Nelle precedenti sezioni si è fatto riferimento alle possibili cause della crisi dell’Eurozona e a come i policy maker hanno deciso di affrontarla - ovvero, tramite politiche di austerità, in primo luogo nell’accezione “espansiva” e poi in quella “competitiva”. A riguardo, in questa sezione ci si focalizza sull’impianto teorico che soggiace a questa duplice caratterizzazione dell’austerità. Tuttavia, si è scelto di proseguire l’analisi sorvolando sull’austerità espansiva (concetto messo ormai in discussione anche dagli stessi proponenti) e incentrandosi sull’austerità competitiva in relazione al tema degli squilibri commerciali, punto specifico della presente ricerca. In particolare, sebbene le misure di austerità non abbiano ancora prodotto effetti positivi sui rapporti debito pubblico/PIL (e, come si vedrà in seguito, nemmeno effetti espansivi sull’output), la Troika ha continuato ad imporre politiche di austerità ai GIIPS al fine di realizzare il consolidamento fiscale e di ridurre gli squilibri esterni32. Vista la rilevanza di tali provvedimenti, in questa sezione si ritiene opportuno analizzare nel dettaglio i fondamenti teorici delle politiche di austerità al fine di comprenderne i meccanismi di implementazione e i canali di trasmissione.
3.1 – Austerità espansiva
Le attuali politiche fiscali restrittive sono principalmente fondate sulla letteratura economica di impostazione mainstream che fa riferimento al concetto di “expansionary fiscal contraction”, basato su una precisa ipotesi: le riduzioni della spesa pubblica avrebbero un effetto positivo sulle aspettative dell’agente rappresentativo che, interpretando la minore spesa statale come minori tasse da corrispondere in futuro, espanderà la propria spesa presente e ciò causerà un’espansione dell’intera economia. La visione che lega le restrizioni fiscali alla crescita reale è generalmente conosciuta come “austerità espansiva”33.
Il concetto teorico che soggiace a queste argomentazioni è la rilettura neoclassica34 della cosiddetta “equivalenza ricardiana”, conosciuta come “equivalenza barro-ricardiana”: in sintesi, tale principio asserisce che la spesa in deficit non avrebbe effetti reali, in quanto i consumatori - in una prospettiva di reddito permanente - sono perfettamente forward looking. Di conseguenza,
32 Per un riferimento preliminare, riguardo alla Grecia la European Commission [2010] ha asserito: “(a) significant policy
action is needed… (it) should be conducive to increasing fiscal consolidation while at the same time contributing to the necessary competitiveness adjustment”.
33 L’espressione, coniata da Alesina & Ardagna [2009], fa tuttavia implicitamente riferimento al particolare caso di un
moltiplicatore fiscale negativo, per mezzo del quale un taglio alla spesa pubblica di un certo ammontare implicherebbe una crescita del reddito, dovuto ad una maggiore spesa privata, di importo superiore a tale ammontare.
34 Il riferimento è a Barro [1979] che definisce "Teorema dell'equivalenza ricardiana sul debito pubblico" la proposizione
per cui "spostamenti tra tasse e debito del finanziamento di un certo ammontare di spesa pubblica non avranno effetti di primo ordine su tassi di interesse, volume degli investimenti privati, etc.". Lo stesso autore aggiunge: "L'equivalenza Ricardiana fu presentata da Ricardo. Va tuttavia fatto notare come Ricardo stesso fosse scettico al riguardo".
nel momento in cui effettuano le proprie decisioni di spesa, sono anche in grado di internalizzare i comportamenti dei governi: per questo motivo, il finanziamento alternativo di una determinata spesa statale (che sia emissione di titoli o aumento delle tasse35) non sortirebbe effetti diversi sulle decisioni di consumo dei privati - senza quindi modificare la domanda aggregata. Questo approccio è spesso utilizzato come argomento contro le riduzioni di tasse pensate a stimolare la domanda aggregata, in quanto eventuali deficit spending significherebbero semplicemente posporre il prelievo fiscale. Stando a queste ipotesi, qualora il governo finanziasse la spesa in deficit tramite emissione di titoli, i contribuenti sarebbero comunque consapevoli di dover pagare maggiori tasse nei periodi futuri in quanto i titoli rappresentano dei prestiti da rimborsare (da cui la locuzione "tax now or tax later"), e di conseguenza aumenterebbero il loro livello di risparmi, riducendo così i consumi correnti. Similarmente, si registrerebbe un effetto nullo sulla domanda aggregata nel caso in cui la maggiore spesa pubblica fosse finanziata tramite le tasse.
Tuttavia, lo stesso Ricardo [1820] aveva avanzato delle perplessità circa l’evidenza empirica di questo concetto teorico, in quanto tale equivalenza implica delle assunzioni piuttosto stringenti36. In primo luogo, in un’impostazione keynesiana la politica di bilancio, qualora abbia un certo grado di indipendenza, può avere effetti espansivi sul reddito. Oltre a questo, nella rilettura neoclassica si assume implicitamente un mercato di capitali perfetto: se così non fosse, eventuali vincoli di liquidità invaliderebbero l’assunzione del reddito permanente. Inoltre, l’incertezza sui livelli futuri delle tasse può accrescere la preferenza per la liquidità per motivi precauzionali, riducendo i consumi attuali. Infine, qualora un aumento delle tasse conduca a maggiore disoccupazione corrente, lo scenario si aggraverebbe in quanto peggiorerebbero le aspettative degli agenti e ciò potrebbe stimolare la preferenza per la liquidità.
Tuttavia, la recente letteratura sul tema - che fa riferimento alla concetto di "cultura della stabilità" in riferimento all’intervento statale nell’economia - include un’ulteriore ipotesi di impostazione neoclassica: una minore spesa pubblica ridurrebbe l’effetto spiazzamento37
35 In una prospettiva teorica alternativa - di carattere keynesiano - il finanziamento della spesa pubblica tramite deficit
è invece in grado di sortire effetti reali. Tuttavia, questa opzione risulta comunque di difficile implementazione nell’attuale contesto dell’Eurozona in quanto da un lato esistono dei rigidi limiti alla spesa in deficit, e dall’altro i rendimenti dei titoli pubblici sono legati alla domanda e all’offerta registrate nei mercati finanziari. Di conseguenza, politiche fiscali espansive risultano poco realizzabili, mentre le misure di austerità sono considerate l’unico strumento disponibile per ridurre i rapporti debito pubblico/PIL tramite riduzioni dello stock di debito.
36 In particolare, nelle argomentazioni di Ricardo - a differenza dell’impostazione che si riscontra nella sua rilettura
neoclassica - non si fa riferimento al concetto di pieno impiego, in quanto la piena occupazione scaturirebbe nel lungo periodo dall’adattamento della disponibilità di lavoro (considerata una variabile endogena) allo stato dell’accumulazione di capitale, dato il saggio di salario in termini reali.
37 Al contrario, da una prospettiva teorica alternativa (che fa riferimento ad un’impostazione keynesiana), poiché le
decisioni di investimento sono prese dagli imprenditori sulla base della domanda attesa (e solo secondariamente sulla base del tasso di interesse), è inappropriato stabilire un legame tra il mercato investimenti/risparmi e il tasso di interesse. Inoltre, le decisioni di risparmio sono prese dalle famiglie sulla base del reddito disponibile, quindi non c’è
(crowding-out), creando “room for the private sector to expand” [Giavazzi & Pagano, 1990]. Per altri sostenitori di questa visione, il consolidamento fiscale sarebbe anche capace di ripristinare la fiducia delle imprese abbassando i tassi di interesse (diminuendo i premi per il rischio), creando quindi incentivi per nuovi investimenti (crowding-in) e quindi per la crescita38. Per questi motivi il consolidamento fiscale è considerato compatibile con la crescita reale anche se implementato per mezzo della riduzione della spesa pubblica [Alesina, 2010; Alesina & Perotti, 1995].
Nonostante queste argomentazioni, è possibile asserire che la letteratura empirica non abbia ancora fornito delle chiare evidenze a supporto dell’expansionary austerity: anche il IMF [2010], rivedendo a rialzo le stime dei moltiplicatori fiscali, ha recentemente asserito che le misure di austerità possono avere degli effetti repressivi nel breve periodo - sebbene siano ancora considerate espansive nel lungo periodo. È infatti opportuno notare un ulteriore elemento: benché un crescente prelievo fiscale - o una minore spesa statale - possa condurre ad un avanzo pubblico (e pertanto possa ridurre lo stock di debito pubblico), qualora l’austerità causasse una caduta del PIL i governi riscuoterebbero comunque un minor gettito fiscale39.
3.2 – Austerità competitiva
Come appena indicato, secondo le argomentazioni mainstream i tagli alla spesa pubblica avrebbero effetti positivi sulla spesa privata: ciò accadrebbe principalmente poiché la spesa statale è considerata capace di “spiazzare” quella privata sia direttamente - togliendo una quota del mercato domestico agli agenti privati - che aumentando il tasso dell’interesse, in quanto gli investimenti sono considerati negativamente collegati a quest’ultimo. In questa visione si assume altresì anche che gli agenti privati siano più produttivi degli operatori pubblici (a causa dell’assenza dell’intento del profitto), per cui un’economia con una bassa “interferenza” pubblica
assicurazione circa un livello del tasso di interesse che bilancerebbe investimenti e risparmi. Un ulteriore elemento che va in questa direzione è riscontrabile facendo riferimento all’attuale contesto economico dell’Eurozona, in cui il tasso dell’interesse è una variabile esogena legata alle decisioni di politica monetaria della BCE. Di conseguenza, la tesi per cui una crescente spesa pubblica possa creare pressioni a rialzo sui tassi di interesse è quantomeno criticabile. Stando a questa argomentazione, è possibile riscontare un’ulteriore debolezza della Treasury view: la spesa pubblica spiazzerebbe un equivalente ammontare di spesa privata solo nel caso di pieno impiego.
38 In una recente pubblicazione della ECB [2008], sebbene si riconosca che la spesa pubblica possa avere un effetto
crowding-in (creando condizioni favorevoli all’investimento privato, ad esempio tramite la fornitura di infrastrutture), viene chiaramente identificato il contesto teorico di riferimento: “the increase of public investment needs to be financed, which may imply more taxes or impose a higher demand for funds from the government in the capital markets, therefore causing interest rates to rise. This would reduce the amount of savings available for private investors and decrease the expected rate of return of private capital, leading to a crowding-out effect on private investment”.
39 Questo punto, che fa riferimento al tema dei moltiplicatori fiscali, sarà affrontato nelle prossime sezioni, nelle quali
è comunemente considerata più efficiente40: pertanto, in un’ottica di competitività di prezzo basata sul CLUP, una riduzione della spesa pubblica è di per sé compatibile con un miglioramento della competitività basata sul miglioramento della produttività. A riguardo, in un contributo empirico della ECB [2009] si asserisce che “government spending shocks (…) have a positive and
persistent impact on productivity (and) lead to a depreciation of the real effective exchange rate”.
Inoltre, poiché gli stipendi del comparto statale hanno una cospicua incidenza sulla spesa pubblica totale, diverse misure di austerità sono implementate per mezzo della riduzione dei compensi pubblici. Di fatto, abbassare (o comunque “congelare”) gli stipendi nel settore pubblico ha un impatto diretto su tutta la struttura dei salari (e presumibilmente dei prezzi) di un Paese. Per giunta, una politica fiscale restrittiva implementata per mezzo della riduzione del numero degli occupati nel settore pubblico avrebbe un effetto diretto sul livello occupazionale, e delle pressioni a ribasso sull’intera struttura salariale41 - e verosimilmente dei prezzi, che potrebbe incentivare le esportazioni. Per giunta, un ammontare crescente di trasferimenti (come pensioni ed indennità) sono, in questa ottica, considerati capaci di produrre un aumento dei prezzi relativi nel settore dei non-tradable, e quindi una perdita, seppur indiretta, di competitività di prezzo
[Alesina & Perotti, 1994].
Un ulteriore elemento che emerge dall’austerità competitiva risiede nel fatto che un “effetto disinflazionistico” sarebbe realizzabile per mezzo di una manovra di “svalutazione fiscale”: si tratta di una particolare riforma fiscale che, pur facendo riferimento a delle operazioni budget-
neutral, avrebbe l’obiettivo di ridurre le imposte sul lavoro - combinando tale taglio a degli
aumenti in altre voci di entrata nel bilancio statale. In particolare, una defiscalizzazione del lavoro (come la riduzione dei contributi sociali) potrebbe essere “finanziata” per mezzo di un aumento delle imposte sul valore aggiunto [Calmfors, 1998]: tale meccanismo stimolerebbe l’economia reale in quanto, ferma restando la “componente salario” del reddito dei lavoratori, il costo complessivo del lavoro si ridurrebbe, e ciò potrebbe incentivare le esportazioni. Inoltre, l’aumento dell’imposta sul valore aggiunto diminuirebbe consumi ed importazioni, mentre non avrebbe effetti negativi sulle esportazioni: così facendo si registrerebbe un miglioramento dei saldi commerciali esteri. A riguardo, è tuttavia possibile asserire che si potrebbe registrare un effetto redistributivo in quanto le imposte sui consumi tendono ad essere regressive.
40 Anche queste argomentazioni sembrano connesse all’esistenza di moltiplicatori fiscali inferiori ad uno o negativi. 41 Tuttavia, questo tipo di politiche potrebbe ridurre la fiducia dei consumatori e delle imprese in quanto compatibili,
almeno nel breve periodo, con una maggiore disoccupazione. Per questo motivo, timori circa la perdita del posto di lavoro potrebbe incoraggiare i consumatori a risparmiare piuttosto che a spendere. In questa prospettiva, è possibile argomentare che questo elemento faccia emergere degli elementi dell’austerità competitiva non perfettamente coerenti con le argomentazioni dell’austerità espansiva.
Stando alle presenti argomentazioni, le misure di austerità fiscale sono supposte tali - nonostante la letteratura empirica sul tema non sia ancora consolidata42 - da creare una pressione a ribasso sui costi di produzione, migliorando la competitività di prezzo: tutti questi meccanismi opererebbero comunque solo se combinati con un insieme di politiche di libero mercato (basate sulle privatizzazioni e sulla deregolamentazione, specialmente nel mercato del lavoro) considerate cruciali per promuovere l’efficienza e l’apertura al canale estero. In sintesi, secondo la visione dell’austerità competitiva l’incremento del reddito sarebbe significativamente legato alle performance commerciali, per cui i policy maker considerano la competitività esterna come una delle principali determinanti della crescita economica anche all’interno di un’area altamente integrata come quella dell’EMU - nella quale il saldo dell’intero commercio intra-europeo è sostanzialmente in pareggio43.
Oltre a queste spiegazioni, nell’impostazione mainstream le politiche fiscali restrittive sarebbero comunque considerate capaci di influenzare i saldi esterni in quanto capaci di impattare direttamente sulla struttura dei prezzi di un sistema-Paese: assumendo un modello AD-AS (si veda Figura_1), una contrazione fiscale - ad esempio, una riduzione della spesa pubblica a parità di gettito fiscale - ridurrebbe la domanda aggregata, spostando in basso a sinistra la curva AD (fino ad AD’). Il nuovo equilibrio implicherebbe un più basso livello dei prezzi (P’ > Pn) e, nel breve periodo, una diminuzione del reddito di equilibrio (Y1 è più basso del livello potenziale Yn) e dell’occupazione.
A riguardo, sarebbe possibile notare una contraddizione tra la visione dell’austerità competitiva e quella dell’austerità espansiva, in quanto quest’ultima è descritta come compatibile con una crescita del reddito complessivo. Tuttavia, nell’impostazione mainstream si considera la contrazione di Y come “confinata” al breve periodo, in quanto nel medio periodo crescerebbe l’offerta aggregata. Il ragionamento proposto in questa impostazione circa lo spostamento in basso a destra della curva AS (fino ad AS’’) è il seguente: il nuovo livello di produzione Y1<Yn non è compatibile con il pieno impiego, per cui nel mercato del lavoro si registrerà un eccesso di offerta; questo eccesso di offerta porterà alla diminuzione del salario di equilibrio, tale da garantire il pieno impiego dei lavoratori; di conseguenza, alle imprese risulterà più conveniente assumere e
42 In particolare, la letteratura sugli effetti espansivi della’austerità sembra far riferimento a delle evidenze empiriche
piuttosto specifiche. Il contributo più meritevole di nota è quello di Perotti [2011], il quale, analizzando quattro esperienze di Paesi che hanno realizzato un consolidamento fiscale (Danimarca, Irlanda, Finlandia, Svezia), ha asserito: “All four episodes were associated with an expansion; but only in Denmark the driver of growth was internal demand… In all cases interest rate fell fast, and wage moderation played a key role in generating a gain in competitiveness and a decline in interest rates… Wage moderation was facilitated by the direct intervention of the government in the wage negotiation process”.
43 Per una istantanea sul commercio europeo, è utile notare che recentemente a livello intra-EU27 l’ammontare delle
importazioni è pressoché allineato a quello delle esportazioni. Export €: 2009, 2.198.406; 2010, 2.541.357; 2011, 2.806.258; 2012, 2.828.853 - Import €: 2009, 2.133.441; 2010, 2.470.714; 2011, 2.740.048; 2012, 2.757.475 (Fonte: Eurostat).
pertanto potranno aumentare il livello della produzione. L’aumento dell’offerta aggregata garantirebbe quindi un nuovo livello di equilibrio che sarà raggiunto in corrispondenza del reddito potenziale (Yn) ma con un livello dei prezzi più basso (Pn’’).
In sintesi, le politiche fiscali restrittive sono considerate capaci di abbassare il livello dei prezzi - senza tuttavia ridurre il prodotto complessivo - e di stimolare le esportazioni in quanto queste beneficerebbero, specialmente in un regime di cambi fissi, di un livello dei prezzi più basso. Questo meccanismo è considerato “simmetrico”, in quanto le politiche fiscali espansive causerebbero una crescita dei prezzi - senza stimolare il prodotto totale, che si attesterebbe comunque a suo livello potenziale - che tuttavia penalizzerebbe le esportazioni.