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Attenuazione linguistica come adattamento in base a Caffi (2001,

CAPITOLO 1. CULTURE E COMUNICAZIONE (VERBALE):

1.2 Culture, cortesia e attenuazione linguistica: il punto di vista della pragmatica

1.2.2 Attenuazione linguistica come adattamento in base a Caffi (2001,

Secondo Claudia Caffi l’attenuazione linguistica – che lei preferisce chiamare

mitigazione40 – è costituita da quelle strategie che i parlanti adottano per sottrarre “peso alle loro enunciazioni, sfumandole, rendendole meno nette […] in qualche misura revocabili” (CAFFI, 2001, p. 1) e raggiungere così i propri obiettivi perlocutori. La mitigazione permette di evitare i pericoli derivanti dall’interazione, come il rischio di ricusazione, di conflitto, di perdita di faccia e riduce le responsabilità del locutore nei confronti del propria enunciazione (CAFFI, 2017). Tali strategie sono radicate nella consapevolezza metapragmatica, la quale ci permette di adattare le nostre scelte linguistiche alla situazione comunicativa e al destinatario:

Il concetto di appropriatezza va negoziato tra gli interlocutori. L’appropriatezza di una scelta è giudicata in base a criteri linguistici (è il nostro sapere sulla lingua), enciclopedici (è il nostro sapere sul mondo, che comprende l’esperienza di quella data situazione, o frame) e psicologici (è il nostro sapere su noi stessi, e sugli altri). Il sapere multiplo che si manifesta nella mitigazione investe zone procedurali della consapevolezza metapragmatica (CAFFI, 2017, p. 5).

Il parlante adatta le proprie scelte linguistiche attraverso la modulazione, una modalità stilistico-retorica che permette di attenuare, nel caso della mitigazione o di accentuare, nel caso del rafforzamento, l’intensità di ciò che dice. Per Caffi (2017, p. 5) “la mitigazione è una categoria multilivellare e multidimensionale: investe infatti vari aspetti dell’atto linguistico e vari strati della co-costruzione del senso, inclusi quelli emotivi, e varie dimensioni interazionali”.

La linguista propone un modello di mitigazione che definisce integrato in quanto risultante dall’incontro di ambiti disciplinari diversi: la teoria degli atti linguistici e la retorica

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classica al centro del modello, la linguistica testuale e pragmatica, la psicologia della comunicazione e la teoria dei sistemi.

1.2.2.1 La teoria degli atti linguistici di Austin (1962) e Searle (1976 [1969])

Alla base della teoria degli atti linguistici di John Langshaw Austin (1962) c’è l’aspetto performativo del linguaggio, cioè l’idea che ogni dire è anche un fare. Austin distingue tra atti locutori, illocutori e perlocutori ma, secondo Caffi (2009), è più opportuno parlare di diversi livelli di descrizione dell’atto linguistico. Il livello di descrizione locutorio è rappresentato dall’enunciato, costituito da una struttura sintattica e da un significato; il livello di descrizione illocutorio è la forza di quell’enunciato, cioè il suo valore comunicativo convenzionale, che si aggiunge al significato; infine, il livello di descrizione perlocutorio è costituito dagli effetti (non convenzionali) dell’enunciazione.

La dimensione illocutoria è quella che fa emergere “i diversi modi in cui il linguaggio è azione […]. Se dico che una data enunciazione è ‘una domanda’, ‘un ordine’, ‘una sfida’, ‘una promessa’, ‘un consiglio’, ‘una supplica’ […] metto a fuoco la dimensione del fare cose con parole, metto a fuoco la forza illocutoria di una enunciazione” (CAFFI, 2009, p. 49).

Austin, a partire dall’analisi dei verbi, classifica gli atti illocutori in: verdettivi, cioè atti di giudizio (classificare, valutare, stimare, giudicare ecc.); esercitivi, che esprimono l’esercizio di una autorità (ordinare, esortare, proibire, nominare, licenziare, rimproverare, avvertire ecc.); commissivi, atti con i quali chi parla assume un impegno (promettere, scommettere, giurare, impegnarsi ecc.); comportativi, cioè reazioni a eventi o comportamenti sociali (ringraziare, salutare, scusarsi, complimentarsi) e, infine, espositivi, cioè atti che enfatizzano il ruolo dell’enunciato nel discorso (affermare, obbiettare, negare, dedurre, concludere ecc.).

In seguito John Searle (1976 [1969]) sistematizza e in parte modifica il pensiero di Austin e propone la seguente classificazione degli atti illocutori: i rappresentativi o assertivi, che grosso modo corrispondo agli espositivi di Austin, in cui il parlante espone le proprie credenze/conoscenze e si impegna alla verità della proposizione che esprime; gli atti direttivi, che richiamano in parte gli esercitivi di Austin, e si prefiggono di convincere l’ascoltatore ad eseguire (o meno) una determinata azione; gli atti commissivi, uguali ai commissivi austiniani, attraverso i quali il parlante si impegna a tenere un certo comportamento (futuro); la classe degli atti espressivi, simile ai comportativi austiniani: chi parla esprime uno stato d’animo allo

scopo di relazionarsi con l’interlocutore e, in ultimo, le dichiarazioni, atti la cui felice esecuzione produce cambiamenti di stato, cioè la corrispondenza tra il contenuto proposizionale (parola) e la realtà (mondo); ad esempio la felice esecuzione dell’atto di unire

in matrimonio crea la realtà dell’unione matrimoniale; lo stesso vale per verbi come nominare

(qualcuno a una carica), licenziare, proclamare ecc. Sono atti linguistici che si autoaverificano perché fanno quello che dicono e dicono quello che fanno.

1.2.2.2 Attenuazione come adattamento: retorica e teoria dei sistemi

Dalla retorica classica Caffi (2017) mutua il concetto di adattamento, in quanto scelta adeguata a un contesto:

Alla base dell’idea di mitigazione vi è l’idea di adattamento: la prima è una forma del secondo. Il parlante continuamente adatta il suo dire e il suo agire dicendo alla situazione comunicativa e al destinatario. Che comunicando gli interlocutori si adattino continuamente l’uno all’altro, costruendo strada facendo il senso delle loro azioni linguistiche e il consenso rispetto ad esse, è del resto fra i pochi assunti condivisi dalle teorie del linguaggio, assunto che ha radici lontane e ramificate, sia in linguistica sia in sociologia, ma in primo luogo nella retorica classica (p. 7).

D’altro canto, la linguista mette in evidenza anche la natura paradossale del concetto di mitigazione come adattamento: se da un lato la mitigazione permette al parlante di non prendersi la totale responsabilità del suo “dire”, rendendo quest’ultimo ritrattabile41; dall’altro, se il locutore attenua troppo, cioè prende eccessive distanze dalla propria enunciazione, il suo comportamento può essere interpretato come falso, non-immediato e frutto di calcolo.

Se ciò è vero nell’ambito di una stessa cultura, in quello interculturale il rischio di una errata interpretazione è ancora più elevato, specie se si ha a che fare con interlocutori le cui culture di provenienza divergono in quanto a stile comunicativo +/- diretto (cfr. sez. 1.1) o, nei termini di Briz, in quanto a valorizzazione dellla prossimità o della distanza. In tali contesti interculturali, le strategie di mitigazione che, come si è detto, vengono

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Caffi mutua il concetto di ritrattabilità dell’enunciazione dalla teoria dei sistemi, in particolare da quello di ritrattabilità della comunicazione analogica secondo Paul Watzlawick, Janet Beavin e Don Jackson (1967). Questi autori sostengono che la comunicazione avviene attraverso due moduli: l’uno digitale e l’altro analogico; il primo, attraverso le parole, veicola l’aspetto di contenuto, e il secondo (vari aspetti del non verbale) quello di relazione tra gli interlocutori. In questo senso la mitigazione fa parte della comunicazione analogica (CAFFI, 2001). Nel contesto della mitigazione, ritrattabilità significa che esiste un margine di negoziazione del senso e anche la possibilità di modificare o negare ciò che è stato detto.

prevalentemente adottate dalle “culture meno dirette”, in mancanza di conoscenze interculturali metapragmatiche adeguate, vengono puntualmente interpretate dalle “culture più dirette” come ipocrisia, mancanza di genuinità ecc. È quel che succede tra la cultura italiana (+diretta) e le culture brasiliana e (andina) ecuadoriana (-dirette).

Il concetto di adattamento è anche un concetto fondamentale della teoria dei sistemi e infatti, secondo Caffi (2017), la prospettiva sistemica è quella che meglio si adatta a descrivere un sistema complesso come quello della comunicazione perché essa supporta sia le idee di dinamicità dell’interazione e di reti relazionali sia quella di contesto situazionale.

Noi abbiamo già parlato di questo approccio a proposito della cultura come sistema (sez. 1.1.1.2) e crediamo che se esso ci pare adeguato a descrivere la comunicazione in prospettiva intralinguistica, in prospettiva interculturale ci sembra invece insoddisfacente perché “autolimitante”: se gli elementi del sistema hanno senso solo dentro il sistema allora non è possibile una integrazione tra diversi sistemi (linguistico-culturali).42

1.2.2.3 Attenuazione come comunicazione emotiva e costruzione dell’identità

Dal punto di vista psicosociale, la mitigazione risponderebbe a due tipi di esigenze: l’una strumentale, cioè l’efficienza interazionale, volta al raggiungimento degli scopi perlocutori, e l’altra di tipo relazionale, ossia la costruzione dell’identità, funzionale al monitoraggio delle distanze emotive tra gli interlocutori. Per dimostrare come queste due dimensioni risultino spesso interrelate, Caffi (2001, 2017) porta ad esempio il medico che all’atto di prescrivere un medicinale al paziente dice: “Le do uno sciroppino”, utilizzando il suffisso diminutivo come mitigatore morfologico. In questo caso, sul piano strumentale, il diminutivo attenua la prescrizione terapeutica, dunque la gravità del problema di salute, la preoccupazione per esso, e rende più gradevole e più facile l’esecuzione del compito. Sul piano relazionale, il medico, attraverso l’uso del diminutivo, accorcia la distanza emotiva con il paziente e si pone in una condizione di maggiore intimità con lui.

A tale proposito ci sembra rilevante la distinzione tra comunicazione emotiva e

comunicazione emozionale di Caffi (2001) (CAFFI; JANNEY, 1994) perché, a nostro avviso,

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È vero che Caffi non si prefigge di studiare la mitigazione in prospettiva interculturale, ma visto che noi ci siamo proposti uno sguardo interdisciplinare sulle lingue e le culture, vogliamo segnalarlo.

l’uso del modo imperativo + dativo benefattivo nelle richieste verbali oggetto della nostra ricerca potrebbe essere proprio un indicatore della comunicazione emotiva.

La comunicazione emotiva è la segnalazione intenzionale e strategica dell’informazione affettiva nello scambio dialogico (parlato o scritto) allo scopo di influenzare l’interpretazione della situazione dal parte del destinatario: la comunicazione emozionale è lo spontaneo, involontario trapelare o prorompere dell’emozione nel discorso (CAFFI, 2001, p. 116).

Alla comunicazione emotiva corrisponde anche il concetto di competenza emotiva (emotive capacity) così definita:

[È una] componente cruciale della competenza meta pragmatica: ciascun parlante, in

una data comunità linguistica, possiede una competenza emotiva, ovvero una

gamma di abilità comunicative acquisite, convenzionali, affettivo-relazionali, che gli consente di interagire scorrevolmente, di negoziare e risolvere i conflitti interazionali e di perseguire diversi obiettivi nella conversazione [grassetto nostro] (CAFFI, 2001, p, 117).

La competenza emotiva è dunque convenzionale, legata alla specifica comunità linguistica (e culturale) all’interno della quale è acquisita e dunque è valida; ciò ci riporta al livello di analisi intermedio, quello che attiene ai gruppi (culturali) di cui abbiamo parlato nelle sezione 1.1: in quei termini, possiamo dire che la competenza emotiva definita da Caffi è una variabile interculturale.

Claudia Caffi e Richard Janney (1994) individuano 6 tipi di indicatori emotivi. Riportiamo qui sotto soltanto gli indicatori linguistici di prossimità, distribuibili intorno alla

polarità vicino/lontano per due motivi: perché, secondo gli autori, sono quelli

gerarchicamente più importanti e, soprattutto, perché sembrano a noi i più rilevanti – in particolare i punti i), iii) e iv) – per l’analisi delle forme imperativo+dativo benefattivo che esporremo più avanti: 43

i. indicatori di prossimità spaziale (spacial proximity markers), che regolano le distanza tra eventi interni ed esterni, cioè le distanze in rapporto allo spazio esterno, oggettivo e allo spazio interiore, vissuto dal parlante; tipico esempio è l’uso empatico dei dimostrativi (Conte, 1999 [1988]);

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Le altre classi sono: indicatori linguistici di valutazione, distribuibili intorno alla polarità positivo/negativo; indicatori linguistici di specificità, distribuibili intorno alla polarità chiaro/vago; indicatori linguistici di evidenzialità, distribuibili intorno alla polarità sicuro/dubbioso; indicatori linguistici di volitività, distribuibili intorno alla polarità assertivo/non-assertivo; indicatori linguistici di quantità, distribuibili intorno alla polarità più/meno (CAFFI, 2001).

ii. indicatori di prossimità temporale (temporal proximity markers), che regolano le distanza tra eventi interni ed esterni, cioè le distanze tra eventi “presenti” o “passati”, in relazione al tempo reale e al tempo interiore, vissuto;

iii. indicatori di prossimità sociale, che regolano le distanze interpersonali e sociali, ad esempio i vocativi e gli allocutivi;

iv. indicatori di prossimità selettiva (selective orderl proximity markers), che, a un livello discorsivo, regolano le distanze tra i concetti del discorso. Essi sono discussi sotto le etichette di topicalizzazione, dislocazione e sinistra o a destra,

foregrounding, tema-rema; tra essi possiamo annoverare l’ordine di comparsa di un

elemento nell’enunciazione (CAFFI, 2001, p. 120)

Le dimensioni di distanza/vicinanza sarebbero logicamente e cronologicamente prioritarie rispetto alle altre: prima di valutare una cosa, quantificarla, attenuarla o enfatizzarla ecc. dobbiamo assumere una posizione, una distanza, rispetto ad essa.

1.2.2.4 Tipi di mitigazione. La mitigazione lenitiva e i mezzi linguistici che la realizzano

Caffi (2001, 2007), nella sua analisi dell’interazione medico-paziente nell’ottica dell’attenuazione, individua due tipi di mitigazione: quella vera e propria, che denomina

mitigazione naturale e quella metapragmatica, che definisce mitigazione non naturale.

La prima si riferisce ad atti linguistici intrinsecamente negativi per l’ascoltatore, sia a livello di proposizione, come la mitigazione dell’annuncio di cattive notizie, che di illocuzione, ad esempio la mitigazione di atti intrinsecamente minaccianti per la faccia come la critica e il rimprovero.

La mitigazione non naturale (metapragmatica) può riguardare sia gli atti esercitivi- direttivi (mitigazione lenitiva) che gli atti assertivi-verdettivi (mitigazione temperatrice). Ai fini della nostra ricerca, la categoria rilevante è la prima poiché le richieste verbali appartengono alla classe degli esercitivi-direttivi.44

Gli atti afferenti alla mitigazione lenitiva sono intrinsecamente manipolativi, invasivi del territorio dell’ascoltatore (atti minaccianti la faccia negativa, nei termini di Brown e Levinson (1987 [1978]) e riguardano uno stato di cose da attualizzare. In questi casi la mitigazione riduce gli obblighi per l’ascoltatore e anche la minaccia di perdere la faccia in caso di rifiuto per entrambe le parti dell’interazione. Ciò che viene mitigato è l’atto stesso, cioè il tentativo del parlante di convincere l’ascoltatore a fare qualcosa.

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Per completezza: la mitigazione temperatrice limita la responsabilità del parlante circa il proprio dire (l’adesione a ciò che viene detto, negli atti assertivi; la severità del giudizio, negli atti verdettivi), allontanando così il rischio di perdita di faccia in caso di smentita.

Dal punto di vista formale, i mezzi della mitigazione lenitiva che Caffi individua nella sua analisi del dialogo medico-paziente (2001; 2007), ma estensibili ad altri tipi di interazioni (2011), sono i seguenti:

Tabella 4 – Mezzi linguistici della mitigazione lenitiva

Mezzi linguistici della mitigazione lenitiva

mezzi lessicali un attimo, magari, un po’ ecc.

mezzi prosodici intonazione sospensiva.

mezzi morfologici diminutivi, dativo etico, condizionale, imperfetto di cortesia.

mezzi sintattici domande preliminari, premesse ipotetiche (se vuoi, se passi dal centro),

protasi libere (se mi dà il numero), costruzioni negative con funzione interrogativa (non è che mi potreste fare un permesso).

mezzi testuali precedenti o successivi all’atto (motivazioni, giustificazioni, spiegazioni

preparatorie della richiesta). Fonte: Caffi (2001, 2007, 2011)

Come avremo modo di spiegare dettagliatamente nella prossima sezione, il dativo etico, che figura in tabella come mitigatore morfologico, presenta alcune analogie con il dativo benefattivo, motivo per il quale indugiamo ora su due esempi di dativo etico proposti da Caffi (2001):

5) M[edico]. mi fa questi esami: - con calma in questo periodo: […] (Rt. TR14) (p. 269) [grassetto nostro].

38) M[edico]. nel seno va bene. l’unica cosa che mi fa per la prossima volta è un’ecografia al fegato. (Rt. TR16) (p. 287) [grassetto nostro]

Secondo la linguista, il dativo etico, così come gli allocutivi affettivi, indicano il coinvolgimento personale del parlante e, applicando la teoria classica della cortesia di Brown e Levinson (1987 ([1978]), in pragmatica sono stati classificati come mitigatori che fanno appello alla faccia positiva dell’ascoltatore. Caffi sostiene però, che la loro azione sia di rafforzamento rispetto al far fare/far credere qualcosa all’interlocutore, in altre parole l’obbligo è presente ma giustificato dal punto di vista affettivo:

L’atto è richiesto, ordinato, prescritto a un interlocutore affettivamente connotato o, nel caso dei dativi etici, da un parlante emotivamente coinvolto: la richiesta o la direttiva è legittimata – e dunque se mai rafforzata – da tale coinvolgimento. L’effetto di mitigazione è, dunque, di secondo grado, ed è il risultato (complesso) della definizione della relazione così ottenuta, nei casi più semplici schematizzabile per le richieste con una formula del tipo “ti chiedo non in nome di un potere, ma in nome di un legame affettivo” (CAFFI, 2001, p. 294).

Le allocuzioni affettive mostrano in modo esemplare l’intreccio tra gli aspetti strumentali, il raggiungimento degli scopi perlocutori e gli aspetti relazionali, legati alla costruzione dell’identità.

1.2.2.5 Mezzi mitiganti a seconda dell’ambito sul quale ricadono

Stando al modello pragmatico integrato di Caffi (2001), i mezzi mitiganti possono essere di tre tipi, a seconda dell’ambito sul quale ricadono.

Il primo gruppo è costituito dai cespugli (bushes o hedges proposizionali), mitigatori che agiscono sulla proposizione, sul suo contenuto. Si tratta di espressioni lessicalizzate che creano vaghezza (es. un certo, in qualche modo, circa, un tipo di, più o meno ecc..), che limitano la validità di ciò che è affermato (es. gli avverbi di ambito: “Tecnicamente, possiamo dire…”) o la sua intensità (es. i diminutivi: “Sono un pochino stanca”).

Il secondo tipo di mitigatori è rappresentato dalle siepi (hedges), che coinvolgono gli indicatori illocutori (modi verbali, tono della voce, ordine delle parole, lessico ecc.) e permettono al parlante di prendere le distanza dal suo dire/fare come è il caso dell’uso del futuro epistemico (es. “Mario è in ritardo. Avrà perso il treno”) o del condizionale al posto dell’indicativo (es. “Ti pregherei di non dire parolacce”).

Infine abbiamo gli schermi (shields), centrati sull’istanza di enunciazione e l’origine deittica. In questo caso c’è uno slittamento di elementi del contesto, quali persona – la responsabilità dell’enunciazione viene fatta ricadere su di un altro enunciatore o un parlante generico (es. Si dice che Luca ha tradito Sara con Martina) –, tempo (es. “Quando mi fanno

critiche stupide mi arrabbio” invece di “Tu mi hai fatto una critica stupida e quindi mi

arrabbio con te”) e luogo (es. “Ci sono città veramente brutte” invece di “Questa città (la tua) è veramente brutta”).45

Dal momento che non è possibile separare nettamente i vari elementi dell’atto linguistico, non è neppure pensabile individuare confini precisi tra questi tre tipi di mitigatori, i quali, inoltre, possono essere impiegati simultaneamente oppure, al contrario, un mezzo mitigante agisce su più elementi dell’atto linguistico (CAFFI, 2001).

All’interno di questo approccio teorico, ci sembra che l’eventuale funzione mitigante del dativo benefattivo ricada nell’ambito delle siepi.

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