Nel '900, come premesso, si assisté a un netto cambiamento di paradigma: nei tempi antichi, durante la Serenissima Repubblica, l'intervento antropico – anche a causa delle teorie e delle tecnologie incomparabilmente diverse da quelle moderne ed odierne – operava per il bene della collettività entro i limiti massimi di resilienza ambientale, nonostante tutto promuovendo la salvaguardia142 della laguna. Con il secolo appena passato, per contrasto, la
141Mi baso su Rossi G. (a cura di), Diritto dell'ambiente, Torino, Giappichelli Editore, 2011, pp. 4650
142Come scrive Ivone Cacciavillani in La tutela dell'ambiente nella Serenissima, Venezia, Corbo e Fiore Editore, 2006, p.10: «Risponde ad un luogo abbastanza comune attribuire alla legislazione della Serenissima Repubblica di Venezia una grandissima modernità, intesa nel senso di persistente validità delle scelte da essa operate. Si tratta spesso di valutazione
centralità va affidata ad un interventismo smodato e poco scrupoloso, che ritiene le necessità antropiche superiori rispetto a quelle naturali dell'ambiente, senza rispettarne i limiti di resilienza. E ritengo non sia un caso se in contesti di sfruttamento ambientale, la perdita dei luoghi comporti la diffusione di una nuova sensibilità nei confronti dell'ambiente stesso. Del resto «il senso del luogo tende a rafforzarsi quando sente di essere minacciato»143. Oltretutto, in concomitanza a questo nuovo
sentire etico, vi è spesso l'insorgenza di movimenti ed associazioni che rivendicano la natura ed il paesaggio come beni comuni intrinsecamente degni di tutela. Lo si apprezza nel Veneto, che conta almeno 49 conflitti territoriali144 e
svariati conflitti ambientali145.
Ma per meglio comprendere le trasformazioni riguardanti la laguna veneziana e la sua terraferma in tempi recenti, è necessario ampliare il nostro sguardo ed osservare il grande cambiamento che ha coinvolto in generale l'entroterra veneto146. Una terraferma assimilabile a quel «compendio
dell'Universo»147 che Ippolito Nievo scorgeva in Friuli Venezia Giulia. Il Veneto,
abbastanza corretta, ma che nella tematica qui esaminata non può certo essere affermata. Una preoccupazione ecologica – nel significato oggi dato al termine, di cura e dell'ecosistema, quel complesso di fattori geografici, ambientali ed umani che costituiscono l'habitat dell'uomo su un territorio – non è rinvenibile nella legislazione veneziana. Peraltro lo stesso ricercarvela non potrebbe che essere ozioso, tanto anacronistico sarebbe ogni tentativo anche solo di individuarne qualche elemento». 143Massey D., Jess P., Luoghi, culture...op. cit., p.74 144http://www.atlanteconflittiveneto.it/ (ultima consultazione 21 Agosto 2015) Cfr. Varotto M., “Geografie del declino civico?”, in Rivista Geografica Italiana, n.1 (2012), pp.4358 145http://atlanteitaliano.cdca.it/regione/veneto (ultima consultazione 21 Agosto 2015) 146Per la ricostruzione storica del mutamento del paesaggio veneto mi avvalgo di: De Lucia V., “La crisi della condizione urbana e il decadimento della pianificazione territoriale”, in Ortalli G. (a cura di), Le trasformazioni dei paesaggi e il caso veneto, Bologna, Il Mulino, 2010, pp.85 94; Vallerani F., “Paesaggio postpalladiano tra utilitarismo privato e eticità dei beni comuni”, in Ortalli G. (a cura di), op. cit, pp.95113; Luciani D., “Il caso veneto. Lunga durata e carichi di rottura nella forma e nella vita dei luoghi”, in Ortalli G. (a cura di), op. cit., pp. 115129; Favero M. (a cura di), Ripensare il Veneto, Venezia, Regione del Veneto, 2006; appunti tratti dal convegno L’impronta del lavoro diffuso nel paesaggio del Nordest, 67 Maggio 2015, Venezia; Davico L., Mela A., “Cause e caratteri della diffusione urbana in Italia settentrionale”, in Detragiache A. (a cura di), Dalla città diffusa alla città diramata, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 6265
infatti, può vantare una mutevole e ricca realtà morfologica e climatica che si rincorre in 18.408 km², racchiudendo in ben otto fasce geografiche (litorale sabbioso, lagune, bassa pianura, fascia delle risorgive, alta pianura, collina, fascia prealpina, fascia alpina)148 l'alta concentrazione di ecosistemi e
biodiversità presenti «dalle coste del Mediterraneo al Circolo Polare Artico»149.
Già dando un rapido sguardo, ci accorgiamo che nell'area pianeggiante (Fig.11), in effetti, le massive opere di urbanizzazione e di costruzione industriale susseguitesi dal secondo dopoguerra in poi, hanno tramutato e segnato profondamente il territorio di pianura.
Nel trentennio 19471977 è avvenuto un profondo riesame delle politiche urbanistiche, che ha generato un insieme di riforme legislative riguardanti primariamente l'edilizia popolare e le norme di sicurezza degli stabili. Il secondo trentennio, 19772007, ha visto invece la tendenza opposta, come emerge dall'approvazione di tre condoni edilizi (1985, 1994, 2003), i quali direttamente o indirettamente hanno corroso e svalutato l'importanza della pianificazione territoriale degli albori. La cattiva gestione del territorio ha fatto sì che, soprattutto dagli anni '60 in poi, il consumo del suolo in Veneto come nel resto d'Italia accrescesse senza freni. Nel 1957 infatti il Governo Italiano, per agevolare lo sviluppo economico, finanziò l'espansione urbanistica, ma senza regolamentarla. Come racconta il sig. Zabeo, riferendosi al suo quartiere di residenza a Favaro Veneto: FZ: «[…] questa è la zona più vecchia di Favaro, una delle prime zone urbanizzate. I primi campi, diciamo, di qualcuno che conosceva qualche costruttore. Perché anche la cementificazione nasce un po' così, eh? “Dai, che facciamo di questi lotti di terra? Tanto tu lavori a Marghera, non te ne fai niente, non riesci più a tenerli, cominciamo l'avventura”.»150
Altresì, gli incentivi economici vennero impiegati per generare quella rigogliosa sorgente di piccolemedie imprese che fece guadagnare al Veneto una
148Zanetti M., “Paesaggi umanizzati e naturalità: il compromesso possibile”, in Favero M. (a cura di), Ripensare...op. cit., pp. 4849
149Ibidem, p.49
fase produttiva particolarmente florida, e passata alla storia come il “miracolo economico”.
In questo periodo di avviata ripresa postbellica, con l'aumentare della popolazione vi fu di pari passo l'esigenza di creare nuove infrastrutture abitative e produttive, ma tali sviluppi procedettero con una tendenza originale rispetto al resto d'Italia. Queste zone industriali ed urbane assieme, stanziate per lo più del NordEst, crebbero in concomitanza ad economie di distretto. Il modello insediativo era costituito tipicamente da una casa di proprietà in cui dimorava un nucleo famigliare, ed il territorio circostante era caratterizzato da una costellazione di abitazioni e nodi industriali. Non a caso, questa tipologia di modello urbano ha in seguito preso il nome di “città diffusa”.
In questo frangente, il territorio venne ad assumere i connotati dell'opportunità di crescita: più vi è spazio edificabile, più vi è crescita economica. Fu così che lo spregiudicato sguardo utilitaristico nei confronti del paesaggio iniziò la sua pericolosa ascesa.
L'esplosione dello sfruttamento ambientale si susseguì negli anni '70, quando nelle periferie dilagarono cantieri e costruzioni di ogni sorta, senza alcuna attenzione alla pianificazione e alla salvaguardia del territorio. L'iperurbanizzazione accompagnò il modello “industrialurbano”, dove la fabbrica comodamente sorgeva nella città. Il processo di inurbazione fece scemare agricoltori e allevatori dalle campagne alle aree cittadine, ed andò a costituire una nuova, piccola, borghesia. Tale migrazione comportò peculiari conseguenze. Come spiega il professor Francesco Vallerani, docente di Geografia presso l'Università Ca' Foscari ed esperto del NordEst, «se è innegabile la deterritorializzazione e la frattura dei tradizionali rapporti cittàcampagna, è altrettanto vero il formarsi di una diversa territorialità, meno legata ai vincoli locali, più globale, sostenuta da una nuova geografia dei flussi»151.
I centri urbani principali non furono più l'unico nucleo attorno al quale si
concentrò la quasi totalità della popolazione e delle principali attività lavorative e ricreative. Dopo l'iperurbanizzazione seguì la fase della deurbanizzazione: infatti, la città si dilatò fino a diluirsi lungo le periferie. Le campagne diventarono senza campagna, andando a collocarsi in una posizione ambigua tra il rurale e l'urbano, generando talvolta un senso di spaesamento e anomia.
Il processo di antropizzazione che fin dall'età preromana rimodellò il paesaggio naturale veneto, fu accompagnato nei secoli dalle concezioni e dai valori che caratterizzavano le società nelle diverse epoche susseguitesi. Ideali estetici, etici ed incombenti necessità mutarono progressivamente la forma del paesaggio naturale veneto.
Dell'originale contesto naturale, oggi non ne restano che degli stralci (alcuni boschi, paludi sorgive...), «sono gli elementi residui, ovvero le tessere che conservano la memoria della naturalità ancestrale nel gigantesco e complesso mosaico dei paesaggi umanizzati del Veneto»152. Di cui fanno anche parte gli
elementi di “natura secondaria”, cioè i setting artificiosi e manovrati dall'uomo (come le siepi dei giardini, le barene artificiali, e così via) con cui l'assieme di biocenosi, se non altro, ha avuto l'occasione di perpetuare la sua esistenza.
152Zanetti M., Paesaggi umanizzati...op. cit. p. 51