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Le tecniche della stop-motion (o passo uno) e del time-lapse sono state spora- dicamente citate precedentemente, ma per alcuni autori di cinema di danza diventano il perno tecnologico e stilistico attorno al quale strutturare del- le coreografie riconfigurate dalla macchina-cinema. In alcuni casi la stop- motion applicata a immagini dal vero (prevalentemente corpi umani) viene anche chiamata pixellation – termine che non useremo.

149 https://davidlangmusic.com/. 150 http://www.nadinemedawar.com/.

Animare un corpo umano, approfittando della possibilità di lavorare fo- togramma per fotogramma, è un’operazione che molti autori di animazione hanno sperimentato ottenendo diversi risultati, il più importante dei quali è sicuramente Jan Švankmajer. Ma il desiderio di applicare questa tecnica a un corpo danzante, in modo da creare una coreografia fatta quasi esclusivamente solo dall’intervento della tecnologia, comincia a nascere nel momento in cui la screendance diventa già un genere maturo, ovvero la fine degli anni Ottan- ta. Pur essendo una frontiera di sperimentazione feconda di possibilità, non si è creato un vero e proprio genere, ma esperienze sporadiche che hanno aperto una porta che rimane ancora oggi aperta.

pascal Baes

Pascal Baes151 ha un curriculum da artista e da cineasta sperimentale ma com-

pare anche in alcune sue opere di cinema di danza in qualità di performer insieme ad altri che hanno invece un background più specificamente da dan- zatori. Le coreografie dei suoi cortometraggi di danza sono firmate da un gruppo di performer tra cui spicca il nome di Jérôme Bel152, un danzatore e

coreografo che diventerà noto negli anni successivi.

46bis153 (1988) si configura subito, come spesso succede in questi anni

nella produzione europea e soprattutto francese, come un video musicale di danza: girato in pellicola bianco e nero, della durata di tre minuti, l’opera è la visualizzazione di un tango cantato da Lili Boniche, un cantante francese nato in Algeria. La coreografia è affidata alle due danzatrici presenti nell’ope- ra: Sara Denizot154 e Laurence Rondoni155. Ambientato nell’interno del corti-

le del numero 46 bis di Rue de Belleville a Parigi, la via in cui nacque Edith Piaf situata in un quartiere vivace e multietnico vicino al cimitero di Père Lachaise, quest’opera è un omaggio nostalgico e polveroso a una certa idea ro- mantica della città. Le due danzatrici, vestite di nero e con anfibi neri ai piedi, si spostano nello spazio grazie alla tecnica della stop-motion come se stessero scivolando sul terreno mosse da una misteriosa energia. Anche i movimenti di macchina sono gestiti con questa tecnica, per cui il risultato finale è quello di

151 https://www.criticalsecret.net/_pascal-baes,050_.html. 152 http://www.jeromebel.fr/index.php.

153 https://vimeo.com/8783421.

154 https://data.bnf.fr/fr/14676304/sara_denizot/.

assistere a un vecchio film rovinato, che procede a stacchi, imperfetto e poco fluido, appena uscito fuori da un qualche archivio cinematografico. A volte le danzatrici sono riprese dall’alto, approfittando del fatto che il pavimento del cortile è bagnato e riflette l’architettura circostante, creando un suggestivo effetto speculare. Sul pavimento si intravede anche un diagramma che serve alle danzatrici per posizionarsi e rendere parzialmente più fluidi i loro sposta- menti. A volte la camera si muove circolarmente intorno a loro, altre volte si allontana e si avvicina per puntualizzare alcuni momenti della coreografia. In altri punti dell’opera la camera è ferma, attenta a creare un dialogo fra corpi e architettura.

L’anno successivo, nel 1989, Pascal Baes realizza altre due opere anch’esse girate in bianco e nero: Topic I (Frankenstein Family) e Topic II (Holidays,

Come Back to Factory)156, mantenendo ferme alcune scelte stilistiche, come

l’uso del bianco e nero, l’utilizzo di scorci cittadini particolarmente suggestivi e la creazione di atmosfere nostalgiche. In entrambi i cortometraggi il numero dei danzatori si arricchisce di nuovi elementi, e oltre alle già citate Sara Deni- zot e Laurence Rondon sono presenti Jérôme Bel e la stessa Pascal Baes. Topic

I è musicato da un brano del cantautore francese Philippe-Jean Touscoz, Les souvenirs lontains, ed è ambientato in un cimitero di Praga.

Pascal Baes affina tecnicamente le scelte operate finora, combinando stop- motion, time-lapse e tempi di posa lunghi, in modo tale da creare delle scie fra uno step e l’altro che costituiscono non solo degli elementi visivi suggestivi ma la visualizzazione dell’interpolazione fra varie fasi di uno stesso movimen- to: questo significa che, differentemente dal suo primo cortometraggio, la ci- neasta può costruire la coreografia stessa attraverso la macchina-cinema, e non più riprenderla e basta. Questa tecnica l’abbiamo già incontrata in thanatopsis e in alcune parti di Film With three Dancers di Ed Emshwiller. Quindi ora la regista francese ha uno strumento in più: non si limita a spostare in modo innaturale i soggetti danzanti attraverso lo stop-motion, ma reinterpreta i movimenti e i gesti trasformandoli in immagini evanescenti, umbratili, fan- tasmatiche, mostrando allo spettatore possibilità visive – derivate dal movi- mento di un corpo – che solo l’occhio della macchina da presa può vedere. In definitiva quelle che Baes crea sono coreografie virtuali realizzate in due

156 In questo link i due cortometraggi sono riuniti in un’unica opera: https://vimeo.

modi: animando fotogramma per fotogramma soggetti in pose statiche, e destrutturando movimenti dal vero in immagini sfilacciate e fluttuanti dove, fra l’inizio e la fine del gesto compiuto dal performer, si intravedono le sue fasi intermedie. Se nel primo cortometraggio la regista francese frammenta una coreografia già pianificata, nella serie Topic insiste nel lavorare su gesti sem- plici, realizzabili anche da non danzatori, che possono diventare coreografie iperboliche grazie alle tecniche usate.

Topic I inizia con l’immagine di un danzatore che esegue una perfor-

mance davanti alla tomba di una famiglia dal cognome Frankenstein. Il suo corpo si sfilaccia, si allunga, dimostra un estremo dinamismo negli arti che si muovono (torso, viso, braccia) e una glaciale fissità nelle gambe ancorate al terreno, diventando una creatura a metà fra una dimensione ultraterrena e naturale. Subito dopo in un altro spazio del cimitero una danzatrice sdraiata a terra si sposta in maniera innaturale lungo il pavimento, compiendo una semplice coreografia. Attraverso una serie di quadri dove la camera è qua- si sempre fissa, sciorinano davanti allo spettatore situazioni differenti: una danzatrice si muove vicino alle radici di un enorme albero, un gruppo danza sempre davanti alla tomba Frankenstein, una performer in uno spazio chiuso moltiplica le sue braccia in modo da sembra la dea Kali, un’altra si muove nello spazio racchiuso da due alberi in riva ad un fiume. Scuro e ancora una volta nostalgico, il cortometraggio vuole visualizzare varie anime perse den- tro al cimitero, approfittando del fatto che i performer sono vestiti con abiti comuni, che vagano da un punto all’altro, come fossero memorie di corpi, anche ancestrali, che hanno abitato i vari spazi visualizzati.

La scelta di esibirsi davanti alla tomba della famiglia Frankenstein produ- ce una serie di riferimenti e di suggestioni: la letteratura gotica prima di tutto e le sue atmosfere, ma anche la presenza di creature a metà fra la vita e la mor- te, “resuscitate” dalla loro dimensione inerte; l’intervento della tecnologia (in questo caso l’animazione) che riesce a dare una nuova vita artificiale al corpo dei danzatori; infine la meccanizzazione del corpo stesso.

Topic II può essere considerato il lavoro più suggestivo della serie. Ambientato

sempre a Praga, nella prima parte, Holidays, viene rappresentato un gruppo di lucciole in stop motion che vola in riva a un fiume. Subito dopo, la camera lette- ralmente insegue danzatrici per la strade di un’affascinante Praga notturna le quali scivolano via veloci attraverso la tecnica della stop-motion. La musica di accompa- gnamento è un brano di Jean-Pierre Touscoz che conferisce un’atmosfera ritmica e

solenne alle immagini. I performer nella loro fuga danzata incontrano altre figure, e in tutta questa prima parte la stop-motion e il time-lapse contribuiscono a creare coreografie impossibili dove i corpi sono sempre relazionati a strutture architetto- niche come cortili, strade, scale sulle quali la camera si inerpica e striscia anch’essa per seguire gli spostamenti dei performer. Nell’ultima sequenza un danzatore è letteralmente trascinato dalla valigia che sta portando verso la porta di casa. La sensazione anche in questo caso è che i danzatori non sono creature di questo mon- do, ma fantasmi che iterano gesti quotidiani senza avere la possibilità di portarli a compimento, come il personaggio con la valigia che si dissolve di fronte alla porta di casa che non si apre, come se stesse mimando un gesto quotidiano che però nella realtà non ha nessun effetto.

Se la stop-motion applicata a soggetti umani spesso produce l’effetto di trasfor- mare i corpi in elementi robotici e meccanizzati, qui il risultato è simile ma si arric- chisce di un elemento in più, perché diventano anche ectoplasmi, entità luminose e semitrasparenti che vagano senza meta nell’architettura cittadina, somigliando molto a quel gruppo di lucciole visualizzato all’inizio del cortometraggio.

La seconda parte (Come Back to Factory), accompagnata da un brano mu- sicale dello stesso autore citato prima ma dall’atmosfera più malinconica e dolente, visualizza i medesimi personaggi persi di fronte a luoghi industriali. Ambientato anche in questo caso di notte, i performer ancora una volta giro- vagano in questi spazi senza mai entrarvi. Qui spesso compaiono dei primi piani nei quali la tecnica del time-lapse distrugge la visibilità dei volti trasfor- mandoli in masse luminose dinamiche, quasi in immagini astratte. L’este- tica vintage di Pascal Baes, data dal bianco e nero, dall’imperfezione quasi amatoriale di alcuni passaggi, dalle scelte musicali e dai luoghi scelti, trova il suo compimento nella serie Topic, due cortometraggi di danza che sembrano reperti di pellicole abbandonate e ritrovate per caso. I temi della memoria e della caducità sono i cardini attorno ai quali Pascal Baes muove i suoi danza- tori che diventano, attraverso tecniche che derivano dalle origini della storia del cinema, memorie di corpi che lasciano al loro passaggio fugaci tracce di coreografie destinate a scomparire nel buio.

Antonin De Bemels

Antonin De Bemels157 è un artista visuale che nella sua carriera approfondisce

il tema della rappresentazione del corpo attraverso i media. Per diversi anni costruisce collaborazioni creative con danzatori e coreografi per la realizza- zione delle sue opere. A differenza di altri autori che saranno smistati fra que- sto capitolo e quello dedicato al video e alle nuove tecnologie, in questo caso le sue opere realizzate in pellicola e in video saranno raggruppate in questo paragrafo perché non vi sono degli slittamenti di linguaggio significativi nel passaggio da un medium all’altro.

Il primo coreografo con il quale l’artista belga collabora è il danzatore ameri- cano Bud Blumenthal158; insieme realizzano tre cortometraggi girati in bianco e

nero: Scrub Solo 1-Sololiness (1999), Scrub Solo 2-Disolocation (2000) e Scrub Solo

3-Soliloquy (2001)159. Lo “scrubbing” qui è inteso come una tecnica di montag-

gio simile all’“audio scratching” tipico dei dj, e si riferisce alla possibilità di in- tervenire sull’immagine facendola scorrere in avanti e indietro a diverse velocità, fino a fermarla completamente. In italiano si potrebbe definire “effetto moviola”. Questa tecnica è ottenibile sia in pellicola sia in video ma ha trovato la sua piena completezza di utilizzo nel momento in cui la fase di montaggio è gestita da un software, per cui si parla di editing non lineare o più semplicemente digitale.

Nella serie Scrub Antonin De Bemels approfitta del fatto che le riprese sono fatte sia in stop-motion sia in time-lapse, quindi in qualche modo sono già mo- dificate dal punto di vista temporale. In Scrub Solo 1-Sololiness il torso nudo di Bud Blumenthal compie dei semplici gesti appoggiato alla cornice di uno spec- chio: la luce è bassa e taglia le linee del corpo creando un’atmosfera suggestiva. I suoi movimenti sono letteralmente disintegrati in sede di montaggio: improv- vise accelerazioni e decelerazioni in avanti e all’indietro spezzano la continuità della coreografia, che spesso viene fermata totalmente per creare immagini fisse che possono durare anche molti secondi. Una serie di eventi sonori digitali “di scarto” – rumori, frequenze distorte e tracce di suoni – sottolinea sincro- nicamente gli eventi che modificano il movimento originale del corpo. Stessa cosa accade in Scrub Solo 2-Disolocation, con la sola differenza che il corpo in controluce del danzatore è ripreso quasi per intero in uno spazio buio, e in

Scrub Solo 3-Soliloquy, l’opera più lunga (diciassette minuti) delle serie, dove si

ritorna a una mezza figura. La camera è fissa, e in alcuni casi, come nel terzo, la

158 http://www.bud-hybrid.org/Public/index.php.

159 Tutte le opere citate in questo paragrafo sono visionabili nel Dvd Antonin De Bemels,

vIDEOCHOREOGRApHIES & documents inédits 1999-2006, Collection Electronic Libres.

sensazione è quella di assistere a un pianosequenza, a una performance ripresa in continuità se non fosse che la macchina-cinema (già digitale) interviene per modificare radicalmente l’andamento naturale della performance.

Al contrario dell’estetica di Pascal Baes, qui Antonin De Bemels lavora su un’atmosfera fredda, quasi chirurgica. Il bianco e nero accentua la sensazione di assistere a una sorta di documentario scientifico che analizza ed esamina minuziosamente il movimento di un corpo umano offerto come cavia per un esperimento di percezione. Lo sfondo sonoro rumoristico e freddamente digitale contrasta con la pastosità e la cura fotografica delle immagini creando un senso di disagio e di impotenza: è impossibile trarre piacere dalla visione di questo corpo danzante divorato dall’occhio della macchina che distrugge il senso della coreografia rendendola puro movimento casuale, senza senso, come un disco impazzito nelle mani di un dj che ha perso il controllo delle sue mani. Eppure, in questo magma di gesti che non arriva mai a concludere una sequenza coreografica che abbia un senso, lo spettatore ha il tempo di vedere dettagli del movimento che altrimenti non potrebbe osservare: par- tecipa anch’egli all’esperimento del “vedere di più”, e sempre più a fondo, l’oggetto-danza che per sua natura si muove nel tempo, e analizzandolo in questo modo non può fare altro che distruggerlo, e quindi trasformarlo in qualcosa di differente dalla sua natura originale. L’artista belga qui coniuga abilmente diversi media: la pellicola in bianco e nero che “classicamente” riprende la coreografia e lo strumento di montaggio digitale che distrugge l’originale trasformandolo in un ibrido a metà fra passato e presente.

Antonin De Bemels prosegue con la sua estetica rigorosa nello scandaglia- re le possibilità di visione della danza adottando il colore. Nel 2003 realizza, con la coreografia di Ugo Dehaes, il s’agit160, un breve cortometraggio di quat-

tro minuti. Sempre ripreso in stop motion, questa volta l’artista belga combi- na in fase di montaggio due sessioni di ripresa differenti: Ugo Deahes a torso nudo che su uno sfondo nero muove velocemente le braccia e il medesimo danzatore dietro a un manichino ortopedico snodato e senza testa, in modo tale che coincida con le proporzioni del corpo del performer il quale manovra le braccia del manichino stesso. La traccia musicale è un tappeto fluido di suoni elettronici che contrasta con l’iper-velocità imposta ai movimenti in

160 https://vimeo.com/36834794. Fra quelle analizzate, questa è l’unica opera di Antonin

sede di montaggio. Il risultato finale consiste nel vedere una creatura naturale e robotizzata che attraverso rapidissimi gesti svela a tratti la sua doppia na- tura: in alcuni momenti l’effetto è quello di vedere delle braccia moltiplicate che trasformano il corpo umano-manichino in un polpo dai molti tentacoli. L’associazione del corpo alla figura della marionetta (manovrata dal corpo stesso) è palese e lavora su più livelli: da un lato la robotizzazione del movi- mento umano, dall’altro l’intervento dell’occhio macchinico del cinema e del montaggio digitale che trasformano la natura del corpo stesso. Il titolo è un suggestivo gioco di parole perché letteralmente “Il s’agit” significa “si tratta di...”, ma “agit” da solo è “agisce”, “si muove”, e infine “si comporta”. Insom- ma: il corpo umano si comporta come una macchina, tanto da condividere a tratti la natura del suo corrispettivo oggettuale: il manichino. Al contempo quest’opera ricorda l’uso di un certo tipo di effetti speciali vintage, tipico del cinema delle meraviglie di Méliès, come se questa creatura fosse un fenomeno da baraccone offerto agli occhi dello spettatore.

Nel 2004 De Bemels realizza A quart de tour con la coreografia di Bru- no Marin. Accompagnato da una musica techno ritmica e ossessiva, l’artista belga ricombina sei differenti riprese del medesimo movimento del danzatore (vestito di scuro su sfondo nero), ognuna impostata in modo tale da avere una distanza diversa dal soggetto, dalla più lontana alla più vicina. L’opera è in formato verticale, che qui serve per inquadrare una figura umana nella sua totalità senza avere troppi spazi vuoti ai lati. Il montaggio assembla in maniera iper-cinetica tutte queste riprese facendo avvicinare l’osservatore sempre di più al viso del danzatore. Anche se in questo caso le riprese non sono state effettuate in stop-motion, l’editing produce un effetto simile a questa tecnica, e ricorda da vicino i montaggi “estremi” delle opere del regista sperimentale americano Scott Bartlett161. Nonostante in questi anni la maggior parte della screendance

più interessante e innovativa sia prodotta in Europa, spesso gli autori fanno riferimento alla stagione sperimentale americana degli anni Sessanta e Settanta. La dinamica di montaggio imposta alle riprese determina una sorta di effetto stroboscopico, uno sfarfallamento continuo in cui si percepiscono brandelli ve- locissimi di immagini, quasi subliminali, che aggrediscono gli occhi dello spet- tatore. I frammenti delle varie riprese vengono assemblati in modo così rapido che l’avvicinamento al soggetto sembra quasi fluido, ma dominato da una sorta

di nucleo frenetico interno alle immagini che terremota l’apparente leggibilità delle forme. In De Bemels, come anche in Pascal Baes, ritorna un’attitudine alla sperimentazione dei linguaggi che possono anche destrutturare la figura del danzatore e la presenza della coreografia.

L’ultima esperienza di De Bemels in collaborazione con il mondo della danza è il corto Light Body Corpuscles del 2005 coreografato da Ugo Dehaes e Melanie Munt. Quest’opera combina alcune idee dei cortometraggi prece- denti creando un’ennesima variazione sullo stesso tema. Due corpi immersi nel nero, uno maschile e uno femminile, a torso nudo vengono ripresi sepa- ratamente mentre la camera da una mezza figura compie una zoomata fino ad arrivare a un primissimo piano. I due danzatori eseguono una serie di movimenti catturati in stop-motion e le riprese vengono montate alternativa- mente in modo velocissimo per ottenere l’effetto stroboscopico già descritto prima. La variante è costituita da corpuscoli di luce che vengono proiettati direttamente sul corpo dei danzatori e che costituiscono un potenziamento luminoso in grado di creare una sorta di texture in movimento. I performer sono illuminati in maniera fioca, per cui queste particelle luminose viaggiano sulla superficie dei corpi ridefinendoli. Durante il video l’illuminazione sui corpi dei danzatori aumenta, per poi spegnersi alla fine in modo tale che siano visibili solo i corpuscoli. La musica è costituita da una serie di suoni elettro- nici liquidi che accompagna tutta l’opera. Il processo di meccanizzazione e di spersonalizzazione dei corpi si arricchisce di un elemento in più che simula una sorta di vita organica luminosa e artificiale: questi corpuscoli di luce so- migliano a cellule che attraversano la loro pelle, e diventano a tutti gli effetti