Quota aggiustata dei salari su PIL
6. Effetti dell’austerità da una prospettiva keynesiana
Oltre a delineare i fondamenti teorici dell’austerità competitiva, nelle precedenti sezioni si è voluto fornire un quadro di riferimento circa le modalità di attuazione delle misure di austerità nei Paesi GIIPS, sottolineando inoltre dei possibili canali di trasmissione tra le politiche restrittive e le riduzioni dei deficit di partite correnti nelle economie prese in esame.
Stando alla visione proposta nel presente saggio, le attuali politiche di austerità nei Paesi in disavanzo sono coerenti con un approccio al rientro dei deficit esteri basato su un aggiustamento asimmetrico, in quanto le misure si austerità competitiva hanno principalmente riguardato il contenimento della crescita dei Paesi periferici (al fine di limitarne le importazioni) e la svalutazione interna (per stimolare le esportazioni). Tuttavia, è opportuno notare che nel contesto europeo tali politiche hanno avuto un impatto negativo sulla domanda interna (sia pubblica che privata) ed un modesto “effetto sostituzione” - tra beni internamente prodotti ed importati - connesso invece alle esperienze di svalutazione monetaria. Inoltre, contenendo la domanda aggregata le politiche restrittive sono in grado di impattare negativamente sulla struttura produttiva di un Paese: a riguardo, nel contesto dell’Eurozona ciò si è tradotto in un aumento della disoccupazione, che ha aperto anche questioni di carattere sociale in quanto il minore livello occupazionale è combinato ad un ridimensionamento del sistema di welfare (per effetto dell’austerity). Oltre a questi elementi, è opportuno rimarcare il fatto che le misure di austerità non hanno ancora permesso la realizzazione del consolidamento fiscale, inteso come diminuzione dei rapporti debito pubblico/PIL, nei Paesi della periferia europea.
A riguardo, seguendo un’impostazione economica di carattere keynesiano, in questa sezione si sottolineano gli effetti delle politiche fiscali restrittive sulla crescita reale, sull’occupazione e sui rapporti debito pubblico/PIL, fornendo sia argomentazioni teoriche che evidenze empiriche al fine di discutere criticamente la connessione tra austerità e competitività suggerita delle attuali misure di politica economica.
6.1 - Il legame tra politiche restrittive ed investimenti privati
Sia il concetto di austerità espansiva che quello di austerità competitiva possono essere considerati criticabili da una prospettiva teorica alternativa. In particolare, l’idea che una minore spesa pubblica possa stimolare la spesa privata - principalmente quella per investimento, non solo attraverso il minore tasso dell’interesse, ma anche incoraggiando la “investors confidence” - contraddice la tradizionale visione keynesiana stando alla quale una politica fiscale restrittiva è in
grado di contrarre la domanda aggregata, e di conseguenza l’output totale. Per giunta, in questa prospettiva tale effetto è amplificato dal ruolo e dall’entità dei moltiplicatori fiscali.
Oltre a questo, la tesi per cui una parte degli investimenti possa essere spiazzata da una maggiore spesa pubblica è considerata criticabile, in questa prospettiva, sotto due distinti aspetti. In primo luogo, nel paradigma keynesiano le decisioni di investimento non sono considerate dipendenti solo dal tasso dell’interesse, in quanto sono profondamente influenzate dalle considerazioni degli imprenditori circa la domanda attesa [Keynes, 1936]. A riguardo, la relazione inversa tra investimenti e tasso d’interesse - caposaldo dell’impostazione mainstream76 - non è solo criticata dal punto di vista teorico da economisti di impostazione alternativa [Garegnani, 1979], bensì alcuni suggerimenti empirici hanno mostrato che tale relazione77 non è automatica [Chirinko,
1993] e hanno permesso di asserire che “the empirical evidence on the sensitivity of investment to
interest rates is, at best, equivocal” [Blinder, 1997]. In secondo luogo, spesa pubblica e spesa privata
potrebbero essere considerate interconnesse: gli investimenti privati potrebbero essere incentivati, oltre che da condizioni economiche più favorevoli date dal settore pubblico (ad esempio, una maggiore fornitura di infrastrutture), dal sostengo alla domanda aggregata direttamente fornito dal settore pubblico. In questa prospettiva, le politiche fiscali restrittive - specialmente nei Paesi in deficit commerciale - possono frenare gli investimenti pubblici e privati che invece sarebbero capaci di sostenere l’efficienza e la competitività del sistema produttivo.
6.2 – Gli effetti della deflazione salariale sulla domanda aggregata
In merito alle politiche disinflazionistiche - attuate nei Paesi in deficit - volte al ripristino della competitività tramite il processo di deflazione salariale è opportuno distinguere due casi: nel primo, si può considerare l’ipotesi per cui alla riduzione dei salari faccia seguito, in maniera immediata, una equivalente riduzione dei prezzi; nel secondo caso, tale meccanismo di trasmissione si può - più verosimilmente – considerare non immediato o, alternativamente, si può ipotizzare che i prezzi rispondano in maniera non equivalente (ovvero, minore) alle riduzioni salariali. Sulla base delle considerazioni appena proposte, mentre il primo caso risulta compatibile con uno scenario in cui i salari reali non si modificano, nel secondo invece si registrerebbe una redistribuzione dai salari a redditi di altri fattori.
76 Sebbene in questo saggio si ritiene particolarmente meritevole la tesi secondo la quale, sulla base di ragioni teoriche e
di evidenze empiriche, le decisioni di investimento dipendano soprattutto dalle aspettative degli imprenditori, va tuttavia fatto notare che in uno scenario caratterizzato da tassi di interesse nulli e tassi di inflazione negativi, anche da una prospettiva mainstream gli investimenti privati potrebbero essere penalizzati dal crescente tasso di interesse reale.
77 Una recente affermazione di Krugman [2014] sembra fornire ulteriore validità a questa considerazione: “one of the
Sebbene il primo caso possa non apparire particolarmente doloroso in quanto resterebbero invariati i salari reali, è comunque opportuno ricordare che l’attuale contesto dell’Eurozona è caratterizzato da tassi di inflazione prossimi allo zero, per cui le politiche di deflazione salariale (si veda Grafico_11) - all’interno della visione dell’austerità competitiva – possono condurre ad una situazione di deflazione. Un tale scenario di inflazione negativa, oltre ad accrescere l’onere reale del debito (con particolari tensioni sul sistema dell’intermediazione bancaria), potrebbe indurre gli agenti ad un maggiore risparmio, ovvero a posporre i consumi nell’attesa di prezzi via via inferiori. Per queste ragioni, l’austerità competitiva potrebbe ridurre la spesa per consumi presenti anche in assenza di effetti redistributivi: tale contenimento dei consumi, accompagnato a quello della spesa pubblica, avrebbe un impatto sulla domanda aggregata e pertanto sul prodotto complessivo - e sugli investimenti in quanto, come indicato in precedenza, possono considerarsi una variabile largamente indotta.
Grafico_11 - Fonte: Ameco, European Commission database
Tuttavia, il secondo caso appare essere più verosimile in quanto, ferme restando le implicazioni di un possibile scenario deflattivo sulla crescita, una riduzione di salari nominali e prezzi in misura equivalente e simultanea può avvenire solo nel caso di un’economia perfettamente concorrenziale, o all’opposto al seguito dell’intervento di un social planner. In breve, non vi è assicurazione circa il fatto che ad una riduzione dei salari nominali corrisponda un’equivalente riduzione dei prezzi: qualora l’effettiva diminuzione dei prezzi fosse minore dell’effettiva diminuzione dei salari nominali - ed in questo scenario risulterebbe anche confinato l’effetto “competitività di prezzo” - è verosimile si realizzi un aumento della quota profitti sul prodotto
complessivo. Oltre che nell’ordine di grandezza, il contenimento salariale potrebbe tuttavia non avere un impatto immediato sui prezzi78, ed un ritardo di trasmissione è comunque capace di modificare la distribuzione del reddito in favore dei profitti. In uno scenario di “aggiustamento imperfetto” (per via dell’ordine di grandezza o dei ritardi), la riduzione dei salari reali avrebbe un ulteriore effetto depressivo sull’economia, in quanto, in una prospettiva teorica alternativa in cui si considera la propensione al consumo dei percettori di profitto minore di quella dei percettori di salario [Kalecki, 1954;Kaldor, 1966a], la redistribuzione in favore dei profitti (si veda Grafico_12) è considerata capace di ridurre la domanda aggregata contraendo i consumi, e pertanto di causare una riduzione del reddito.
In estrema sintesi, è ragionevole asserire che parte degli effetti della riduzione dei salari sulla competitività di prezzo può non realizzarsi a causa delle rigidità del meccanismo di trasmissione: in questo scenario, compatibile con la riduzione dei salari reali, si registrerebbe un cambiamento nella distribuzione in favore dei profitti capace di generare una caduta della domanda aggregata79.
Grafico_12 - Fonte: Ameco, European Commission database
Inoltre, anche nel caso in cui i prezzi aggiustino perfettamente ai salari, in un regime wage-led la caduta della domanda interna potrebbe superare la crescita dell’export, con effetti negativi
78 Stando alle evidenze empiriche riportate nella Tabella_4, un simile fenomeno potrebbe essersi verificato nei Paesi
della periferia europea, dove la moderazione dei salari nominali non ha immediatamente impattato sulla dinamica dei prezzi. Inoltre, estendendo per l’Italia questa analisi al periodo precedente al 2009 (si veda Grafico_11), si osserva che i salari nominali sono cresciuti in misura minore rispetto ad altri Paesi della periferia europea.
79 Questo aspetto è stato anche considerato da Brancaccio [2011], secondo il quale, oltre all’effetto sul reddito dato dalla
sull’output complessivo [Stockhammer & Onaran, 2012]. Per giunta, la deflazione salariale avrebbe un effetto molto confinato (o nullo) qualora una simile strategia fosse adottata da tutti i Paesi dell’Eurozona: in quel caso, una disputa salariale a ribasso si tradurrebbe in un aumento generalizzato della disoccupazione dovuto alla contrazione generalizzata delle economie europee. Non a margine, la tesi per cui l’export sia un canale idoneo a sostenere la crescita di un Paese è criticabile alla luce dell’attuale condizione di debolezza della domanda globale.
In breve, sulla base di queste considerazioni critiche è possibile asserire che il concetto di austerità competitiva - legato alla visione economica dominante, basata sui principi neoliberali di
free trade, produzione orientata all’export, flessibilità dei mercati (specialmente quello del lavoro)
per facilitare il processo di svalutazione interna, contenimento dell’inflazione, depotenziamento delle regolamentazioni - faccia crucialmente riferimento alla moderazione salariale e alla riduzione della spesa sociale. In una prospettiva storica di più ampio respiro rispetto al caso dell’Eurozona, è possibile osservare che la crisi economica sperimentata dai Paesi occidentali duranti gli anni settanta abbia di fatto segnato la fine delle politiche occupazionali basate su argomentazioni di carattere keynesiano. Da allora, in gran parte delle economie capitaliste le questioni relative all’occupazione sono state basate su due precisi pilastri della teoria economica
mainstream: da un lato, il rafforzamento del ruolo del commercio, per mezzo dei processi di
integrazione economica e delle politiche supply-side; dall’altro, la riduzione dell’intervento statale nell’economia e la rimozione delle rigidità istituzionali80, che limiterebbero le forze di mercato e, salvaguardando il potere contrattuale dei lavoratori, non permetterebbero il raggiungimento del pieno impiego. Di conseguenza, i principali motori della crescita economica sarebbero da rintracciare nelle politiche di sostegno ai settori export-oriented e nell’apertura dei mercati. In questo contesto, non sembra risultare rilevante il ruolo delle politiche a sostegno della domanda interna, in quanto nel lungo periodo non sarebbero in grado di stimolare il prodotto complessivo, che dipende invece dalle dotazioni fattoriali e dalla tecnologia. Inoltre, in questa prospettiva la disoccupazione è considerata un fenomeno circoscritto al mercato del lavoro, risultante da un livello dei salari reali troppo elevato: l’indebolimento della contrattazione collettiva, combinata all’eliminazione dei disincentivi al lavoro, garantirebbe al mercato del lavoro quel livello di flessibilità tale da portare i salari reali al loro livello di equilibrio. Sempre in questa prospettiva, la riduzione del N.A.I.R.U. è compatibile con la stabilità dei prezzi, per cui le restrizioni fiscali e monetarie sarebbero strumenti necessari a promuovere il processo di disinflazione comprimendo sia i salari che la componente non salariale delle retribuzioni. In questo quadro, la riduzione della
80 Oltre alle presunte “rigidità istituzionali”, il settore pubblico è generalmente considerato meno efficiente di quello
privato per via dell’assenza dello scopo del profitto. Tale mancanza porterebbe allo spreco delle risorse, mentre le privatizzazioni sarebbero connesse ad un aumento del benessere collettivo.
domanda domestica - causata, oltre che dalla minore spesa pubblica, anche alla diminuzione della domanda per consumi da parte dei salariati - sarebbe compensata dall’aumento di quella estera.
Tuttavia, qualora tali strategie di crescita export-led - alle quali fanno riferimento le indicazioni dei policy maker dell’EMU - fossero adottate simultaneamente da tutte le economie di un’area commercialmente integrata (quale la zona dell’Euro), seguendo un’impostazione keynesiana l’austerità competitiva avrebbe solo l’effetto di aumentare la disoccupazione per effetto della contrazione dell’intera Eurozona. Dal punto di vista dei policy maker, le politiche di flessibilità del mercato del lavoro vengono invece considerate “necessarie” al fine di competere in un’economia sempre più globalizzata: in questa circostanza, è ragionevole ritenere che il termine “competere” non includa tuttavia la capacità di preservare l’occupazione domestica. Stando ai dati, è infatti possibile osservare che una cospicua parte del commercio estero dei Paesi europei riguarda flussi intra-Eurozona, e proprio per questo motivo risulta ancora più critico generalizzare un modello di crescita trainato dalle esportazioni: qualora dei Paesi registrassero dei surplus commerciali, ciò implicherebbe uno scenario in cui altre economie registrerebbero dei deficit esterni. Pertanto, analizzando l’attuale scenario europeo da una prospettiva keynesiana, le politiche di moderazione salariale - combinate all’austerità fiscale - risulterebbero tali da generare una carenza diffusa di domanda aggregata, che si tradurrebbe in una contrazione dell’area dell’Euro nel suo complesso.
È altresì possibile asserire che le misure di contenimento della dinamica dei salari nei Paesi in deficit - volte ridurre la competitività dei Paesi core - rappresentino un tentativo di migliorare la competitività della periferia europea nonostante tali politiche siano state attuate negli anni passati dagli attuali Paesi in surplus: tramite queste misure i problemi relativi all’occupazione sono stati di fatto scaricati alle economie periferiche, che si vedono attualmente costrette ad abbassare i salari per colmare il differenziale di competitività. A riguardo, è interessante notare come la stessa Germania, al seguito di una decade caratterizzata da bassa crescita reale ed elevata disoccupazione (9.7% nel 1997), abbia deciso di adottare delle strategie di politica economica volte a promuovere degli accordi tra imprese e sindacati - come sostenuto da Brancaccio [2011] - per moderare la dinamica salariale. Nella prima decade del nuovo millennio i salari nominali tedeschi sono cresciuti meno di quanto fossero cresciuti nei periodi precedenti, e, come evidenziato nelle precedenti sezioni, in misura minore degli altri Paesi Eurozona: di conseguenza, le imprese tedesche sono diventate più competitive e non sorprendentemente la Germania ha fatto registrare un notevole cambiamento del proprio saldo di conto corrente81. In altri termini, il surplus tedesco si è di fatto tradotto in problemi occupazionali per i Paesi periferici, in quanto a causa dell’unione monetaria parte della disoccupazione tedesca è stata trasferita ai Paesi
periferici82. A riguardo, i GIIPS sono stati costretti a rispondere a tale deliberata scelta di politica economica della Germania per mezzo di politiche di moderazione salariale (si veda Grafico_11). In questo contesto, è ragionevole asserire che l’austerità non significhi solo “consolidamento”, ma piuttosto scaricare sui lavoratori l’onere dell’aggiustamento, in quanto il problema principale dell’austerità competitiva è che qualsiasi vantaggio in termini di competitività ottenuto temporaneamente da un Paese - tramite deflazione salariale - tende sistematicamente a scomparire non appena i Paesi concorrenti adottano le stesse strategie, con il risultato finale di alimentare la disoccupazione. Infatti, per effetto dell’assenza di restrizioni al libero commercio (combinate al tasso di cambio fisso), all’interno di un’area integrata come l’Eurozona una riduzione della domanda domestica di un Paese può avere conseguenze sui livelli di occupazione anche all’estero: l’austerità diventa pertanto competitiva in quanto i guadagni occupazionali ottenuti da un’economia per mezzo di politiche mercantiliste sono ottenuti a spese di perdite occupazionali nei sistemi economici concorrenti83. È quindi possibile considerare le politiche di austerità come delle politiche beggar-thy-neighbour, connesse al fatto che la perdita di sovranità fiscale e monetaria non permette ai Paesi di attuare quelle misure di politica economica capaci di agire sulle causa principale della disoccupazione, ovvero la carenza di domanda aggregata causata dalle politiche restrittive implementate anche in altri Paesi dell’unione monetaria.
Seguendo le argomentazioni critiche finora riportate, è possibile considerare come opinabile la visione puramente neoclassica di squilibri “virtuosi” e “temporanei” [Blanchard & Giavazzi, 2002]. Stando infatti alle considerazioni di carattere mainstream, i Paesi in disavanzo dovrebbero correggere gli squilibri tramite la riduzione dei salari e della spesa pubblica: tuttavia, sulla base di impostazioni economiche alternative tali politiche si traducono - anche dal punto di vista delle evidenze empiriche - in un contenimento della domanda aggregata84. Ciononostante, i policy maker
82 L’attuale dibattito economico su questo tema è incentrato su una precisa questione: è l’Eurozona da considerarsi
un’area valutaria ottimale (AVO)? Stando alla definizione di Mundell [1968], “an essential ingredient of a common currency area is a high degree of factor mobility”. È possibile asserire che l’Eurozona non sia un’AVO in quanto non sembra un sistema totalmente integrato dal punto di vista del mercato del lavoro (differenti legislazioni e regimi di protezione del lavoro, oltre che varietà culturali e linguistiche): a differenza di quanto accade per la mobilità del capitale (incentivata dall’assenza del rischio di cambio), quella del lavoro non è di fatto pienamente realizzata. Di conseguenza, gli squilibri commerciali possono impattare sui livelli occupazionali e causare processi di aggiustamento salariale.
83 A riguardo, si riporta un interessante passaggio di Keynes [1936]: “…if nations can learn to provide themselves with full
employment by their domestic policy (…), there need be no important economic forces calculated to set the interest of one country against that of its neighbours. There would still be room for the international division of labour and for international lending in appropriate conditions. But there would no longer be a pressing motive why one country need force its wares on another or repulse the offerings of its neighbour, not because this was necessary to enable it to pay for what it wished to purchase, but with the express object of upsetting the equilibrium of payments so as to develop a balance of trade in its own favour. International trade would cease to be what it is, namely, a desperate expedient to maintain employment at home by forcing sales on foreign markets and restricting purchases, which, if successful, will merely shift the problem of unemployment to the neighbour which is worsted in the struggle”.
84 Sottolineando il fatto che i policy maker dell’Eurozona prendano in considerazione i salari solo come fattore di costo e
della zona Euro hanno continuato (e continuano tuttora) ad imporre ai Paesi in deficit, oltre alle restrizioni fiscali, una serie di riforme istituzionali - specialmente, per quanto concerne il mercato del lavoro - che tuttavia non hanno avuto effetti positivi in termini di crescita reale, ma hanno piuttosto alimentato la recessione economica. Tali riforme hanno inoltre aumentato la diseguaglianza, ridisegnando profondamente - in modo regressivo [Stirati, 2012] - l’assetto sociale, la distribuzione del reddito e il welfare: le attuali politiche di austerità competitiva sono infatti in grado di aumentare la diseguaglianza sociale sia a causa dei processi di privatizzazione nei settori di interesse sociale, sia a causa dei maggiori livelli di disoccupazione combinati alla minore spesa sociale, vincolata dalle restrizioni fiscali. Per tali ragioni, l’austerità competitiva sembra essere stata principalmente un attacco ai salari, alla spesa sociale e alla proprietà pubblica: come sostenuto da Busch & al. [2013], “the EU’s anti-crisis policies are accompanied - especially in Southern
Europe - by harsh austerity policies, bringing in their wake growing unemployment, falling real wages, cuts in the social security system and privatization of public property”. Inoltre, i Paesi in deficit hanno
assistito al collasso economico di gran parte delle imprese domestiche, mentre altre sono state costrette a processi di acquisizione internazionale85 (che incentivano solo i processi di concentrazione) o a ridisegnarsi come sub-fornitori.
Infine, un processo di deflazione salariale potrebbe avere conseguenze molto problematiche se sperimentato nei Paesi che mostrano un elevato livello di debito pubblico o privato.