Una tassonomia critica degli indicatori di competitività nazionale
4. Indicatori mono-dimensionali di competitività nazionale
Sia la letteratura che le indicazioni di politica economica in tema di competitività nazionale hanno spesso fatto riferimento al mono-dimensional principle of price competitiveness [Simonazzi & al., 2012]. A riguardo, in questa sezione vengono analizzati dei tipici indicatori di competitività nazionale, quali la produttività del lavoro, il costo del lavoro per unità di prodotto e il tasso di cambio effettivo reale.
Sebbene, come è stato precedentemente argomentato, gli indicatori di produttività non possano essere strettamente considerati come indicatori di competitività di prezzo, la produttività del lavoro è largamente riconosciuta come un indice di efficienza capace di influenzare la struttura dei costi e dei prezzi di un’intera economia.
Inoltre, l’indicatore costo del lavoro per unità di prodotto è comunemente utilizzato come un indicatore di competitività di prezzo in quanto è considerato capace di catturare una specifica componente di costo di produzione e di rapportarla con la produttività del lavoro.
Oltre a queste metriche che fanno riferimento a logiche input/output, un ulteriore indicatore molto diffuso di competitività di prezzo è il tasso di cambio effettivo reale, in quanto capace di rappresentare l’evoluzione combinata dei prezzi relativi (rapporto tra prezzi domestici ed esteri) e dei tassi di cambio nominali.
Parallelamente, stando a molteplici report di istituzioni governativi, tra gli indicatori mono- dimensionali di competitività nazionale è possibile includere anche dei più generali indicatori macroeconomici che riguardano le performance commerciali effettivamente realizzate.
Infatti, specialmente con riferimento al contesto dell’Eurozona, i saldi delle partite correnti sono spesso utilizzati - sia dalla letteratura economica [Blanchard & Giavazzi, 2002] che dai policy maker
[European Commission, 2013] - come delle proxy per la competitività di un sistema-Paese, in quanto un deficit di partite correnti viene considerato come la conseguenza di una bassa competitività nazionale, e viceversa. Tuttavia, è possibile considerare opinabile questa visione per due ragioni. In primo luogo, gli squilibri commerciali possono essere considerati come non unicamente determinati dai differenziali di competitività di prezzo (i cosiddetti “fattori di offerta”), poiché anche i differenziali di crescita tra Paesi (i cosiddetti “fattori di domanda”) rientrano tra le determinanti dei saldi commerciali. In seconda analisi, il conto delle partite correnti non include solo il saldo commerciale (ovvero, le transazioni in merci e servizi), bensì comprende anche altre componenti quali i redditi e i trasferimenti unilaterali correnti.
Sempre tra gli indicatori di competitività basati sulle performance commerciali di un Paese, in questa sezione viene anche annoverato l’indice di “vantaggio comparato rilevato” (conosciuto anche come “indice di Balassa”), il quale, analizzando le performance dell’export, fornisce delle
indicazioni circa la “specializzazione” di un Paese nella produzione di un singolo prodotto rispetto ai competitor globali.
4.1 – Produttività del lavoro
Con ogni probabilità, il più diffuso indicatore di efficienza, anche a livello di sistema-Paese, è la dinamica della produttività del lavoro, intesa come rapporto una misura di output aggregato ed il lavoro impiegato nel processo produttivo. Oltre ad essere interpretata come una metrica di efficienza, la dinamica della produttività del lavoro è genericamente utilizzata come indice di cambiamento tecnologico, inteso anche come spostamento della struttura produttiva di un Paese verso settori a maggiore valore aggiunto, e quindi - per estensione - della competitività di un sistema-Paese. In questa prospettiva un’economia è solitamente considerata “competitiva” qualora mostri una dinamica della produttività più marcata rispetto a quella dei principali Paesi concorrenti. Ciò accade poiché, effettuando un’analisi dal “lato dell’offerta”, una vivace dinamica della produttività del lavoro viene considerata alla stregua di un vantaggio in termini di costo dovuto al progresso tecnico. Tuttavia, risulta immediato notare un primo “limite” dei confronti tra Paesi basati su questo indicatore in quanto la dinamica della produttività del lavoro può essere legata al ciclo economico: a riguardo, l’evidenza empirica indica che, generalmente, si registrano variazioni della produttività legati all’intensità di utilizzo di lavoro e capitale.
In questa sezione si effettueranno delle considerazioni circa l’indicatore “produttività del lavoro” dal punto di vista teorico e metodologico. Per un sistema-Paese, l’aggregato cui si fa solitamente riferimento per il calcolo della produttività del lavoro - per lavoratore o per ora lavorata23 - è il “valore aggiunto complessivo” (GVA), ossia il PIL misurato al costo dei fattori24. A riguardo, l’Equazione (1) riporta la formula generale per il calcolo della produttività del lavoro per addetto:
= ⁄ (1)
23 Ci sono vantaggi e svantaggi associati alle diverse misurazioni dell’input “lavoro” usate per il calcolo della
produttività del lavoro. Solitamente, l’utilizzo del numero complessivo di ore lavorate è considerato più appropriato in quanto usare il numero dei lavoratori non renderebbe visibili i cambiamenti delle ore mediamente lavorate per addetto, causate ad esempio dai cambiamenti dell’orario lavorativo o dall’introduzione di contratti di lavoro non a tempo pieno. Tuttavia, i metodi di stima delle ore lavorate non sono sempre di facile comprensione, in quanto basati su indagini campionarie le cui modalità di implementazione possono variare tra i vari Paesi [Freeman, 2008].
24 Anche il GDP è una misura dell’output complessivo utilizzata per il calcolo della produttività del lavoro. Qualora il
GDP sia calcolato al costo dei fattori, in tal caso corrisponderebbe al GVA. Qualora si calcoli il GDP ai prezzi di mercato, corrisponderebbe al GDP al costo dei fattori aumentato delle imposte indirette e diminuito dei contributi alla produzione e all’esportazione.
Senza fare riferimento all’approccio Total Factor Productivity, affrontato nella precedente sezione e valido solo all’interno di uno specifico contesto teorico (ovvero, la teoria marginalista dei prezzi e della distribuzione), è possibile ritenere che l’indicatore “valore aggiunto per lavoratore” (o, alternativamente, “per ora lavorata”) possa rappresentare un indicatore neutrale di produttività ed efficienza, ed è altresì ragionevole sostenere che tale indice possa dipendere in modo essenziale dal livello della tecnologia e dalla composizione settoriale dell’intera struttura produttiva di un Paese. Per queste ragioni, la produttività del lavoro non è evidentemente il mero contributo del fattore lavoro al processo produttivo (come invece viene considerato in una prospettiva neoclassica, misurando il contributo del lavoro alla crescita dell’output - come precedentemente illustrato - utilizzando la crescita del fattore lavoro moltiplicata per la relativa quota distributiva), ma è ragionevole ritenere che la produttività del lavoro possa essere vista come un coerente riflesso di un determinato insieme di tecniche produttive e composizione del prodotto - o di specifici metodi di produzione; pertanto, la produttività del lavoro può essere considerato un indicatore utile a rappresentare una determinata struttura produttiva in termini di tecnologia e valore aggiunto per addetto che può essere distribuito tra le varie categorie di reddito.
Tuttavia, questa caratterizzazione della produttività del lavoro è compatibile con l’idea che la tecnologia possa dipendere da una complessa combinazione di “fattori di offerta” e “di domanda”. Infatti, in un contesto teorico in cui la crescita può essere anche “trainata” dalla domanda, qualora la crescita economica sia capace di cambiare la composizione settoriale dell’output (ad esempio, in un Paese avanzato, per effetto di una crescente domanda di servizi caratterizzati da un elevato livello di lavoro per unità di prodotto), è presumibile che l’occupazione complessiva cresca in maniera sostenuta, mentre la produttività del lavoro dell’intero sistema economico possa mostrare una crescita moderata. In questo caso, sarebbe erroneo interpretare la bassa dinamica della produttività del lavoro come un segnale di scarsa competitività.
Per questi motivi, l’utilizzo dell’indicatore produttività del lavoro come strumento di analisi comparative tra Paesi potrebbe essere considerato discutibile25 qualora non si tenga conto della
25 Contestualizzando questo punto all’Eurozona, Danninger & Joutz [2007] hanno sostenuto che una comparazione
vis-à-vis con la Germania dovrebbe considerarsi non appropriata per i Paesi della periferia Europea - comunemente considerati “non competitivi” - in quanto il loro paniere di beni prodotti (ed esportati) risulta molto differente. Sulla base di questa argomentazione, che fa riferimento sia alla struttura produttiva che alla composizione merceologica dell’insieme dei beni commerciati, un recupero di competitività basato esclusivamente sui “fattori di costo” viene considerato fuorviante proprio alla luce della “complessità” dell’export dei Paesi del Nord. Viceversa, i Paesi in deficit dovrebbero migliorare e potenziare la loro struttura produttiva al fine di “competere” con la Germania su un maggiore numero di prodotti. Infatti, la Germania - oltre alle politiche di moderazione salariale nei settori export oriented - avrebbe implementato delle politiche industriali di diversificazione e specializzazione al fine di ottenere un vantaggio competitivo in più settori, raggiungendo una completa “matrice di produzione”. Al contrario, i Paesi periferici farebbero attualmente registrare una specializzazione in un numero limitato di settori industriali. Sulla base di questa
diversa composizione dell’output, ed uno stretto legame tra la produttività misurata in aggregato e la competitività sarebbe giustificabile solo qualora si comparino Paesi con una simile struttura produttiva: in sintesi, uscendo dalla logica del “bene omogeneo”, confronti tra Paesi basati sull’indicatore “valore aggiunto per ora lavorata” dovrebbero tenere in considerazione anche eventuali differenze nelle quote dei vari settori economici sul prodotto totale.
Sulla base di questa osservazione è quindi possibile ritenere che metriche e ranking di competitività nazionale basati sulla produttività del lavoro debbano ritenersi parzialmente fuorvianti qualora facciano riferimento a Paesi molto differenti dal punto di vista della composizione settoriale dell’output, anche alla luce del fatto che tale diversità può implicare l’utilizzo di diverse tecniche produttive: di conseguenza, un ulteriore limite di questo indicatore risiede nel fatto che una comparazione basata sulla produttività dovrebbe riguardare Paesi con un simile rapporto tra valore del capitale e valore della produzione26.
Queste osservazioni non dovrebbero tuttavia svuotare dal punto di vista teorico il concetto di “dinamica della produttività del lavoro”, in quanto tale indicatore può essere generalmente considerato una misura dell’avanzamento tecnologico di un sistema-Paese.
4.1.1 Fattori di domanda nella dinamica della produttività del lavoro
Sempre dal punto di vista teorico è possibile asserire che generalmente i policy maker27 - basandosi su un’impostazione teorica mainstream nel trattare il tema della produttività, e di collegarlo grado di “competitività nazionale” - considerino la crescita della produttività del lavoro come esclusivamente trainata da fattori di offerta (tra i quali, la formazione, la conoscenze, la ricerca, il progresso tecnico e l’innovazione di processo). All’interno di questa cornice teorica - e ignorando quasi completamente i fattori di domanda28 - il legame tra produttività e competitività è solitamente tracciato come segue: 1) la crescita dei salari nominali deve essere (al massimo) in linea con la dinamica della produttività del lavoro; 2) i Paesi che non rispettano questa “regola” starebbero di fatto perdendo competitività; 3) i differenziali di competitività, intesi come diversa dinamica del rapporto tra salari nominali e produttività del lavoro, devono essere corretti tramite opportuni interventi di policy. Da questa prospettiva è infatti ampiamente riconosciuto che una crescita della produttività del lavoro maggiore di quella dei salari rappresenti un vantaggio di
visione, Simonazzi & al. [2012] hanno argomentato che politiche industriali a favore degli up-grading di prodotto - e non la competitività di prezzo - sarebbero quindi necessarie per ripristinare la competitività dei Paesi periferici.
26 In questo quadro, all’aumentare del rapporto tra capitale e prodotto è supposta aumentare anche la produttività del
lavoro, a parità di altre condizioni (ad esempio, di saggio del profitto).
27 Ad esempio, l’Executive Summary dell’European Competitiveness Report 2013 [European Commission, 2013] asserisce:
“The EU-US productivity gap, for instance, is growing wider again after years of narrowing. It is linked to a production efficiency gap caused by regulations, lower investment in ICT and intangible assets.”
28 A riguardo, Deleidi & Paternesi M. [2014] hanno fornito una panoramica - con specifico riferimento all’economia
italiana - dei diversi approcci teorici (sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta) al tema della dinamica della produttività del lavoro.
costo per le imprese, sebbene alcuni economisti di questa impostazione abbiano ritenuto che solo in questo senso la produttività del lavoro possa essere considerata come un indice di competitività [Muellbauer, 1991; Jorgenson, 1992]. Parallelamente, il legame tra produttività e competitività rappresenta un elemento distintivo delle analisi economiche che si pongono l’obiettivo di misurare i miglioramenti degli standard of living [Fagerberg, 1988; Scott & Lodge, 1985], specialmente quando questi vengono considerati come dipendenti dalla capacità delle imprese di accrescere il livello della produttività [Porter, 1990]. Queste analisi sembrano tuttavia legate all’impostazione neoclassica e al concetto di produttività marginale del fattore lavoro, la cui crescita sarebbe connessa ad un aumento del saggio del salario reale, e quindi agli standard di vita dei percettori di redditi da lavoro. A riguardo, nella presente sezione si vuole proporre un approccio alternativo alla questione della produttività del lavoro, che si ritiene meritevole di attenzione per meglio identificare le relazioni tra produttività e competitività.
Alternativamente all’approccio supply-side (che si concentra su produzione e tecnologia), la letteratura economica eterodossa pone invece l’attenzione sul ruolo della domanda aggregata. In particolare, quest’ultima è considerata capace di influenzare positivamente la dinamica dell’output e, attraverso questo canale, quella della produttività del lavoro sia nel breve che nel lungo periodo. Il punto di partenza del ragionamento proposto è rappresentato da una crescita dell’output - causata dalla crescita della domanda aggregata - a cui dovrebbe di norma essere connessa una crescita occupazionale. Sebbene, dal punto di vista teorico, uno scenario di maggiore occupazione combinata con un maggior livello di output abbia un effetto indeterminato sulla produttività del lavoro, l’evidenza empirica suggerisce che una crescita della domanda aggregata (e quindi del output complessivo) sia in grado di causare una crescita della produttività del lavoro, in quanto la crescita dell’output è solitamente minore della crescita dell’occupazione.
Dato che gli indicatori di produttività catturano anche i cambiamenti nel ciclo del grado di utilizzo della capacità produttiva, è osservabile che la produttività del lavoro mostri una dinamica pro-ciclica, in quanto le fasi di espansione sono solitamente associate con un utilizzo intensivo del fattore lavoro: come un dato stock di fattore capitale può essere impiegato per un più alto tempo, anche gli occupati possono lavorare per un più alto numero di ore - o con maggiore “sforzo” (effort). Parallelamente, durante le fasi di recessione le imprese non diminuirebbero l’impiego in maniera proporzionale alla diminuzione dell’output, ma sarebbero solite ridurre il grado di utilizzo della capacità produttiva: così facendo, le imprese ridurrebbero volontariamente le ore lavorate per occupato, tenendo a loro disposizione capacità produttiva addizionale al fine di reagire prontamente ad una ripresa della domanda. In breve, oltre alle cosiddette “rigidità istituzionali” e alle tutele contrattuali dei lavoratori, il mercato del lavoro potrebbe risultare
meno flessibile di altri mercati proprio in quanto le imprese stesse potrebbero avere una certa volontà di affrontare una crescita della domanda in tempi brevi, oltre alla loro riluttanza a perdere specifiche risorse umane.
A riguardo, è possibile fare riferimento ad Okun [1962], la cui legge empirica ha l’obiettivo di rappresentare ciò che accade durante il ciclo economico: in breve, secondo tale relazione la crescita del PIL si riflette solo parzialmente in una minore disoccupazione, in quanto si assiste ad una crescita della produttività del lavoro29. Tuttavia, la validità di questa “legge” è effettivamente confinata al breve periodo; pertanto, i “fattori di domanda” capaci di influenzare la produttività del lavoro sono, all’interno della legge di Okun, connessi a variazioni nell’intensità di utilizzo del lavoro (mentre nel lungo periodo è l’occupazione ad adeguarsi al livello della produzione, non la produttività del lavoro) legate a loro volta alle varie fasi del ciclo economico. Tuttavia, un’evidenza empirica di lungo periodo circa la connessione tra produttività del lavoro e produzione è rintracciabile nella formulazione della legge di Kaldor-Verdoorn, che descrive una stabile relazione positiva tra crescita della produttività del lavoro e dell’output complessivo
[Verdoor, 1949; Kaldor, 1966b]. Ciò accadrebbe principalmente per effetto di cambiamenti strutturali legati alla presenza di economie di scala (statiche e dinamiche), all’esistenza di processi di learning-by-doing, al ruolo della specializzazione, all’interazione tra imprese e soprattutto all’endogeneità del progresso tecnico: in merito a questo ultimo punto, in un framework di crescita demand-led, un aumento della domanda aggregata è considerato capace di stimolare gli investimenti in beni capitali - i cosiddetti “investimenti indotti” [Cesaratto & al., 2003] - i quali, “incorporando” il progresso tecnico, avrebbero un impatto positivo sulla dinamica della produttività del lavoro30.
In questa cornice teorica alternativa, la bassa crescita della produttività potrebbe dipendere - anche nel lungo periodo - da una bassa dinamica della domanda aggregata, e non dal modesto contributo alla crescita dato dai “fattori di offerta”, come invece sostenuto dalla teoria dominante
[Romer, 1990; Aghion & Howitt, 1992]. Infatti, nell’impostazione neoclassica vengono annoverate tra le cause di una bassa crescita della produttività del lavoro la scarsa dotazione di fattori (anche immateriali), le distorsioni dei mercati (specialmente quello del lavoro) e la mancanza di
29 In particolare, Okun[1962] ha asserito che questa relazione dipende dall’azione combinata di tre effetti. Oltre alla
crescita dalle produttività del lavoro, la diminuzione del tasso di disoccupazione è minore del tasso di crescita dell’output per effetto dei crescenti tassi di partecipazione e del crescente numero di ore lavorate per addetto. Tuttavia, alcuni studi quantitativi hanno mostrato che la legge di Okun, intesa come la relazione empirica tra cambiamento della disoccupazione e dinamica del GDP, non è sempre verificata nella stessa misura qualora si faccia riferimento a diversi contesti spaziali e temporali.
30 A riguardo, è opportuno tenere in considerazione che il progresso tecnico mostra comunque un certo grado di
investimenti. Tuttavia, da una prospettiva teorica alternativa gli investimenti dipenderebbero principalmente dalla domanda attesa - capace di influenzare l’output complessivo anche nel lungo periodo - e solo parzialmente (o in nessuna misura) dal tasso del profitto.
Seguendo queste argomentazioni, è possibile tracciare una doppia connessione tra la produttività e la competitività, in quanto gli investimenti - che potrebbero essere indotti da un’espansione della domanda aggregata - sarebbero capaci di stimolare ulteriormente la crescita della produttività, anche nel lungo periodo. Sulla base di queste considerazioni è possibile argomentare che tutte le raccomandazioni di policy indirizzate alla crescita della produttività di un sistema- Paese - e mirate a stimolarne la competitività esterna tramite questa variabile - siano criticabili dal punto di vista teorico in quanto la produttività del lavoro risulta essere una variabile largamente indotta. In conclusione, l’approccio economico convenzionale alle tematiche connesse a produttività e competitività suggerisce che sia la crescente produttività del lavoro a determinare la crescita dell’output complessivo. Tuttavia, tale legame causale viene rovesciato qualora si analizzino questi fenomeni in una cornice teorica alternativa: la dinamica della produttività del lavoro può fisiologicamente rallentare nelle fasi di recessione causate da una caduta della domanda aggregata.
4.1.2 Misurazione della produttività del lavoro per un sistema-Paese: il ruolo del settore pubblico
Un’ulteriore criticità circa il calcolo della produttività del lavoro è invece rappresentata dal ruolo cruciale del settore pubblico. A riguardo, i servizi prodotti dal settore pubblico non sono direttamente venduti, ma sono semplicemente resi disponibili ai cittadini: in breve, non hanno un prezzo di mercato ma una tariffa che può risultare più o meno fissa. Quindi, il valore aggiunto del settore pubblico non può essere calcolato come la differenza tra valore della produzione lorda e valore dei beni intermedi impiegati, in quanto il primo non è misurabile (poiché i servizi non sono venduti ad un prezzo di mercato). Di conseguenza, nella contabilità nazionale il valore aggiunto del settore pubblico è misurato come la somma dei redditi di tale settore, e tende pertanto a coincidere con l’insieme dei redditi da lavoro - non sussistendo nella gran parte del settore pubblico e nella pubblica amministrazione un reddito da capitale.
In questo contesto, una riduzione degli stipendi degli addetti del settore pubblico (fermo restando il numero degli impiegati) rappresenterebbe dal punto di vista empirico una riduzione del valore aggiunto, quindi, per dato numero di impiegati, della produttività del lavoro. Tale considerazione risulta di fondamentale rilevanza, specialmente qualora si accetti la prospettiva secondo la quale