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CAPITOLO 1. CULTURE E COMUNICAZIONE (VERBALE):

1.5 Conclusioni

Nel presente capitolo abbiamo compiuto una lettura trasversale delle discipline alle quali la nostra ricerca attinge a livello teorico, focalizzando in particolar modo i concetti di

adattamento – interculturale (BENNETT, 2015), ma anche conversazionale, come è il caso

dell’attenuazione (o mitigazione) (CAFFI, 2001) – e di empatia interculturale, associabile a livello pragmatico, al concetto di comunicazione emotiva di cui parla Caffi.

Si è visto che nell’ambito della comunicazione culturale di stampo costruttivista (BENNETT, 2015), per adattamento interculturale si intende la capacità di spostare le

frontiere della nostra percezione della realtà allo scopo di incorporare (letteralmente) la percezione e gli schemi di organizzazione del mondo di un’altra lingua/cultura.

Elementi di tale processo sono: le categorie etiche (cornici culturali generiche), lo strumento che ci permette di riconoscere le categorie rilevanti dell’altra cultura; le categorie

emiche, cioè la conoscenza delle specificità delle singole culture; la coscienza autoriflessiva,

ossia la consapevolezza relativamente alla nostra cultura rispetto a quella altrui e, infine, l’empatia interculturale, il processo di immaginazione partecipativa, cosciente e intenzionale (BENNETT, 2015), a cavallo tra percezione e intuizione, che ci permetterebbe di proiettarci in un’esperienza non nostra. Nel capitolo secondo si vedrà che, nell’ambito della EC il processo empatico è inteso invece come automatico e preriflessivo.

Spostando l’enfasi dalla cultura alla lingua, va detto che l’adattamento interculturale implica anche un adattamento linguistico e comunicativo, ed è per questo che, nella nostra analisi, abbiamo preso in considerazione alcuni degli aspetti culturali che modulano la produzione linguistica e quindi, all’interno della cornici culturali generiche (cfr. Tabella 1), il

dominio degli stili comunicativi ed i relativi continnum: culture ad alto/basso contesto; forme del comportamento verbale (diretto/indiretto; lineare/circolare); tipo di confronto (intellettuale/relazionale).

Per quanto riguarda il primo, tutte e tre le culture oggetto del nostro studio sembrano tendere verso l’apice della scala (alto contesto), ma quelle brasiliana ed ecuadoriana si trovano in una posizione più avanzata rispetto alla italiana. Relativamente alle forme del

comportamento verbale, la cultura italiana pare essere più diretta rispetto alle due

latinoamericane in questione e, infine, circa il tipo di confronto, la cultura italiana sembra propendere per un approccio più intellettuale mentre le culture brasiliana ed ecuadoriana preferiscono salvaguardare la relazione.

Nella sezione 1.2 è stato approfondito il tema dell’attenuazione linguistica dal punto di vista della pragmatica, in seno alla quale è normalmente studiato. In questo caso abbiamo preso in considerazione due approcci: quello della sociopragmatica (BRAVO, 1996, 2008) (BRIZ, 2006, 2010) (ALBELDA; BRIZ, 2010) che, in parziale continuità con la tradizione inaugurata da Brown e Levinson (1987 [1978]), vede tale fenomeno come espressione di

cortesia e quello di Caffi (2001, 2007, 2009, 2017), che invece ne prende le distanze,

affermando che la cortesia è solo uno dei tanti effetti possibili e non garantiti dell’attenuazione (CAFFI, 2017). Caffi preferisce caratterizzare l’attenuazione (che lei chiama

mitigazione) come forma di adattamento del locutore alla situazione comunicativa e

all’interlocutore.

Nell’ambito del primo approccio, ci è sembrato molto utile lo sguardo “culturale” all’attenuazione linguistica proposto da Briz (2006, 2010) e rappresentato dal continuum

culture che valorizzano la prossimità (culturas de acercamiento) e culture che valorizzano la distanza (culturas de distanciamiento). All’interno di tale classificazione le culture che valorizzano la distanza, in cui manifestare rispetto e deferenza è molto importante, fanno

largo uso di attenuatori per “accorciare” tali distanze sociali. E’ il caso della cultura andina ecuadoriana ma anche, a nostro avviso, di quella brasiliana. Si tratta di culture in cui l’uso dell’imperativo è molto mal visto e, in fondo, non ammesso socialmente. In tale continuum la cultura italiana tende ad identificarsi di più con le culture che valorizzano la prossimità: minore uso di attenuatori rispetto alle culture latinoamericane menzionate in precedenza e maggior tolleranza nei confronti dell’uso dell’imperativo.

A livello generale possiamo dire che questi dati, frutto di un’analisi di tipo sociopragmatico, sono congruenti con quelli precedentemente citati e provenienti dagli studi interculturali. Semplificando e sempre ricordando che tutti questi criteri rappresentano dei

continuum67, potremmo affermare che: le culture ad alto contesto tendono ad utilizzare forme

del comportamento verbale più indirette e ad implementare un tipo di confronto relazionale;

ciò le rende assimilabili, in qualche misura, alle culture che valorizzano la distanza, le quali fanno ampio uso di attenuatori. Ci sembra che sia questo il caso delle culture ecuadoriana e brasiliana.

D’altra parte, la cultura italiana, sebbene orientata anch’essa all’alto contesto, si colloca in una posizione più arretrata rispetto alle precedenti; propende per comportamenti verbali più diretti rispetto alle altre due culture e per un confronto di tipo intellettuale più che relazionale. Nei termini di Briz (2006, 2010) sarebbe assimilabile ad una cultura che valorizza la prossimità, per lo meno per quanto attiene al minor uso di attenuatori e in comparazione con le culture latinoamericane di cui abbiamo parlato.

Per quanto riguarda l’approccio di Caffi (2001, 2007, 2009, 2017) – attenuazione (o

mitigazione) come adattamento –, i due concetti che ci sono parsi più rilevanti per la nostra

ricerca sono quelli di comunicazione emotiva e di competenza emotiva (CAFFI, 2001)

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È bene tenere a mente che qualunque tipo di categoria o classificazione, negli ambiti di ricerca di cui trattiamo, nasce a tavolino per fini di studio e risponde agli interessi dei ricercatori relativamente alla realtà oggetto delle loro ricerche. Ciò significa che tali classificazioni e categorie non sono “specchio” della realtà medesima e, pertanto, non devono essere utilizzate come “etichette” o profezie che si autoavverano.

(CAFFI; JANNEY, 1994) in quanto “risuonano” con quello di empatia di cui si è parlato in precedenza e si continuerà a parlare, in altri termini, nel capitolo secondo.

La nozione di comunicazione emotiva supporta, dal punto di vista teorico, la nostra ipotesi, cioè la possibilità che il dativo benefattivo, nelle richieste con l’imperativo, possa essere un indicatore emotivo strategicamente utilizzato dal parlante per influenzare il comportamento dell’interlocutore nella realizzazione dell’azione.

D’altro canto la competenza emotiva, definita da Caffi (2001) come convenzionale,

propria di una comunità linguistica ed acquisita, sarebbe parte di quel bagaglio di

competenze metapragmatiche appreso in seno alla suddetta comunità linguistica – che è anche

culturale oltreché linguistica – e che ci permette di modulare strategicamente il nostro “dire”

con fini perlocutori e con modalità specifiche e valide all’interno di tale contesto linguistico- culturale. Ciò significa che la nostra competenza emotiva, dal punto di vista pragmatico, si manifesta in modalità diverse nelle varie lingue e culture.

In merito ai mezzi linguistici che realizzano l’attenuazione, come si è detto, Caffi (2001) non contempla il dativo benefattivo ma il dativo etico, e colloca quest’ultimo nella classe dei mitigatori morfologici della mitigazione lenitiva. Se, da questa ricerca, risultasse che il dativo benefattivo è un attenuatore, crediamo che dovrebbe essere inserito in queste stesse categorie.

Sappiamo che il dativo etico e il dativo benefattivo hanno significati diversi: mentre il primo indica la persona che partecipa emotivamente all’azione espressa nella frase, il secondo segnala colui che è l’effettivo beneficiario dell’azione stessa. Entrambi sono extra- argomentali, quindi non necessari ai fini della compiutezza sintattico-semantica dell’enunciato. Ciò ci fa pensare che se il parlante decide di utilizzare il dativo benefattivo – enfatizzando il beneficiario dell’azione, comunque inferibile dal contesto – invece di usare l’imperativo standard, che rappresenta un ordine vero e proprio, lo fa allo scopo strategico di captare la benevolenza dell’interlocutore e, come sostiene Caffi relativamente al dativo etico, ricordare al ricevente che l’esecuzione di un’azione viene richiesta “[…] non in nome di un potere, ma in nome di un legame affettivo” (CAFFI, 2001, p. 294).

Nel caso dell’ I e del PB, possiamo affermare che le strutture e i significati delle forme di imperativo benefattivo sono piuttosto simili, ma relativamente al loro impiego, ci sembra che l’I prediliga il dativo benefattivo clitico, mentre il PB preferisca la struttura con la preposizione para + pronome tonico, che è appunto quella che noi abbiamo adottato nel questionario diretto ai parlanti di madrelingua portoghese brasiliana.

Come si è visto, la struttura omologa nel CAE è abbastanza complessa, giacché il verbo dar (+ il clitico con valore di dativo benefattivo) svolge il ruolo di ausiliare in una costruzione perifrastica con il gerundio. Dal punto di vista pragmatico, tale costruzione si inserisce in una scala di imperatività che prevede almeno altri sette modi di attenuare le richieste verbali (HABOUD; PALACIOS, 2017); ciò significa che il CAE, in virtù della storia di contatto tra il castigliano e il kichwa, offre una gamma più sofisticata di forme attenuative a cui i parlanti possono attingere e, di conseguenza, anche le conoscenze metapragmatiche di tali parlanti (a livelli diversi di consapevolezza) saranno altrettanto raffinate.