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Il processo di osmosi fra cinema e danza produce non solo collaborazioni ec- cellenti, ma un fenomeno per certi versi inevitabile: il superamento dell’“oc- chio esterno”, della mediazione dello sguardo di un altro artista, a favore dell’identificazione totale fra i due ambiti. Alcune delle cineaste di cui abbia- mo parlato hanno avuto a che fare con la danza, come Maya Deren, o sono state delle danzatrici, come Shirley Clarke e Amy Greenfield, o sono danzatri- ci che diventano coautrici di opere di screendance, come Sally Silvers, ma fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta nasce un movimento di coreografi i quali decidono di prendere direttamente la cinepresa in mano, per diventare essi stessi registi. Lo fanno per molti motivi, primo fra tutti l’esi-

genza di documentare le loro coreografie con il proprio sguardo, e in seconda istanza per poter trasformare in opere filmiche la propria personale estetica, per raccontarsi e raccontare con un mezzo diverso, ma sempre più affine, il loro mondo di gesti.

In questo processo emerge un’esigenza, quasi un’impellenza, di narra- zione piuttosto forte. Dipende dal tipo di estetica dei singoli coreografi, ma sembra inevitabile che soprattutto quegli autori che intendono la danza come modalità sperimentale ed ellittica, in una parola poetica, di comunicare una traccia narrativa allo spettatore, vogliano traslare questa esigenza anche nel mezzo filmico, ognuno adottando diverse formule che esamineremo nei pa- ragrafi successivi.

Yvonne Rainer

Yvonne Rainer85 è una coreografa americana famosa per aver scritto nel

1965 il famoso No Manifesto86, che ha dato vita a un movimento definito

Minimalismo, che avvicina molto l’ambito della coreografia con quello della Performance Art e della Body Art, fino a farli quasi combaciare. Come Ed Emshwiller per il suo Film with three Dancers, ma con un risultato più ri- goroso, Yvonne Rainer, nel momento in cui si avvicina progressivamente al linguaggio filmico, è contaminata da varie istanze sperimentali, tra cui quella del cinema di Jean-Luc Godard, del manifesto del New American Cinema,

the First Statement of the New American Cinema Group87 del 1962, ma so-

prattutto della diffusione dell’Arte Concettuale e di un’idea di espressione artistica che mette in primo piano il processo, piuttosto che l’opera in sé, che difende l’amatorialità (a scapito della professionalità), ovvero la spontaneità dell’artista nell’usare qualsiasi mezzo, che pone l’io dell’artista come ponte necessario fra il pubblico e l’opera, in un’operazione di svelamento intimo che vuole avvicinare l’arte alla vita di tutti i giorni.

Prima di arrivare a quella che sarà la sua estetica più matura, Rainer si esercita nella realizzazione di alcuni cortometraggi, tutti rigorosamente in bianco e nero,

85 Di Yvonne Rainer non esiste un sito: rimando alla pagina web del documentario re-

alizzato da Jack Walsh Feelings Are Facts: the Live of Yvonne Rainer (2015): http://www. feelingsarefacts.com/#home.

86 http://manifestos.mombartz.com/yvonne-rainer-no-manifesto/.

87 https://www.undergroundfilmjournal.com/the-first-statement-of-the-new-american-

riuniti in una raccolta initolata Five Easy pieces88. Hand Movie89, del 1966, nasce

dall’urgenza di testimoniare la forzata permanenza di Yvone Rainer in ospedale a seguito di un incidente. Senza titoli di testa e di coda e muto, il cortometraggio è un pianosequenza di sei minuti della sua mano che esegue su uno sfondo gri- gio semplici gesti, senza mai uscire di campo. Omaggio non sappiamo quanto volontario a Hände: Das Leben und die Liebe eines zärtlichen Geschlechts (Hands:

the Nights and Loves of the Gentler Sex) di Stella F. Simon e Miklós Bándy, questo

cortometraggio risente anche del ritorno dell’idea di assenza di montaggio di cui è intriso molto cinema di Andy Warhol, e squaderna già alcuni temi tipici della filmografia di Yvonne Rainer: l’autobiografia che diventa immagine, la semplicità della messa in scena, la scarnificazione della struttura coreografica, infine il senso di intimità che guida lo spettatore all’osservazione di un dettaglio del suo corpo in quel momento fragile e impossibilitato a danzare.

Un altro cortometraggio interessante che costituisce un secondo tassello alla costruzione della sua estetica filmica è Trio Film, del 1968, dove compaiono una coppia di danzatori: Becky Arnold, già incontrata in thanatopsis di Emshwiller e Steve Paxton90, futuro inventore della “Contact Improvisation”, e un terzo

elemento rappresentato da una grande sfera bianca. I corpi nudi dei danzatori interagiscono con l’oggetto all’interno di una stanza arredata con colori chiari producendo una serie di quadri surreali, ironici e spiazzanti. Spesso i danzatori sono immobili, come in posa, uno stratagemma che Rainer userà molto spesso nella sua filmografia di danza, e che prelude a un’estetica che metterà intensiva- mente in rapporto l’immagine filmica con quella fotografica.

La danzatrice e coreografa statunitense comincia a sperimentare sempre più assiduamente il linguaggio cinematografico, in linea con tanti artisti di questi anni che si esprimono attraverso differenti media, e in linea soprat- tutto con il desiderio dei coreografi di non avere intermediari per quello che riguarda la “messa in movimento” della loro estetica coreografica, anche se non mancano esempi di collaborazioni “eccellenti”. In questi anni Yvonne Rainer forma una squadra di collaboratori che costantemente lavora con lei, come Babette Mangolte che compare nei credits come operatrice di macchi- na e che avrà una carriera autonoma come cineasta sperimentale, fotografa, artista concettuale e realizzatrice di documentazioni (sia fotografiche che ci-

88 La serie di cortometraggi è noleggiabile qui: http://www.vdb.org/titles/five-easy-pieces. 89 http://ubu.com/film/rainer_hand-movie.html.

nematografiche) di molte realtà coreografiche contemporanee. Yvonne Rainer è pronta a forzare la durata del cinema di danza, che fin qui si è espresso attraverso la modalità del corto o del mediometraggio, nella dimensione del lungometraggio.

LIvES OF pERFORMERS (a melodrama)91 del 1972 è il primo lungome-

traggio della durata di novanta minuti, anche questo girato in bianco e nero, della storia della screendance. In Yvonne Rainer si fa strada l’esigenza della narrazione e dell’adozione di strutture all’apparenza tradizionali, ma formal- mente necessarie per spingere oltre la sua voglia di sperimentare la coniugazio- ne fra danza, cinema e soprattutto vita vissuta, esistenza, come recita il titolo del film accompagnato da un sottotitolo che non a caso cita direttamente una struttura narrativa che più classica non si può (il melodramma). Sempre non a caso la prima immagine del film è un testo battuto a macchina (in negativo, con le scritte bianche su sfondo nero), di Leo Bersani92, studioso americano

di letteratura francese e dei legami fra psicoanalisi e arte, in cui si difende il valore del cliché: «Il cliché in un certo senso è la forma più pura di intelligi- bilità. Ci offre la tentazione di rinchiudere la vita dentro formule splendida- mente inalterabili, di offuscare la natura arbitraria dell’immaginazione con una parvenza di necessità».

Tutte queste premesse non preludono alla realizzazione di un film tradi- zionale, anzi. Gli unici elementi che rispondono alle esigenze del cliché sono il plot narrativo, un triangolo amoroso fra un danzatore e due danzatrici di una compagnia durante le prove di uno spettacolo, e l’uso costante della voce fuori campo. Il film inizia con un pianosequenza che, con uno stile quasi documentaristico, mostra una serie di danzatori eseguire le prove di uno spet- tacolo in una sala che costituisce la location unica dell’intera opera. Le voci sono fuori sincrono, creano un effetto spiazzante e producono una sorta di doppio binario percettivo in cui l’audio e le immagini vanno in un qualche modo ricollegate a livello di senso. Una scritta, sempre in negativo, anticipa la seconda parte del film che è costituita da una serie di fotografie, sempre delle prove dello spettacolo, commentata da varie voci fuori campo. Yvonne Rainer mette subito in campo alcune scelte che derivano da istanze speri- mentali cinematografiche: la meta-testualità innanzitutto, per cui questo film

91 Tutti i lungometraggi (anche non di danza) di Yvonne Rainer sono raccolti nel Dvd the

Yvonne Rainer Collection, Zeitgeist Films.

di danza racconta di danza; il work in progress: in quest’opera si assiste alla nascita di un’opera nella sua fase più delicata, le prove appunto; l’intimismo: i danzatori parlano della loro vita non solo artistica ma anche privata; il ritorno del bianco e nero, sperimentato da tante Nouvelle Vague a cui si ispira il New American Cinema; la difesa dell’amatorialità, il riferimento all’estetica della caméra-stylo di Alexandre Astruc, di un cinema personale, dove la scrittura del sé diventa il perno attorno al quale costruire l’intera opera.

Ma si accavallano anche istanze derivate dall’avvento dell’Arte Concet- tuale, come lo sdoganamento della fotografia da strumento artigianale a mez- zo in grado di produrre arte, e l’importanza della parola scritta che diventa immagine, che in questo caso contemporaneamente fa riferimento ai proce- dimenti narrativi classici del cinema muto: non si tratta certo delle didascalie dei dialoghi dei film muti, ma sono testi che scandiscono l’andamento del l’opera dividendolo in capitoli e suggerendo allo spettatore vari spunti di ri- flessione. Cliché rovesciati, insomma, “eterni” ritorni di un linguaggio del passato che diventano segni di modernità.

L’esile trama è risolta da semplici coreografie, effettuate con il rigore mi- nimalista tipico di Yvonne Rainer, nelle quali con pochi gesti si rappresenta il triangolo amoroso che si insinua all’interno dello svolgimento delle prove dello spettacolo, andando a mutare i rapporti fra i personaggi coinvolti, a mo- dificare la struttura dello spettacolo stesso, descrivendo una situazione in cui arte e vita si cementano definitivamente, come la maggior parte degli artisti di questi anni, di tutte le discipline, proclamano nelle loro personali estetiche. Ma il fatto singolo può diventare universale: il triangolo è un cliché utile per parlare di artisti che sono essenzialmente esseri umani, che vivono delle vite esigenti, piene di incidenti, di dubbi, alla costante ricerca di riconfigurare i canoni del quotidiano.

Man mano che le prove procedono, lo spettatore vede lo spettacolo nasce- re davanti ai suoi occhi. La sala prove illuminata a giorno comincia a ospitare le luci di scena, il fondo si fa scuro, i danzatori compaiono con costumi rap- presentati da vestiti di uso comune. Il teatro si contamina con il cinema: un personaggio femminile che domina la struttura para-narrativa del film, inter- pretato dalla danzatrice Valda Setterfield, si esibisce in un solo direttamente ispirato a alcune scene del film di Charles Bryant Salomé (1923), interpretato da Alla Nazimova. Lentamente lo spettatore è trascinato in una situazione visiva che si trasforma in una serie di tableau vivant dove i performer sono

immobili in varie pose: il riferimento è il film di Georg Wlhelm Pabst Die

Büchse der pandora (Il vaso di pandora, o Lulu, il vaso di pandora) del 1928

interpretato da Louise Brooks che impersona una donna fatale, divoratrice di uomini. Il cliché della figura femminile che distrugge vite maschili e che diventa quindi vittima sacrificale punita dall’altro sesso, è qui trattato con ironia sferzante e testimonia l’insorgenza, sempre più decisiva nei suoi film futuri, di tematiche femministe.

Al contempo in maniera ancora più decisiva Rainer distrugge il cliché della screendance che vuole il movimento del corpo come elemento princi- pale della sua estetica. Non solo, ma sul finale del film, dove si fa riferimento alla scena in cui Lulu viene uccisa da Jack lo Squartatore, la coreografa forza uno dei tanti “no” del suo manifesto, che promulga l’assenza di qualsivoglia commento musicale, bloccando il flusso di parole e di dialoghi, a volte fuori sincrono a volte a sincrono, per inserire in maniera del tutto inaspettata una canzone dei Rolling Stones dal titolo più che significativo, No expectations. In questa parte del film i danzatori non solo non si muovono, ma “copia- no” posizioni derivate da inquadrature già fatte, in una sorta di “found foo- tage” coreografico che ha come unico risultato l’assenza di movimento. Ma allo stesse tempo è come se alle “vite dei performer” non rimanesse altro da fare che immergersi nel cliché di posizioni già decise, di movimenti già visti, di inquadrature che diventano – ironicamente – gabbie con le quali giocare, ma in fondo rassicuranti. No expectations, appunto.

Il secondo film che Rainer realizza è A Film about a Woman Who…, del 1974, e della durata di centoquindici miuti. La struttura di quest’opera è si- mile alla precedente, con degli scarti significativi. Sempre girato in bianco e nero, il film è costituito da un assemblaggio di fotografie di famiglia, testi a volte a tutto schermo, a volte sovraimpressi alle fotografie, sketch coreografati con il consueto stile minimalista inseriti in uno spazio teatrale, infine scene che animano alcune situazioni viste nelle fotografie. Anche dal punto di vista sonoro Rainer replica la struttura del primo film: voci fuori campo, dialoghi questa volta tutti a sincrono, e frammenti di musica.

Lo stile di ripresa diventa decisamente più misurato: tutte le inquadratu- re di questo film sono statiche, a parte qualche carrellata realizzata in modo molto fluido; si perde l’idea della caméra-stylo, della macchina a mano e dello stile pseudo-documentaristico, a favore dell’esigenza di rappresentare dei quadri dove compare una maggiore maturità di articolazione di oggetti

e di soggetti. Anche in questo caso il film si regge su una suggestione nar- rativa che diventa una sorta di pretesto: una donna sessualmente insoddi- sfatta e dal passato segnato da violenze familiari cova un misto di rabbia e di depressione che sfocia in un tentativo di suicidio. La voce fuori campo che accompagna tutto il film è di Yvonne Rainer, che compare anche ma- terialmente in alcune scene, e che qui in modo esplicito sperimenta la linea dell’autobiografia.

L’assenza di audio fuori sincrono conduce lo spettatore verso situazioni narrative più semplici da decifrare. Compare una sorta di estetica tassonomi- ca: le scene spesso vengono numerate “a vista” tramite scritte sovraimpresse; l’elenco diventa un elemento portante di molte sequenze che vengono ca- talogate come fossero studiate con freddezza chirurgica. La tensione meta- testuale diventa più chiara: l’inizio del film è rappresentato da vari personaggi seduti in poltrona che guardano uno schermo sul quale scorre il primo testo che dà l’avvio al film stesso. Diversamente dal primo film di Rainer dove la metatestualità catapulta il teatro nel teatro attraverso il mezzo filmico, qui la coreografa americana scaraventa il cinema nel cinema, un cinema fatto rara- mente di performance filmate. L’utilizzo della danza, per quanto minimale, è presente in una lunga sequenza dove un personaggio femminile viene ripetu- tamente spogliato e rivestito da alcuni personaggi sia maschili sia femminili, rimarcando l’intento di denunciare lo sfruttamento del corpo della donna come oggetto, e nel finale del film dove si ripropone la modalità dei “quadri statici”, ma è chiaro che la voglia di fare cinema di Rainer si sta progressiva- mente spostando verso scelte linguistiche per le quali la coreografia non è più necessaria.

Anche il gioco delle citazioni cinematografiche si fa più esplicito e non evocato attraverso la danza: in questo film Rainer utilizza direttamente un fotogramma della celebre sequenza del film di Alfred Hitchcock, psycho (psyco) (1960), dove il personaggio di Marion Crane viene accoltellata nella doccia, ennesimo riferimento a una figura femminile uccisa violentemente da un personaggio maschile. Le tematiche femministe diventano sempre più palesi, e Yvonne Rainer dopo questo film intraprende una fortunata carriera cinematografica realizzando opere sperimentali dove la danza non è più presente.

Twyla tharp

Twyla Tharp93 è una coreografa che incontra il mondo del cinema nel mo-

mento in cui le viene chiesto di realizzare le coreografie del film di Miloš Forman Hair, del 1979. Nel 1983 realizza un’interessante versione filmata del suo spettacolo the Catherine Wheel94. La maggior parte dei coreografi che in

questi anni si mettono dietro la macchina da presa reinterpretano a favore di linguaggio filmico spettacoli preesistenti, accantonando l’idea, tipica del ci- nema di danza più sperimentale degli esordi, di realizzare coreografie specifi- che per la camera, ma al contempo scandagliando formule che si allontanano dalle semplici captazioni o dalle documentazioni potenziate.

Questo film di Twyla Tharp può essere annoverato come una delle prime documentazioni creative di uno spettacolo di danza realizzato dalla coreogra- fa stessa, pur contenendo, come vedremo più avanti, alcune sequenze possibili solo ed esclusivamente grazie all’uso del linguaggio dell’immagine in movi- mento. La colonna sonora originale, composta da David Byrne95 dei Talking

Heads, è strutturata attraverso vari brani piuttosto brevi rendendo, in alcuni momenti, i singoli episodi del film stesso dei video musicali di danza. Gli anni Ottanta rappresentano un periodo in cui un certo tipo di pop si con- tamina volentieri con linguaggi artistici ritenuti elitari dal grande pubblico, come la danza contemporanea.

the Catherine Wheel è uno spettacolo denso di riferimenti simbolici che ine-

vitabilmente si riversano nel film acquistando in alcuni casi forme inaspettate. Il titolo si riferisce al supplizio, tramite una grande ruota dentata, di Santa Caterina d’Alessandria, una martire cristiana la cui veridicità storica risulta piuttosto con- troversa. Nello spettacolo compaiono alcuni oggetti che hanno adottato il nome di “Ruota di Caterina”, come i fuochi d’artificio roteanti, un motivo all’uncinetto e un fiore: ma vi sono anche altre figure che vengono traslate dalla forma della ruota dentata, come un ananas che assume il significato ambivalente di ospitalità ma anche di ostilità, in quanto ricorda la forma delle bombe a mano “pineapple” usate durante la Seconda guerra mondiale. All’interno di questo universo simbolico una famiglia definita da Tharp “archetipica” affronta la lotta contro forze interne di- sgregatrici e contro gli abusi di potere di alcuni componenti del gruppo.

93 https://www.twylatharp.org.

94 Il film è disponibile in Dvd: Twyla tharp, the Catherine Wheel, NVC Arts, Warner

Music Group.

Gran parte del film è una documentazione potenziata dello spettacolo gi- rato in teatro con le scenografie originali, ma Tharp non si limita a riprendere con la cinepresa saldamente ancorata al cavalletto e a montare, e aggiunge degli effetti visivi che sottolineano alcuni passaggi. Nella sequenza in cui compaiono per la prima volta i componenti della famiglia, rappresentati come ombre cinesi in controluce su uno sfondo di un telo bianco, che si passano l’ananas l’uno dalle mani dell’altro, il frutto diventa un oggetto luminoso, come fosse, appunto, una bomba pronta a esplodere da un momento all’altro. Sempre all’inizio del film subentrano interventi in elettronica quando la pro- tagonista dello spettacolo, definita “The Leader”, danza in chroma key su uno sfondo disegnato, per diventare essa stessa una scia di luce. L’avvento della tecnica del chroma key sarà affrontato nel capitolo dedicato alla videodanza.

Ma le parti più interessanti e innovative del film sono costituite da una sorta di “cornice” visiva che Tharp costruisce intorno alle scene filmate del- lo spettacolo, e che ovviamente non appartiene all’opera teatrale originale. L’inizio del film, ambientato in Scozia, è costituito da una sequenza in cui la Leader entra in una cattedrale e incontra Caterina d’Alessandria, visualizzata come una figura in computer grafica che le insegna i primi rudimenti della danza. Il personaggio di Caterina è realizzato da Rebecca Allen96, una pionie-

ra dell’animazione digitale degli anni Ottanta, ed è rappresentato come una serie di semplici linee bianche che abbozza la figura di un corpo umano, una