwiller) dopo un periodo di spe-

rimentazione della pittura astratta, diventa un illustratore di fantascienza,

40 Non esiste un sito ufficiale, neanche postumo, di questo cineasta: indico la pagina dedi-