e le politiche di svalutazione interna hanno recentemente sollevato un ampio dibattito economico sul tema della “competitività”. Oltre che criticamente affrontata considerando il ruolo ha riguardato sia i fattori di offerta in senso stretto (indicatori di competitività “di prezzo”, quali il REER) sia i fattori di competitività “non di prezzo” (tra i quali la diversificazione produttiva e la composizione merceologica dell’export).
unto di vista empirico, l’obiettivo di questo lavoro è quello di valutare il ruolo della competitività di vanza del tasso di cambio tazioni e delle importazioni italiane. A tal fine sarà utilizzata una metodologia ECM per calcolare l’ordine di grandezza delle “trade elasticities” di lungo periodo.
L’analisi quantitativa è condotta sulla base di cinque distinti indicatori di competitività di prezzo e costo - e permette di stimare le trade elasticities in riferimento ai flussi commerciali in
Eurozona e globale.
indagine ha l’obiettivo di fornire un’analisi disaggregata al fine di comprendere se le diversi comparti del sistema termini di elasticità - sia al tasso di alcune indicazioni utili a all’interno del periodo
1. Introduzione e domanda di ricerca
La recente questione degli squilibri commerciali all’interno dell’Eurozona - e le relative politiche di svalutazione interna implementate nei Paesi in deficit (dato il regime di cambio fisso) volte al miglioramento delle partite correnti - ha organizzato il dibattito economico intorno al tema della “scarsa” competitività dei Paesi in disavanzo, specialmente in riferimento alla cosiddetta “periferia europea”.
In sintesi, le analisi e le argomentazioni - principalmente di impostazione teorica mainstream - su questo tema [Bayoumi, & al., 2011; Giavazzi & Spaventa, 2010; Sinn, 2012; Wolf, 2012] seguono, generalmente, la seguente catena logica:
1) l’unione monetaria ha consentito un abbassamento dei tassi di interesse, che ha causato crescenti ed insostenibili processi di indebitamento pubblico e privato nei Paesi periferici;
2) il ricorso al debito ha incentivato e sostenuto la domanda (sia domestica che estera) dei Paesi periferici, generando inflazione e facendo crescere i prezzi relativi, ossia nei confronti degli altri Paesi dell’Eurozona;
3) la crescita dei prezzi nei Paesi periferici ha - in certi casi e per alcuni comparti - disincentivato le loro esportazioni, contribuendo alla creazione di persistenti deficit di partite correnti;
4) i deficit commerciali dipenderebbero da una scarsa competitività dei Paesi periferici: in un regime di cambio fisso, non esiste altra via se non quella di correggere tali disavanzi attraverso un processo di svalutazione interna, ovvero per mezzo della riduzione dei salari e dei prezzi.
Tuttavia, sembra sensato ritenere questa spiegazione poco esauriente. In particolare, da punti di vista teorici alternativi, è possibile argomentare che la suddetta linea di ragionamento non tenga conto:
- del contributo che i Paesi periferici hanno dato alla crescita dell’export registrata nei Paesi in surplus [Simonazzi & al., 2013], che sono invece considerati competitivi ed efficienti sebbene la loro crescita (specialmente per la Germania) sia dipesa quasi esclusivamente dal canale estero
[Cesaratto & Stirati, 2011]; in questa prospettiva, la crescita del reddito nei Paesi in deficit - e in diversi casi, prima della crisi globale del biennio 2007/08, anche della produttività - avrebbe causato un fisiologico aumento della domanda estera, che si è indirizzata verso i prodotti dei Paesi attualmente in surplus [Cesaratto, 2010; Uxó & al., 2011];
- del fatto che i Paesi in surplus hanno loro stessi acquisito competitività di prezzo, e quindi migliorato le loro performance commerciali in termini di export, attraverso politiche di deflazione salariale [Brancaccio, 2011; Stockhammer, 2011];
- del fatto che in alcuni Paesi, specialmente in Italia, l’export non ha sostanzialmente subito delle flessioni negli ultimi anni, bensì le esportazioni sono state l’unica componente della domanda aggregata a non registrare un rallentamento;
- del fatto che il “recupero della competitività” attraverso la svalutazione interna nei Paesi in deficit potrebbe rivelarsi pericoloso alla luce dei bassissimi (se non nulli o negativi) livelli di inflazione e dell’elevato livello del loro debito (pubblico e privato).
In questo contesto continentale, il tema della competitività dei Paesi in deficit appare particolarmente meritevole di attenzione. In particolare, la questione della “bassa” competitività non è stata solo affrontata dalla letteratura mainstream attraverso l’esame degli indicatori di competitività di prezzo (che in una larga maggioranza delle analisi vengono aggiustati per la produttività), ma, con uno specifico riferimento al sistema produttivo italiano, è stata anche al centro del dibattito circa gli squilibri di partite correnti tra gli economisti di impostazioni teoriche alternative.
A questo proposito, sulla base delle considerazioni che emergono dal dibattito interno agli economisti “critici” circa il tema della competitività è possibile annoverare, principalmente, due distinte posizioni.
Da un lato, alcuni economisti considerano particolarmente rilevante - nella determinazione della dinamica dell’export - il ruolo della competitività di prezzo. Sulla base dell’idea che un tasso di cambio fisso possa impedire (o comunque rallentare) l’aggiustamento dei prezzi relativi tra beni nazionali ed esteri, è infatti possibile sostenere che un regime di cambi più flessibile possa essere utile, soprattutto in un Paese “avanzato” dal punto di vista del contenuto tecnologico del prodotto, al rientro di eventuali squilibri commerciali: in particolare, viene argomentato che nei Paesi in deficit una svalutazione monetaria possa essere utile ad incentivare l’export senza generare particolari effetti inflazionistici [Bagnai, 2012b].
Da un altro lato, diversi economisti sostengono che il vantaggio competitivo dei Paesi dell’Eurozona che registrano un surplus commerciale dipenda principalmente dai cosiddetti fattori di competitività “non di prezzo”, tra i quali vengono annoverati la qualità del prodotto, una matrice produttiva più completa ed, in particolare, la composizione/diversificazione dell’export. Sulla base di queste considerazioni, i differenziali di competitività di prezzo tra Paesi (riscontrabili nei dati) sarebbero solo “una parte della spiegazione degli squilibri”; pertanto, un tasso di cambio più favorevole non sarebbe in grado di incentivare le esportazioni dei Paesi in deficit, in quanto nella creazione degli squilibri commerciali “un ruolo preponderante è stato giocato dalla
Tuttavia, nonostante i diversi approcci al ruolo della competitività di prezzo, entrambe le posizioni considerano dannose le attuali politiche di svalutazione interna - finalizzate al recupero della competitività di prezzo - imposte ai Paesi in deficit.
In particolare, coloro i quali ritengono che i “fattori di prezzo” non siano stati la principale causa degli squilibri esterni sostengono che le attuali politiche restrittive contribuiscano a peggiorare ulteriormente la struttura produttiva dei Paesi periferici che, in quanto “molto limitata, sia in
termini quantitativi che qualitativi”, non è stata finora in grado di “rispondere efficacemente alla domanda esterna” [Simonazzi & al., 2013].
Parallelamente, coloro i quali ritengono che la competitività di prezzo abbia avuto un ruolo determinate nella formazione degli squilibri esterni sostengono che, nell’attuale contesto dell’Eurozona, la riduzione dei differenziali di prezzo debba avvenire non attraverso una svalutazione dei Paesi in deficit, bensì attraverso una rivalutazione dei Paesi sistematicamente in surplus in quanto i loro avanzi deriverebbero principalmente1 da una deliberata adozione di politiche restrittive [Bagnai, 2012a; Brancaccio, 2008; Cesaratto & Stirati, 2011].
Anche alla luce di questo dibattito è interessante stabilire, da un punto di vista empirico, il ruolo attribuibile alla competitività di prezzo nella determinazione delle performance commerciali del sistema produttivo italiano: nel presente lavoro di ricerca questo obiettivo si traduce nel valutare l’ordine di grandezza delle cosiddette trade elasticities - ovvero, le elasticità “di prezzo” e “di reddito”. Con particolare riferimento alle considerazioni appena proposte, questo lavoro ha infatti l’obiettivo di comprendere quanto, oltre al ragionevole contributo dei cosiddetti “fattori di domanda” (dinamica del reddito), i cosiddetti “fattori di offerta” (competitività di prezzo, misurata attraverso il tasso di cambio reale) abbiano contribuito, in riferimento al contesto italiano, a tracciare gli andamenti delle esportazioni e delle importazioni.
Inoltre, questo lavoro ha l’obiettivo di fornire un’analisi disaggregata al fine di comprendere se le performance commerciali - con particolare riferimento all’export - dei diversi settori produttivi dell’economia italiana abbiano finora mostrato comportamenti differenti in termini di elasticità - sia al tasso di cambio reale, sia alla domanda estera.
Sommariamente, il lavoro si propone:
1 Oltre alle politiche di moderazione salariale (connesse alle riforme del mercato del lavoro), è possibile argomentare,
con particolare riferimento al caso tedesco, che parte dei guadagni della competitività di prezzo siano da ricercare nei processi di outsourcing e nelle delocalizzazioni produttive - a riguardo, “German firms’ offshored part of production to the new member states in Eastern Europe, Russia and Ukraine” [Marin, 2010] - dove, oltre ad un contesto istituzionale più favorevole alle imprese - in termini di minori tutele e costi del lavoro - è stato possibile beneficiare di un regime di cambio favorevole.
- di analizzare il peso del fattore “competitività di prezzo” nelle dinamiche dell’export e dell’import, anche tenendo conto dei partner commerciali distinguendo, principalmente, tra commercio intra-Eurozona e flussi commerciali globali;
- di fornire delle indicazioni utili a verificare la presenza di eventuali cambiamenti, all’interno del periodo oggetto di indagine (1994/2014), dei valori delle elasticità; in dettaglio, le analisi empiriche terranno in considerazione, per mezzo di opportune tecniche quantitative, l’avvio dell’unione monetaria Europea (1999);
- di utilizzare diversi indicatori di competitività di prezzo e costo (ovvero, tassi di cambio reali basati su diversi deflatori) per valutare eventuali differenze nelle stime delle elasticità dell’import e dell’export al tasso di cambio reale e al reddito, proponendo sia un’analisi dei flussi in valore (prezzi correnti) ed in volume (prezzi costanti), sia in riferimento a dieci distinti settori produttivi.
Al fine di raggiungere tale obiettivo, nel presente studio si propone un’indagine empirica delle
trade elasticities di lungo periodo in riferimento al sistema produttivo italiano, che verrà condotta
per mezzo di una metodologia ECM (error correction model). Tale metodologia permette di stimare congiuntamente sia le relazioni tra i livelli delle variabili - mostrando la relazione “di fondo” tra flussi commerciali (esportazioni ed importazioni), fattori di domanda (estera ed interna), fattori di offerta (tasso di cambio effettivi reali) - sia quelle di breve periodo. Tuttavia, nella presente ricerca si farà riferimento alle elasticità di lungo periodo in quanto si ritiene che il fenomeno oggetto di indagine risponda prevalentemente a delle dinamiche di lungo periodo.
2. Quadro generale sulla competitività del sistema produttivo italiano
Il dibattito circa la scarsa competitività esterna dei Paesi della “periferia europea” è emerso in seguito ad alcune evidenze empiriche circa i saldi delle partite correnti (current account). In particolare, sia alcuni report della Commissione Europea [European Commission, 2009; 2010] che diversi contributi accademici principalmente di impostazione teorica mainstream [Blanchard, 2007; Giavazzi & Spaventa, 2010; Merler & Pisani-Ferry, 2012] hanno sottolineato il ruolo potenzialmente pericoloso (in quanto collegato problemi di liquidità e solvibilità, oltre che alla bassa dinamica della produttività) dei deficit di partite correnti, anche all’interno di un’unione monetaria. A riprova della spiccata attualità del tema della competitività, interpretazioni della “crisi degli spread” legate ai persistenti disavanzi commerciali intra-Eurozona sono state anche suggerite, seppur seguendo argomentazioni diverse e quindi suggerendo soluzioni alternative, da economisti che hanno un’impostazione teorica alternativa [Bagnai, 2012a; Brancaccio, 2008; Cesaratto, 2012].
Tuttavia, sulla base di un approccio teorico mainstream, in risposta alle criticità legate agli squilibri esterni sono state finora implementate, nel contesto europeo e specialmente nei Paesi “periferici”, politiche volte al rientro dei deficit di partite correnti basate principalmente sull’austerità fiscale e sulla deregolamentazione del mercato del lavoro. Analiticamente, tali scelte di policy sono considerate atte a migliorare le bilance commerciali - e quindi i saldi di current
account - incentivando l’export tramite la crescita della produttività e la riduzione dei salari e dei
prezzi, migliorando quindi la competitività di prezzo - misurata attraverso il CLUP ed il REER. Tuttavia, l’evidenza empirica suggerisce che le politiche di austerità fiscale sono state principalmente in grado di migliorare i saldi delle partite correnti in quanto, contenendo la domanda aggregata e quindi il reddito, hanno limitato la componente endogena dell’import.
Figura_1 – Fonte: World Bank
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