Quota aggiustata dei salari su PIL
7. Considerazioni final
Il principale obiettivo del presente saggio è stato quello di valutare criticamente il legame tra austerità e competitività ipotizzato a sostegno delle politiche economiche implementate nel contesto della zona dell’Euro in risposta agli squilibri di partite correnti. A tal fine, è stata proposta una ricostruzione critica del dibattito sulle cause della crisi dell’Eurozona - intesa come crisi dei debiti sovrani - e delle politiche adottate, focalizzata in particolare sulla rilevanza degli squilibri di current account e sul ruolo delle politiche di austerità in quanto intese come strumento per ripristinare la competitività dei Paesi in deficit. Il tema è stato affrontato sia dal punto di vista della teoria economica sia attraverso alcune evidenze empiriche.
Alla luce delle considerazioni effettuate nel presente saggio, la (presunta) indisciplina fiscale dei Paesi in deficit non sembra essere stata la causa principale della cosiddetta “crisi degli spread”. Analizzando i dati in una prospettava più ampia - ovvero, senza soffermarsi unicamente sui rapporti debito pubblico/PIL - è possibile verificare che l’introduzione della moneta unica ha incrementato gli squilibri di partite correnti intra-Eurozona, delineando la formazione di due aree territorialmente distinguibili all’interno dell’EMU: il centro e la periferia. A riguardo, l’unione monetaria ha portato ad una maggiore apertura dei mercati, a cui però l’architettura istituzionale dell’Eurozona ha affiancato un minor margine di manovra in termini di strumenti di politica macroeconomica (come l’autonomia della politica fiscale e della politica monetaria). Quando nel 2010 è scoppiata la crisi dei debiti sovrani, i policy maker dell’Eurozona hanno deciso di affrontare l’aumento dei differenziali sui rendimenti dei titoli pubblici imponendo politiche di austerità fiscale ai Paesi periferici. A riguardo, in questo saggio si sostiene che gli spread si siano ridotti al seguito dell’intervento, seppur non immediato, della Banca Centrale Europea a sostegno della domanda di titoli pubblici dei Paesi periferici sul mercato secondario. Tale intervento, effettuato sia direttamente (per mezzo del Securities Markets Programme) che attraverso meccanismi di carattere istituzionale (quali l’ESM) è stato tuttavia condizionale all’implementazione di misure di austerità per i Paesi in questione, che si sono tradotti nell’accettazione di trattati comunitari volti alla riduzione della spesa pubblica e all’adozione di specifiche riforme strutturali.
Sebbene le politiche fiscali restrittive, inizialmente considerate di carattere espansivo, non abbiano prodotto i risultati attesi né in termini di consolidamento fiscale, né di crescita reale, in questo saggio si è sostenuto che le misure di austerità siano proseguite nei Paesi periferici in quanto considerate, in una prospettiva in cui la crisi dell’Eurozona risulta collegata agli squilibri di partite correnti, uno strumento atto a ridurre i disavanzi esterni dei GIIPS. Tale interpretazione della crisi dell’Eurozona ha crucialmente fatto emergere il controverso tema della
“competitività”: in questo quadro, nel presente saggio si sono avanzate alcune considerazioni atte a suggerire la visione per cui i policy maker della zona dell’Euro abbiano imposto le politiche di austerità non più considerandola nella sua eccezione espansiva, bensì in quella competitiva.
Il paradigma dell’austerità competitiva - ovvero, l’idea che le politiche restrittive nei Paesi in deficit possano ridurre gli squilibri di current account - appare tuttavia piuttosto discutibile, specialmente se applicato in un’area integrata come l’Eurozona in cui il saldo complessivo delle partite correnti è pressoché in pareggio, e nel quale le divergenze tra Stati membri sono incrementate al seguito dell’introduzione della moneta unica. A riguardo, né la letteratura economica né l’evidenza empirica sono state in grado di identificare una singola causa per gli squilibri esterni; tuttavia, sono state principalmente identificate due distinte categorie di fattori. Il primo gruppo fa riferimento ai cosiddetti “fattori di offerta” (supply-side): in sintesi, i Paesi core avrebbero beneficiato di una crescita del CLUP minore di quella dei Paesi della periferia - per effetto di una più moderata dinamica salariale, piuttosto che di una sostenuta crescita della produttività - e di bassi tassi di inflazione. Conseguentemente, per effetto della moneta unica avrebbero sperimentato un deprezzamento reale, che avrebbe incentivato l’export. Stando a questo approccio al tema degli squilibri, questi sarebbero stati guidati da differenziali di prezzo - ovvero, un apprezzamento reale porterebbe verso un deficit esterno - e pertanto i Paesi in deficit devono ripristinare la loro competitività tramite la svalutazione interna, riducendo i costi di produzione o incrementando la produttività. In questa ottica, almeno in via concettuale l’aggiustamento potrebbe considerarsi simmetrico, in quanto ci sarebbe spazio per una rivalutazione reale dei Paesi in surplus: tuttavia, nell’attuale contesto europeo, anche in virtù dell’inflation target della BCE, le politiche di svalutazione interna dei Paesi in disavanzo suggeriscono che si è optato per una strategia di aggiustamento asimmetrico.
Il secondo gruppo di fattori fa invece riferimento ai cosiddetti “fattori di domanda” (demand-side). Stando a questo approccio, che nel presente saggio viene considerato complementare alle argomentazioni supply-side, si sarebbero sviluppati due distinti modelli di crescita all’interno dell’Eurozona. Da un lato, i Paesi del Nord avrebbero perseguito strategie di politica restrittiva sia dal punto di vista fiscale che salariale, al fine di implementare un modello di crescita trainato dall’export. Dall’altro lato, molti Paesi periferici avrebbero sperimentato - almeno fino al 2007 - una crescente domanda domestica ed una sostenuta crescita reale (che talvolta ha causato inflazione), incentivata in una certa misura dal crescente ricorso al debito privato dovuto ai bassi tassi di interesse. Questi diversi modelli di crescita hanno definito rimarcabili divergenze anche nelle determinanti della crescita: nei Paesi credit-led gli agenti avrebbero finanziato consumi ed investimenti attraverso il debito, fornendo una grande fonte di domanda ai Paesi export-led. La
mutua azione di tali forze di mercato avrebbe infine portato all’attuale situazione di squilibri reali e finanziari nel contesto dell’Eurozona.
Sebbene i policy maker dell’EMU abbiano effettivamente riconosciuto la rilevanza dei fattori di domanda nella genesi degli squilibri di partite correnti, i report ufficiali sembrano insistere sul canale della competitività e suggerire la via dell’aggiustamento asimmetrico: in questo quadro le politiche austerità competitiva - volte al ripristino della competitività dei Paesi in deficit - avrebbero trovato spazio e giustificazione per la loro attuazione.
Oltre a questi due gruppi di fattori, nel saggio è stato considerato opportuno mostrare che alcuni Paesi core - come la Germania - mostrino dei sostanziali “squilibri interni” che riflettono uno specifico modello di crescita basato sulla promozione dell’export e sulla restrizione della domanda interna (specialmente quella per consumi), il quale è in grado di influenzare sia la domanda aggregata, sia il trend e la composizione del prodotto. Sebbene la Germania abbia registrato dei bassi tassi di crescita dal 1999, è stato infatti possibile notare che la dinamica del PIL tedesco sia dipesa principalmente dalle esportazioni nette, che rappresentano più del 50% della crescita reale. Sulla base di evidenze empiriche si è inoltre argomentato che l’anemica domanda domestica tedesca abbia contribuito all’espansione degli squilibri di CA all’interno dell’Eurozona. Infine, l’esistenza di questi specifici e distinti modelli di crescita è risultata nell’attuale situazione di squilibri reali e finanziari intra-Eurozona, in quanto i Paesi in surplus hanno finanziato l’indebitamento dei Paesi in deficit.
In questo saggio si è sostenuto che le restrizioni fiscali e salariali che negli ultimi anni hanno coinvolto i Paesi della periferia europea rappresentino degli strumenti non adatti - in quanto forieri di scenari economici preoccupanti - a risolvere la questione degli squilibri: le politiche che nel presente lavoro vengono identificate di “austerità competitiva” hanno infatti permesso di ridurre i deficit esterni dei Paesi periferici (sebbene, nella gran parte dei casi, l’aggiustamento si sia verificato grazie alla contrazione dell’import) ma hanno avuto un impatto fortemente negativo sulla domanda aggregata. Tuttavia, la Troika ha continuato ad insistere sul fatto che l’austerità possa rappresentare un incentivo alla ripresa di lungo periodo in quanto viene considerato uno strumento capace di ripristinare la competitività dei Paesi in deficit contribuendo, attraverso il canale estero, alla crescita reale.
Sulla base di questa visione tipicamente mainstream, le politiche fiscali restrittive sono iniziate nel 2009 (come condizione all’intervento della BCE a sostegno della domanda di titoli pubblici sul mercato secondario) al fine di affrontare la rapida crescita degli spread. Oltre alla “sostenibilità del debito pubblico”, stando ai policy maker dell’Eurozona l’austerità sarebbe in grado di ripristinare la competitività della periferia europea - e di ridurre gli squilibri di partite correnti - per mezzo dei cosiddetti canali supply-side, ovvero stimolando l’export per mezzo della riduzione
dei salari e dei prezzi. Di fatto, stando alle evidenze empiriche i canali demand-side hanno avuto un ruolo preponderante nel determinare il riallineamento dei saldi di partite correnti in quanto, contenendo la domanda aggregata, tali politiche hanno contribuito a ridurre l’output complessivo dei Paesi periferici e quindi a contenere la componente endogena delle importazioni. Tuttavia, oltre all’austerità fiscale le economie del Sud sono state chiamate ad attuare delle structural
reforms che, in quanto capaci di incentivare un processo di svalutazione interna, sarebbero
anch’esse mirate a migliorare la competitività esterna.
In questo saggio si è inoltre asserito che i canali di trasmissione identificati - sia di offerta che di domanda - siano coerenti con la duplice spiegazione delle cause degli squilibri: dal supply-side queste misure sono pensate a ripristinare la competitività di prezzo (quindi a stimolare l’export), mentre dal demand-side l’austerità è in grado di contenere la crescita reale (quindi di ridurre l’import). In sintesi, le politiche finora approvate in questa direzione, ovvero seguendo il paradigma dell’austerità competitiva, sono basate sull’orientamento della produzione all’export, sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, sul contenimento dell’inflazione, sulla riduzione dei salari e della spesa sociale, sui tagli alla spesa pubblica, sulle privatizzazioni, su interventi al sistema di welfare, sulla riduzione degli impiegati pubblici e sull’accorpamento degli enti locali.
Alla luce delle considerazioni fornite, è stato possibile valutare criticamente le basi teoriche dell’austerità riconsiderandole da una prospettiva keynesiana: infatti, stando a questa impostazione alternativa una diminuzione della spesa pubblica (o maggiori tasse) avrebbe un impatto diretto sulla domanda aggregata, capace di generare una diminuzione - amplificata dal moltiplicatore fiscale - del prodotto nazionale.
Per quanto riguarda il processo di svalutazione interna, da realizzarsi mediante la riduzione dei prezzi che dovrebbe far seguito a quella dei salari (processo di deflazione salariale), nel presente saggio sono stati suggeriti due scenari: in un caso, qualora i prezzi aggiustino perfettamente ai salari, non si verificherebbe una redistribuzione; nell’altro caso, più verosimilmente, si registrerebbe una caduta dei salari reali per effetto di ritardi nel meccanismo di trasmissione. A riguardo, non sembra esserci assicurazione in merito al fatto che ad una caduta dei salari nominali segua un’immediata ed equivalente caduta dei prezzi: qualora le riduzioni dei prezzi fossero minori di quelle dei salari nominali - o si realizzassero con un ritardo temporale - l’effetto competitività risulterebbe confinato ed inoltre si registrerebbe una riduzione dei salari reali. In questo scenario, è altresì plausibile si verifichino ulteriori riduzioni della domanda aggregata (in
primis della spesa per consumo, alla luce delle diverse propensioni a consumare tra le varie
redistribuzione del reddito peggiorerebbe le disuguaglianze - già generate dalla disoccupazione - in quanto nei Paesi periferici vengono anche attuati tagli alla spesa per welfare.
Per giunta, anche qualora si realizzi una diminuzione equivalente ed immediata di salari e prezzi, nell’attuale contesto dell’Eurozona - caratterizzato da tassi di inflazione pressoché nulli - questo processo implicherebbe uno scenario deflattivo, che avrebbe effetti sia sull’onere del debito (causando possibili tensioni al sistema dell’intermediazione bancaria), sia sui consumi in quanto potrebbe indurre gli agenti a risparmiare anziché spendere. Per questi motivi, la domanda aggregata, oltre che per effetto della riduzione della spesa pubblica, si contrarrebbe anche in virtù della decrescente spesa per consumo. In questo scenario è possibile supporre anche una diminuzione degli investimenti privati in quanto possono essere considerati una variabile indotta: a riguardo, nel saggio si è considerato lo spiazzamento come un concetto teoricamente poco fondato e, nell’attuale contesto dell’Eurozona, piuttosto inverosimile.
Stando alle argomentazioni fornite nel presente lavoro, le attuali misure di austerità possono essere considerate come coerenti con un aggiustamento deflattivo asimmetrico, in quanto l’austerità competitiva ha principalmente riguardato i Paesi in deficit chiamati ad intraprendere un processo di svalutazione interna e di contenimento della crescita reale. Tuttavia, l’export non sembra in grado - alla luce dell’attuale livello della domanda globale - di poter rappresentare un volano per la crescita; inoltre, qualora tutti i Paesi optino per un modello di crescita export-led (strategia suggerita dagli stessi policy maker europei), è ragionevole supporre che l’austerità competitiva possa solo peggiorare gli standard di vita dei percettori di salario. Parallelamente, seguendo un paradigma keynesiano si è invece asserito che queste misure siano capaci di contenere la domanda interna, con un drammatico impatto sulla struttura industriale e sull’occupazione: le politiche di austerità competitiva stanno infatti ostacolando la crescita, in quanto un’ampia porzione del commercio dei Paesi dell’Eurozona avviene internamente, e pertanto non pare possibile generalizzare un modello di crescita trainato dall’export. Inoltre, si è argomentato che le attuali politiche fiscali restrittive sono in grado di generare deflazione, poiché i tassi di inflazione dei Paesi core (come la Germania) sono praticamente nulli.
Inoltre, nel saggio si è voluto sostenere che gli aumenti di competitività realizzati per mezzo delle politiche di austerità possono essere, da una prospettiva teorica alternativa, capaci di impattare negativamente sulla produttività, in quanto uno scenario deflativo potrebbe ridurre gli investimenti reali: questo scenario risulterebbe addirittura incoerente con le linee guida di politica economica mirate a stimolare la produttività - tramite investimenti privati - e la competitività. Inoltre, le politiche fiscali restrittive nei Paesi periferici tendono, per definizione, a ridurre gli investimenti pubblici, capaci invece di innovare il sistema produttivo e promuovere produttività e competitività nel lungo periodo.
Sempre facendo riferimento ad una prospettiva teorica alternativa, in questo saggio si è sostenuto che politiche espansive (fiscali e monetarie) sarebbero invece necessarie a stimolare crescita ed occupazione senza particolari effetti collaterali: nell’attuale contesto dell’Eurozona, è infatti possibile considerare le pressioni inflazionistiche come poco verosimili per via dell’elevato livello della disoccupazione e degli ampi margini di capacità produttiva inutilizzata. Al contrario, possibili miglioramenti di competitività dei Paesi in deficit per mezzo di politiche restrittive - oltre a necessitare di un lungo arco temporale - implicherebbero un elevato costo in termini di crescita ed occupazione: a riguardo, l’austerità ha infatti contribuito ad inasprire la recessione nei GIIPS, in quanto il loro PIL è attualmente molto al di sotto dei livelli pre-crisi, mentre il tasso di disoccupazione è drasticamente cresciuto.
Oltre a questi aspetti, nel presente lavoro sono state riportate delle evidenze empiriche al fine di dimostrare che le misure di austerità non hanno prodotto effetti sul fronte del consolidamento fiscale: uno degli obiettivi dichiarati delle politiche fiscali restrittive era quello di ripristinare la fiducia degli investitori, attenuando gli spread e riducendo i timori legati alla possibile insostenibilità del debito pubblico dei Paesi periferici. Tuttavia, i dati mostrano che dal 2009 i rapporti debito pubblico/PIL sono nettamente cresciuti, per cui è possibile asserire che l’austerità non ha raggiunto uno degli obiettivi prefissati. Ciononostante, gli spread sono attualmente più bassi che nel periodo 2010/2011, a testimonianza che la loro discesa sia dipesa principalmente dall’intervento istituzionale della BCE, e non dalle politiche di austerità. Sulla base di un’impostazione keynesiana, nel saggio si è asserito che il mancato consolidamento fiscale sia connesso al ruolo dei moltiplicatori fiscali, in quanto la contrazione del PIL - causata della politiche restrittive - è stata maggiore (in termini di punti percentuali di PIL) degli avanzi primari. Inoltre, in termini di riduzione dell’output il consolidamento fiscale è risultato essere più costoso di quanto previsto. A riguardo, si è anche osservato che l’IMF ha corretto a rialzo le stime dei moltiplicatori fiscali: più alti sono questi coefficienti, maggiore è la probabilità che un consolidamento fiscale abbia un effetto negativo; questo approccio risulterebbe ancora più valido qualora si dimostri che i moltiplicatori fiscali assumano valori più elevati durante le recessioni che durante le fase di espansione economica.
Inoltre, in questo saggio si è sostenuto che uno stretto focus sugli squilibri di partite correnti possa essere fuorviante in quanto i CA, oltre ai flussi di import ed export, includono anche i redditi netti dall’estero. Per via del fatto che gli squilibri reali sono spesso finanziati da prestiti internazionali (ovvero, i Paesi in surplus sono creditori internazionali all’interno dell’EMU) un Paese che registra un deficit commerciale si vede spesso costretto a pagare un cospicuo ammontare di redditi ai fattori esteri impiegati nel proprio territorio, e viceversa: stando ai dati,
il contributo dei redditi netti dall’estero alla formazione del saldo delle partite correnti è spesso molto elevato (attualmente rappresenta il 55% del CA della Germania vis-à-vis Eurozona), per cui una “spirale” di debito appare un fenomeno piuttosto realistico. In sintesi, nel saggio si è sostenuto che il saldo delle partite correnti sia un indicatore di competitività ingannevole in quanto non rappresenta solo i flussi commerciali ma considera anche i redditi da fattori.
In sintesi, i contributi proposti in questo lavoro sono compatibili con la tesi per cui, nell’attuale scenario dell’Eurozona, diverse economie necessitino di politiche differenti da quelle imposte, che vadano nella direzione di un sostegno alla domanda aggregata e della promozione di modelli di crescita più bilanciati. La risposta dei policy maker, concretizzatasi nelle misure di austerità espansiva e competitiva, ha solo affidato l’onere dell’aggiustamento degli squilibri ai Paesi in deficit: stando a quanto riportato nel saggio, le politiche fiscali restrittive non rappresentano strumenti utili a risolvere (anzi, possono solo peggiorare) le questioni principali dell’Eurozona rappresentate in primis da una carenza di domanda interna. In questo quadro sono inoltre da interpretare gli elevati livelli di disoccupazione delle economie periferiche (che dal punto di vista dei policy maker sarebbero risolvibili per mezzo della deregolamentazione del mercato del lavoro), in quanto la disoccupazione è un fenomeno strettamente connesso alla carenza di domanda aggregata: nella prospettiva teorica adottata in questo saggio l’austerità fiscale è pertanto uno strumento controproducente. Infine, nel presente lavoro si è sostenuto che la “crisi degli spread” non sia dipesa dall’indisciplina fiscale dei Paesi periferici, ma sia piuttosto stata il risultato di una più ampia crisi macroeconomica sviluppatasi all’interno di un particolare assetto istituzionale: per queste ragioni, immaginare di risolverla attraverso politiche fiscali restrittive dovrebbe apparire una considerazione piuttosto opinabile e confinata.
Parallelamente, nel saggio si è indicato che la letteratura economica ha fatto riferimento ad un’interpretazione alternativa della crisi dei debiti sovrani, ovvero connessa agli imbalances intra- Eurozona. Qualora gli squilibri commerciali siano effettivamente stati la causa della crisi degli
spread, l’austerità competitiva nei Paesi in deficit non dovrebbe essere comunque considerata una
soluzione appropriata: al contrario, sembra ragionevole asserire che l’onere dell’aggiustamento debba essere condiviso con un rilevante contributo dei Paesi in surplus, e che ciò possa avvenire per mezzo di politiche di espansione che andrebbero a sostegno della domanda interna nei Paesi
core e della struttura produttiva dei Paesi in deficit. Inoltre, nel presente lavoro il legame tra
austerità e competitività è stato considerato fuorviante anche alla luce del fatto che i Paesi dell’EMU non dovrebbero fondare la propria crescita economica sull’export, poiché tale modello di crescita si risolverebbe in una competizione a ribasso sui salari: politiche di contenimento del
costo di produzione, di deregolamentazione del mercato del lavoro e di tagli alla spesa pubblica non appaiono quindi strategie di crescita sensate per l’Eurozona nel suo complesso.
Alla luce di tutte queste considerazioni, nel saggio si è suggerita la via delle ricette alternative all’austerità per risolvere le questioni dell’Eurozona. In particolare, sulla base di argomentazioni