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Associazione Spiazziverd

3.  Conflitti ambientali

3.2 Cittadinanza attiva a Venezia 

3.2.2   Associazione Spiazziverd

Passando   dall'acqua   alla   terra   approdiamo   all'isola   della   Giudecca. Portiamo indietro il calendario al pomeriggio cocente del 6 Luglio 2015. Un sole limpido avvolge la quiete dell'isola. Pochi passi, tante cicale, rari vocii, dolci fluttui d'acqua. In zona Zitelle, alla Giudecca, sembra non esserci lo svolgersi frettoloso del tempo. All'ombra di un portico una lieve brezza mi dà un po' di sollievo. Teli mare sgargianti si asciugano appesi fuori dalle finestre, stagliandosi sul colore rosa cupo, a volte ocra spento, dei condomini. Tra Calle de l'asilo Mason e Calle del gran, sulla parete di un cantiere, uno spray rosso vivo annuncia «9 MAGGIO 15.30h CAMPO S. MARGHE CORTEO XLACASA».

Altre   scritte,   rosse   e   verdi,   esigono   «LE  CASE  A  CHI  NE  HA  BISOGNO»,   «SI ALL'AUTORECUPERO!». Ritorno con i ricordi al 9 Maggio 2015. Quel giorno si  è

tenuto un corteo indetto dal comitato No Grandi Navi ­ Laguna bene comune, a cui ho dedicato qualche riga nel capitolo 3.2.1., ma ritorniamo al 6 Luglio.

Proseguo il mio cammino. Devo trovare la Casa di riposo IRE. Ho scoperto che   all'interno   di   questa   proprietà   c'è   qualcosa   di   davvero   particolare,   poco pubblicizzata,   a   me   affatto   nota.   Si   tratta   di   un   orto   urbano,   in   gestione all'associazione Spiazziverdi, il cui canale di comunicazione prediletto è il blog

http://spiazziverdi.blogspot.it/.   Nella   sezione   “dove,   quando,   cosa”,   si   può conoscere l'intento e lo spirito con cui questo progetto368 è iniziato e si evolve. Agosto 2015, mi fa notare che una stima degli introiti derivanti dal turismo crocieristico a Venezia è difficile da eseguire. Lo esemplifica il prof. Giuseppe Tattara in  É solo la punta dell’iceberg! Costi e ricavi del crocierismo a Venezia, la sua nota di lavoro del 27 Marzo 2013. Scrive a p.14: «A livello comunale, l’attivazione da parte della domanda, di un indotto locale, è pressoché nulla, considerata anche la struttura concentrata e verticalmente integrata delle compagnie crocieristiche[...]», ovvero la compagnia crea diverse unità logistiche interne che offrono servizi (riparazione, ristorazione, escursioni...) abbattendo i costi di fornitura. A p.18 sintetizza che «il vantaggio per il paese dove c’è il porto è dato quasi esclusivamente dagli oneri portuali, dalle spese legate al servizio passeggeri e dalle spese dei crocieristi a terra», per Venezia significano 290milioni di euro, che rappresentano solo 1,9% del PIL locale. 368«Spiazzi Verdi è nata... dai desideri e dalla volontà di diversi cittadini veneziani, uniti nella convinzione dell'importanza di ricostruire relazioni dirette con il verde nel contesto urbano, per contribuire alla riqualificazione dello spazio naturale e sociale vivente. E' una ricerca

Trovata  la  residenza  per  anziani,  suono  il  campanello.  Un  cancello  di ferro si sblocca, e una porta automatizzata scorrevole si apre. Varco la soglia della guardiola e finalmente approdo alla meta. Sulla destra vi è il cammino che porta alla casa di riposo, e sulla sinistra solo un gran verde. Tra l'erba rigogliosa, piuttosto alta, scorgo già dei filari di vigneto. Una porta di legno verde attira il mio   sguardo.   È   spalancata,   e   lascia   intravedere   alcuni   arnesi.   Quello   è sicuramente il magazzino.

Sembra   non   esserci   nessuno,   e titubante   mi   avvio   oltre   al   vigneto.   Un intenso   profumo   di   finocchio   selvatico pervade   l'aria.   Poi   scorgo   piante   di rosmarino,   zucchine,   qualche   papavero, pomodori,   cavoli...   Un   orto   dall'aspetto naturale, un po' selvatico, e che in sé ha un   tasso   di   biodiversità   altissimo.   A

movimentare   il   sentiero   mangiato   dalla   vegetazione,   ci   pensano   intrepide lucertole, che scattanti un po' si allontanano e un po' mi accompagnano, fino al termine del percorso. In lontananza, scorgo qualcuno all'ombra di teli bianchi e di un albero di fichi. Mi avvicino. È slanciato, in cappellino e pantaloncini, un po' provato dall'arsura e dalla stanchezza, e ha una vanga in mano. Michele Savorgnano coltiva la terra, «non le piante», si affretta a specificare. Perché è la terra il nutrimento stesso dei vegetali,   mi   spiega.   Ha   uno   sguardo   deciso,   così   come   decise   sono   le   sue convinzioni.   Ha   fatto   molti   lavori   e   grazie   a   questo   ha   acquisito   varie conoscenze. Ma sei anni fa tutto è cambiato, da quando ha deciso di dare vita a sulla ricucitura delle scissioni sempre più accentuate della vita urbana, della frattura fra città e natura, fra produttori e consumatori, fra individui e società... Ci siamo mossi con l'idea che la cura del bene comune è la strada più efficace e piacevole per creare le condizioni di un benessere allo stesso tempo personale e collettivo. Un approccio che ritiene essenziale il riconoscimento, la salvaguardia e la promozione della biodiversità sia naturale che sociale. Crediamo   che   questo   sia   possibile   soltanto   se   si   recupera   un   patrimonio   di   conoscenze storiche e tradizionali rendendole attive e positive nel contemporaneo».

Fig. 20 Insegna dell'Orto delle Zitelle, 6 Luglio 2015. Foto dell'autrice

questo progetto: un orto urbano pubblico, su suolo pubblico, a partecipazione pubblica. Un orto collettivo. Ma non solo. Non un semplice campo da arare a turno,   ma   un   luogo   in   cui   le   persone   più   diverse,   con   i   motivi   più   diversi, desiderano imparare, scambiare conoscenza, fare esperienza comune, costruire una   rete   sociale,   utilizzando   la   risorsa   ambientale   prendendosene   cura   e rispettandone la naturalità, nelle caratteristiche e nei tempi.

La   terra,   la   campagna,   lui   la   conosce   perché   è   friulano,   ma   è   anche veneziano perché abita sull'isola da metà della sua vita. «Vivo qui, allora coltivo qui. Comunque nella laguna già in antichità si coltivava», mi spiega, e aggiunge che proprio la Giudecca era composta da «campi e mucche». «Il palazzo dove vivo è degli anni '80», conferma Matteo, un giovane collaboratore saltuario, che sta aiutando Michele ad allestire la veranda. «Qui c'era un macello stamattina», scherza Michele allargando le braccia, richiamando la mia attenzione a quella parvenza d'ordine fatta di erbe, piante e arnesi. La veranda servirà ad accogliere alcune piante, per farle completamente seccare   all'ombra.   I   semi   cadranno   su   di   un   telo,   e   in   questo   modo   i   semi verranno   selezionati   per   la   generazione   futura.   Si   tratta   di  «coltivazione naturale», tiene a precisare Michele, non  biologica, perché  «“biologico”  è  un

copyright».   Niente   fertilizzanti,   niente   pesticidi.   Solo   tanto   lavoro.   «Bisogna

tenere conto del costo nascosto del petrolio», mette in guardia.   Molto indaffarato per far spazio in quella porzione di terreno, solleva una pietra, e salta fuori la sorpresa: un rospo. Un rospo prezioso perché si nutre di insetti che, altrimenti, attaccherebbero le coltivazioni. Poco più in là, un'altra amica dell'ortolano. Una lucertola particolarmente sprezzante si lancia di pancia da un muro in mattoni alto più di due metri, atterrando in un soffice e rigoglioso letto di basilico. «Ci sono dodici tipi di basilico», mi informa Michele facendo cenno alla sua coltivazione. «Assaggia assaggia, annusa» mi invita, ancora una volta rinforzando quell'attenzione alla concretezza dell'esperienza. Così colgo il suo invito, ma non volendo abusare della sua cortesia, stacco solo una piccola

foglia dalla pianta di basilico che più mi incuriosiva. Profuma di basilico e anice assieme,   ed   al   gusto   richiama   a   qualche   essenza   di   liquirizia   e   finocchio.   È basilico rosso, non l'avevo mai visto.

Dunque, rospo e lucertola forse rientrano nell'ottica della lotta integrata? «No,   naturale.   Perché   la   lotta   integrata   è   chimica,   e   solo   in   parte   vengono utilizzati gli insetti». Prende due respiri mentre rastrella il terreno, e prosegue «Ti piace la parola “lotta”?». Rispondo istintivamente di no. Michele fa un lieve sorriso, e torna a rastrellare. «Se si chiama lotta, vuol dire che c'è un conflitto contro qualcosa. Uno scontro. Bisogna sapere il significato delle parole...».

Vivere   con   e   della   natura,   significa   in   effetti   ben   altro.   Non   significa lottare per il dominio, ma non significa nemmeno non intervenire nei fattori ambientali.   Coltivare   la   terra   «è   un'esigenza   dell'uomo»369,   afferma   Michele.

Un'esigenza però, che hanno in quanti? E quanti veneziani prendono parte a questo progetto? In realtà ben pochi, mi spiega. I veneziani non hanno mai avuto campagne, dunque, «non può mancarti qualcosa che non hai mai avuto». Chi partecipa all'associazione viene da molte zone del Veneto (Treviso e Vicenza ad esempio), del Friuli Venezia Giulia, ma c'è anche una siciliana e un'americana. Con rammarico e una nota indispettita, mi confida che in realtà sono molte le persone che si sono affidate a lui per imparare gratuitamente, facendogli perdere tempo ritirandosi. Anche persone che non hanno mai avuto un rapporto con la terra si sono avvicinate incuriosite, ma queste sono le più titubanti e spesso le prime a lasciare. «Alcune persone hanno paura di fare questo lavoro, perché non conoscono la terra. E quando non conosci, temi». Per quanto riguarda il futuro «non ho grandi ambizioni. Ho più anni di te, 369Ne scrive con convinzione la fisica e ambientalista indiana Vandana Shiva, in  Ritorno alla

terra.   La   fine   dell'ecoimperialismo,   del   2009,   Roma,   Fazi   Editore,   pp.176­176:   «Abbiamo

bisogno di un'alternativa. […] Il sistema alimentare industrializzato e globalizzato è fondato sul petrolio; i sistemi alimentari locali, biologici e biodiversi sul terreno vivente. Il sistema industrializzato crea prodotti di scarto e inquinamento; l'agricoltura vivente non crea rifiuti. Il sistema industrializzato si basa sulla monocoltura; quelli sostenibili sulla diversità». Ne deriva «[...] la difesa della biodiversità, la riduzione dell'impatto del cambiamento climatico e la diminuzione della povertà».

e so che il mondo non cambia dall'oggi al domani. Non è che se io mi metto a coltivare la terra, tutti si metteranno a farlo». In effetti, in sei anni, il numero delle persone coinvolte nella cura dell'orto è diminuita, a discapito della maggior estensione di terreno coltivato. «Perché riesco a seguirlo io a tempo pieno», mi leva   il   dubbio   Michele.   Nonostante   questo,   l'ortolano   crede   fortemente   nel cambiamento, del resto la sua modalità di vita ne è un esempio. 

Sebbene l'inizio da amatore, ora Michele si definisce professionista, anche se ­ come dice ­ ha ancora molto da imparare. Ma quello che la terra gli ha insegnato, è il saper aspettare. Non avere fretta, e non preoccuparsi se le idee non  sono  ancora  chiare,   «è  meglio   aspettare   anche  qualche  anno,   per   avere un'idea chiara e conoscere i propri obiettivi. Se hai le basi stabili sai anche cos'è giusto e cosa non lo è». Dunque, per ora, è bene non avere troppa pubblicità e troppa attenzione, visto che le idee vanno sapute coltivare giorno per giorno.

Ha   ricevuto   molte   proposte   per   rendere   più   “imprenditoriale”   la   sua iniziativa  e legarla così  alla «monocoltura del turismo».  Ma,  fino  ad  ora,  ha rifiutato ogni proposta, ritenendo che già solo il calpestio «di cinquanta persone al giorno rovinerebbero la terra». In effetti, per motivi logistici e di sicurezza, per entrare nell'orto è redatta ogni giorno una lista in cui sono elencate le persone che hanno ricevuto il permesso di accedervi per prendersene cura. Nel futuro vede una scuola, pratica, «non un corso», sottolinea. «Dove ogni giorno impari qualcosa con l'esperienza. E dove non sono io a insegnare, ma ognuno con le proprie conoscenze può insegnare a tutti». Grazie a quest'orto, che preferirebbe chiamare “giardino”, non solo gli  è consentito di vivere con l'autoproduzione,   ma   anche   di   vendita.   Il   surplus,   e   in   particolare   erbe aromatiche   e   fiori   commestibili,   vengono   venduti   ai   ristoranti   veneziani.   Un rapporto di fiducia si è instaurato tra venditore e acquirenti. Basti pensare che i menù di alcuni ristoranti vengono basati sul tipo, sulla quantità, e sull'offerta temporale delle coltivazioni disponibili. O, ancora, molti acquirenti, visitando l'orto­giardino, chiedono consiglio su quale erba aromatica o fiore commestibile

potrebbe   fare   al   caso   per   una   determinata   pietanza.   «Non   ho   cartellini   da timbrare».   E   con   un   accenno   di   fiato   corto   e   molta   soddisfazione,   proclama serenamente «sono libero».

Michele Savorgnano non è il solo ortolano a pensarla così. Se facciamo un salto   a   nord,   sull'isola   di   Sant'Erasmo,   scopriamo   infatti   un   altro   scorcio   di agricoltura veneziana. Qui, nei primi anni del 2000, un gruppo di produttori che credeva fortemente in una delle coltivazioni tipiche veneziane (in questo caso importata dalla comunità ebraica): il carciofo violetto. Il gruppo si è impegnato a promuoverne la conoscenza sia nella località che al di fuori. Così, nel 2002, il luogo di produzione è stato eletto a presidio  slow food, che garantisce  «[...] di sostenere   le   piccole   produzioni   eccellenti   che   rischiano   di   scomparire, valorizzano territori, recuperano mestieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvano dall'estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta»370.

Passano   due   anni,   e   nel   2004   il   gruppo   di   dodici   coltivatori   costituisce ufficialmente il Consorzio del Carciofo Violetto di Sant'Erasmo. Un carciofo tanto speciale   da   prendere   il   nome   dell'isola   su   cui   viene   coltivato,   e   si contraddistingue per essere «tenero, carnoso, spinoso e di forma allungata»371 e con «le brattee color violetto cupo»372. Ancora una volta si dimostra come il legame genuino tra uomo e terra sia indispensabile per il mantenimento della produzione locale e sostenibile. Una produzione di qualità, che rispetti i tempi della natura e che possa dall'impegno comune, rinsaldare quei legami comunitari che mantengono vivo un territorio. 3.2.3  Associazione Poveglia per tutti Dall'isola di Sant'Erasmo navighiamo verso il Lido, e ci imbattiamo nel caso dell'isola di Poveglia. La questione generale entro cui inquadrare il problema di Poveglia è la 370http://www.carciofosanterasmo.it/it/consorzio/il­consorzio.html 371http://www.fondazioneslowfood.com/it/presidi­slow­food/carciofo­violetto­di­santerasmo/ 372Ibidem

svendita di Venezia: siano essi edifici come ville storiche, siano esse veri e propri porzioni di territorio, come le isole di Santo Spirito e di San Clemente in mano alla privatizzazione. Una di queste isole messe all'asta dal demanio è, appunto, l'isola  di   Poveglia.   L'isola  era   abitata  già  dalle   prime   invasioni   barbariche,   e «nell’anno Mille contava un castello e circa 800 abitazioni, più vigne, frutteti e saline»373. In seguito al conflitto con la repubblica marinara genovese, nel XIV

secolo diventò una postazione bellica fortificata, in seguito un porto in cui far trascorrere   la   quarantena   alle   navi   dirette   a   Venezia,   successivamente   un lazzareto per ammalati di peste, ed infine una residenza per anziani – chiusa nel 1968. Con la chiusura della casa di riposo, si ebbe il totale abbandono dell'isola, su   cui   gli   antichi   relitti   testimoniano   quel   passato   di   cui   ancora   c'è   qualche traccia.

Alla notizia della messa all'asta pubblica dell'isola, alcuni residenti non ci stanno. Indignati per l'ennesima svendita, quasi per scherzo nel bar La Palanca (che poi diventerà la sede dell'associazione) decidono di fare una colletta per comprare   l'isola.   Il   passo   dalla   goliardia   alla   serietà   è   breve.   Per   poter partecipare realmente all'asta, occorre una cauzione di 20mila euro. Detto, fatto. In pochi giorni i residenti riescono a racimolare la somma, e si costituiscono ad associazione. Lo scopo è ben determinato: acquisire la concessione dell'isola per adibirla a parco pubblico, perché Poveglia è di tutti. Come dice Flavia Antonini, membro dell'associazione «Non per l'idea di acquistare in sé, perché non voglio acquistare proprio niente. Ma per l'idea che l'isola rimanesse alla città».374 I consensi all'iniziativa aumentano sempre di più, e l'associazione Poveglia per   tutti   riesce   a   proporre   un   offerta   di   circa   160mila   euro   alla   scadenza dell'asta, il 6 Maggio 2014. «In 40 giorni abbiamo raccolto 450 mila euro, e raggiunto più di 4.300 associati, che sono il nostro vero patrimonio»375. Una cifra notevole, ma che non basta a vincere l'asta. Infatti, un privato che non aveva 373http://www.corriere.it/reportage/cronache/2014/venezia­e­la­maledizione­delle­isole­ svendute/ 374https://www.youtube.com/watch?v=H3Tt4A9_5bM 375Ibidem

voluto   rendere   note   le   sue   credenziali,   aveva   proposto   un'unica   offerta   di 516mila euro, aggiudicandosi la vittoria. In seguito si scoprirà che si trattava di un imprenditore di successo, membro del direttivo di Confindustria di Venezia, fondatore   dell'agenzia   interinale   Umana   spa,   e   proprietario   della   squadra   di basket Reyer. Ovvero il futuro sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. Ma l'asta venne   annullata,   in   quanto   la   Commissione   del   Demanio   non   ha   ritenuto congrua   l'offerta   vincitrice.   A   questo   punto,   Brugnaro   ricorrerà   al   TAR   per opporsi all'annullamento dell'asta.

Nel   frattempo,   l'associazione   si   è   dotata   di   un   sito376,   una   pagina

Facebook377, ha proposto un progetto no­profit ed eco­compatibile per ripristinare l'isola378, e nonostante le difficoltà organizzative è riuscita il 21 Giugno 2015 ad animare l'isola con  la Sagranòmala, «anomala perchè occorre che tutti capiscano che se si va su un'isola disabitata ci si porta almeno da mangiare e da bere al sacco...»379. Una giornata auto­organizzata che ha previsto all'inizio operazioni di pulizia e cura dell'isola, e la predisposizione di sedie, tavoli, teli, eccetera. In seguito   ha   previsto   letture,   concerti,   giochi,   teatro,   pranzo   e   cena   (tutto   al sacco),   e   si   è   conclusa   con   le   iniziali   opere   di   pulizia   e   disallestimento, proseguite  nei giorni  a seguire.  Sempre all'interno della stessa giornata, si  è tenuta   la   premiazione   del   concorso  Un   racconto   per   Poveglia,   «[...]  breve   o brevissimo, serio­comico­surreale­fantastico­assurdo, ecc… Aperto a tutti»380, che

prevedeva al primo premio un cartone animato sulla storia narrata, al secondo premio una cassetta di carciofi, al terzo premio una cassetta senza carciofi. Come si   può   notare,   lo   spirito   goliardico   dell'associazione   è   ancora   vivo,   come   la determinazione di far restare Poveglia un'isola di tutti e per tutti.

376http://www.povegliapertutti.org/wp/ 377https://it­it.facebook.com/povegliapertutti

378Rientra   tra   i   40   progetti   finalisti   di  Che   Fare!,   terza   edizione,   la   costituzione   di   un MemoAtlante.

379Post nel profilo Facebook del 16 Giugno 2015

4. Conclusioni

 Il panorama di associazioni e comitati con interesse in ambito ambientale a   Venezia   è   fondamentalmente   eterogeneo,   costellato   da   elementi   che   si distinguono   per   multi­tematicità,   organizzazione   e   composizione.   Tuttavia,   è possibile scorgere degli aspetti generali comuni in associazioni e comitati.

Innanzitutto,  unicità  e  irripetibilità  caratterizzano   ogni associazione e comitato, in quanto vengono creati e si evolvono da persone diverse, in diversi momenti   storico­politici,   in   diversi   contesti   geografico­culturali.   Nonostante queste   differenze,   alla   generazione   dei  grassoroots   movements,   sottende un'originaria  sensibilità  nei   confronti   del   territorio   e   del   paesaggio,   i   quali vengono   percepiti   come   collettivamente   propri,   e   sui   quali   si   pretendere   di ottenere  giustizia  secondo   principi   democratici.   A   questo,   spesso   è   unita   la percezione del rischio (o l'attestazione del danno già verificatosi) che incombe  sull'ambiente. L'assenza o la scarsità di azione informativa attribuita alle autorità, unita al mancato coinvolgimento della cittadinanza nei processi decisionali, non fa che scaturire una frattura tra policy e società, soprattutto nei casi di trasformazioni ambientali­paesaggistiche imponenti, e conseguenti a decisioni top­down, ovvero decisioni   manchevoli   di   partecipate   pubblica.  Dunque,   all'origine   della formazione di associazioni e comitati vi è una contestazione di fondo. L'oggetto, o   gli   oggetti,   del   contendere   possono   includere   il   territorio,   il   paesaggio   o l'ambiente naturale. In questo caso l'opposizione viene a porsi contro le autorità pubbliche   e/o   gli   enti   privati   che   si   ritiene   abbiano   potere   decisionale   sul problema. Non è – o non è solo – una questione di preferenza politica. Infatti le associazioni e i comitati qui trattati, sono composti da cittadinanza che si attiva per mobilitazioni pubbliche, formando movimenti politici dal basso apartitici.

Credere con determinazione nella propria causa e avere fiducia nel potersi contraddistinguere come agente di cambiamento, sono entrambi atteggiamenti imprescindibili  per   confidare   nella   propria   efficacia,   affrontare   gli   ostacoli,   e

mantenere in modo continuativo l'impegno necessario al raggiungimento degli obbiettivi auspicati. Infatti, la partecipazione attiva in un  grassroot movement non consiste solo in attività di mobilitazione e di informazione, ma presuppone una scrupolosa e incessante attività di ricerca comune, per comprendere in modo neutrale e disincantato le origini del problema che si vuole affrontare, la sua evoluzione   e   le   soluzioni   applicabili.   L'attività   di  social   learning  è   sempre supportata   dalla   collaborazione   con   esperti   tecnico­scientifici.   Ad   esempio   il Comitato No Grandi Navi ha collaborato con l'associazione tedesca Nabu, con ex commissari VIA/VAS, con docenti universitari; mentre il Comitato Allagati di Favaro con l'ing. Pattaro e altri professionisti.

Dalla   conoscenza   del   problema   specifico,   sorge381  l'esigenza   di

contestualizzare la propria causa in un quadro più ampio, a cui si crede che la