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L’attuazione del principio del contraddittorio nella fase di ammissione della consulenza

CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO E PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

3. L’attuazione del principio del contraddittorio nella fase di ammissione della consulenza

Il giudice, quando ritiene che sussista l’esigenza di ricorrere a questo particolare mezzo di prova, procede all’ammissione (d’ufficio, come si è visto e come recita lo stesso nomen iuris dell’istituto) della consulenza tecnica.

Per quanto detto sopra, l’ordinanza di ammissione può intervenire in ogni fase e stato del procedimento, perché è sottratta alle scansioni processuali che regolano e limitano l’introduzione di mezzi di prova a istanza di parte. Così, se in molti casi l’ammissione della consulenza si colloca nel contesto “naturale” delle decisioni istruttorie che il giudice assume ex art. 183, 7° comma, c.p.c. dopo il consolidamento del thema probandum attraverso le memorie autorizzate ex art. 183, 6° comma, c.p.c., nulla vieta che l’ammissione preceda o segua questa specifica fase processuale: lo prevede espressamente l’art. 191, 1° comma, c.p.c..

Da un primo punto di vista, può accadere che l’esigenza di procedere all’indagine peritale sorga già in una fase embrionale del processo, prima ancora che le parti abbiano completato la loro dialettica sullo specifico tema probatorio (per la cui definitiva precisazione dovrà,

appunto, attendersi il deposito delle memorie previste dall’art. 183, 6° comma, c.p.c.).

L’anticipazione della consulenza63, espressione particolarmente intensa di quel potere largamente discrezionale che la giurisprudenza si è da tempo attribuita in questa materia64, si ricollega in genere a due presupposti, che possono anche coesistere:

- l’urgenza dell’accertamento che, se apprezzata autonomamente dal giudice, può evitare attraverso l’ammissione della consulenza tecnica d’ufficio la complessità procedurale del ricorso (di parte) per accertamento tecnico preventivo in corso di causa, unico strumento alternativo;

- l’opportunità di procedere a quella specifica indagine per ragioni di

economia processuale, non tanto per una ragione di tempistica, quanto

perché la soluzione di quel singolo problema può essere assorbente rispetto a ogni altra questione (quanto meno con riferimento a una porzione del thema decidendum), o comunque sufficiente a fornire alle parti la risposta che cercano per dirimere transattivamente la controversia65.

63

In realtà il testo della norma non prevede espressamente la possibilità di una vera e propria anticipazione rispetto agli altri provvedimenti istruttori, ma la facoltà è pacificamente riconosciuta: cfr. MORLINI, La consulenza tecnica d’ufficio: istruzioni per

l’uso. I principali profili problematici, Ivrea, 2014, p. 6; contra AULETTA, Consulenza Tecnica, in www.treccani.it/ enciclopedia/consulenzatecnica_(Diritto_on_line).

64 Che, per la sua ampiezza, è destinato ad esplicarsi non solo riguardo all’an, ma anche

riguardo al tempo (in senso processuale) dell’ammissione. Cfr, ex plurimis, Cass. 28/8/2002, n. 12607, in Rep. Foro It., 2002, v. Consulente tecnico, n. 9.

65 Non di rado le parti, per esplicare al massimo il proprio diritto di difesa, dibattono

anche su temi “di contorno” rispetto a quello veramente centrale della controversia, temi che, essendo comunque controversi, dovrebbero essere oggetto di specifica istruzione probatoria e decisione. Ma la soluzione del nodo principale può indurle, in una logica transattiva, a rinunciare a protrarre la lite giudiziaria per questioni secondarie, prevenendo lo svolgimento di attività istruttorie superflue.

Naturalmente, per le caratteristiche proprie della consulenza tecnica d’ufficio, questa anticipazione è possibile soltanto se compatibile con la disciplina dell’onere della prova di cui si è detto nel Capitolo II. Se, come accade in linea di principio, la consulenza deve avere per oggetto fatti secondari, è indispensabile che sia già acquisita agli atti la prova dei fatti principali a cui quei fatti secondari debbono “agganciarsi”.

Avrebbe ad esempio poco senso ammettere una consulenza volta a ricostruire le eventuali responsabilità dei singoli sanitari coinvolti in un intervento chirurgico se fosse ancora controversa sul piano storico l’individuazione delle persone che a quell’intervento hanno materialmente partecipato. Ma in molti casi esistono le condizioni per considerare pacifici (o magari già documentalmente provati) quanto meno gli eventi storici essenziali che sono necessari per ammettere la consulenza66.

Certo è che, anche a fronte di quest’ultima situazione, una consulenza tecnica d’ufficio espletata a monte dall’attività istruttoria a impulso di parte fa comunque suonare un campanello d’allarme dal punto di vista del rispetto del principio del contraddittorio: come vedremo meglio in seguito, la tendenza ad assecondare una certa ipertrofia di questo strumento

66 Può accadere che fatti principali anche di enorme importanza non interferiscano

affatto con le modalità di espletamento della consulenza. Ad esempio, nell’ipotesi di un confuso incidente stradale del quale siano addirittura controverse le strade di provenienza dei veicoli (e quindi i rispettivi diritti di precedenza dei conducenti), non sarebbe certo irragionevole procedere intanto all’accertamento dell’entità delle lesioni riportate dai loro occupanti: questo specifico tema (che attiene al profilo del quantum debeatur) può essere trattato indipendentemente dalle questioni relative all’an debeatur, pur rilevantissime. E magari la presa d’atto che i danni fisici sono tutto sommato contenuti potrà indurre le parti a ricercare con maggior facilità una soluzione transattiva.

tradisce talvolta la tentazione di risolvere la causa con qualche forzatura, magari nell’ottica di ricercare una scorciatoia per definire anticipatamente la controversia.

Il pericolo è quello di dare per scontati elementi di fatto che non sono ancora stati sufficientemente accertati con gli ordinari strumenti istruttori. E, anche se è teoricamente corretto dire che la successiva attività istruttoria, nel far cadere (o comunque nel modificare sensibilmente) i presupposti su cui la relazione iniziale del consulente si è basata, può cancellarne i risultati, nella pratica è inevitabile dare atto della tendenza a un certo trascinamento “per inerzia” delle conclusioni già raggiunte.

Questo pericolo può attenuarsi qualora il consulente, di fronte a un panorama fattuale non ancora univoco, abbia la ragionevole possibilità (grazie a un quesito sapientemente modulato) di proporre valutazioni

alternative ipotizzando astrattamente il verificarsi dell’uno o dell’altro

scenario storico. Ma, a parte l’evitabile complicazione67, in questo caso l’intera indagine peritale rischierebbe di tradursi in una perdita di tempo, perché la successiva istruttoria potrebbe accreditare una ricostruzione dei

67 La soluzione è accettabile soltanto se a priori le possibili varianti sono in numero

estremamente limitato e ciascuno degli ipotetici scenari alternativi presenta una chiara univocità. Nella pratica, la situazione si verifica soprattutto quando si tratta di procedere a una consulenza tecnica contabile, nella quale i calcoli possono essere condizionati dall’applicazione di criteri astrattamente alternativi, fra i quali il giudice sarà poi chiamato a scegliere: in questo modo non si pone la necessità di una sentenza parziale a monte della consulenza, unica via per individuare preventivamente un unico metodo di calcolo. Una problematica di questo tipo si è posta, ad esempio, in materia di termine di decorrenza della prescrizione per l’azione di ripetizione dell’indebito da anatocismo bancario: cfr. Cass. Sez. Un. 24418/2010.

fatti almeno parzialmente diversa rispetto a tutte quelle ipotizzate dal consulente, costringendo il giudice a far riesaminare da capo la questione.

Meno problematica da questo punto di vista si rivela l’ammissione “tardiva” della consulenza: il fatto che la decisione intervenga quando ormai il panorama istruttorio è definitivamente consolidato, consente di disporre di tutti gli elementi di fatto necessari per lo svolgimento dell’indagine.

Anzi, il rinvio della decisione in punto di ammissibilità può rivelarsi particolarmente opportuno quando a priori esiste la possibilità che l’assunzione degli altri mezzi di prova finisca per rendere inutile la consulenza, e ciò anche quando siano fin dall’inizio disponibili tutti gli elementi indispensabili per procedere all’indagine. Così, ad esempio, se l’istruttoria ha già chiarito l’infondatezza della domanda in punto di an debeatur, il dispendio di tempi e di costi connesso all’espletamento di una consulenza volta alla quantificazione del danno può tranquillamente essere evitato68.

Quanto all’ammissione della consulenza in gradi diversi dal primo69, è agevole coglierne le ragioni: muovendo dal presupposto che in sede di impugnazione è fisiologico che le decisioni (anche istruttorie) assunte nel primo giudizio vengano sottoposte a censura dalle parti e che siamo di fronte a un giudice diverso da quello che le ha assunte, è ben

68 L’ammissione della CTU potrebbe rivelarsi prematura anche quando siano state

proposte eccezioni astrattamente idonee a definire la causa in rito e quindi a rendere superflua qualsiasi attività istruttoria: sul punto cfr. RADOS-GIANNINI, La consulenza

tecnica nel processo civile, cit., p. 186.

possibile che il secondo giudice maturi un’opinione diversa rispetto al collega che lo ha preceduto.

Talvolta la diversità di valutazione attiene allo specifico tema dell’ammissione della consulenza: il primo giudice l’aveva ritenuta superflua (o addirittura non l’aveva presa in considerazione), il secondo giudice la ritiene invece necessaria.

In altri casi il secondo giudice ritiene insufficienti o contraddittori i risultati di una consulenza già espletata e ne dispone il rinnovamento (se del caso con un diverso consulente).

In altri casi ancora, la divergenza non riguarda tanto il mezzo di prova in sé, ma un altro tema del processo, che condiziona l’ammissione della consulenza: se, ad esempio, il giudice dell’impugnazione intende riformare la sentenza in punto di an debeatur, accogliendo almeno in parte una domanda che il primo giudice ha integralmente respinto, è del tutto ragionevole che egli ammetta una consulenza indispensabile per quantificare il danno, consulenza che invece il primo giudice – altrettanto ragionevolmente in quello scenario – aveva deciso di non ammettere.

Per quanto riguarda il profilo che qui interessa maggiormente, che è quello dell’attuazione del principio del contraddittorio, apparentemente la fase dell’ammissione della consulenza è quella che presenta minori criticità.

Naturalmente resta il dato di fatto ineludibile che siamo di fronte a un mezzo di prova officioso e che, come abbiamo avuto modo di rilevare, la

decisione del giudice di ammettere o non ammettere la consulenza è svincolata da qualsiasi istanza, favorevole o contraria, delle parti. Ma, una volta che il sistema ha ritenuto ragionevole prevedere questo particolare strumento istruttorio, sembra difficile individuare nell’ammissione in quanto tale un possibile vulnus al principio del contraddittorio.

Anzi, le parti, pur non disponendo di poteri vincolanti, avranno spesso ampio spazio di intervento nella fase di formazione del convincimento istruttorio del giudice: del resto l’ammissione della consulenza non spunta inattesa come decisione officiosa “pura”, ma rappresenta lo sbocco finale di un processo dialettico attraverso il quale le parti (talvolta anche concordando fra loro) hanno illustrato le ragioni per le quali quella particolare consulenza deve o non deve essere ammessa.

D’altronde, il fatto che un mezzo di prova sia officioso significa semplicemente che alle parti ne è sottratta la disponibilità e non che alle parti sia addirittura inibito interloquire sull’argomento.

Né il giudice può sentirsi sminuito dal fatto che in una materia riservata ai suoi poteri officiosi le parti abbiano da dire la loro. È vero semmai il contrario, visto che abbiamo già illustrato il principio (di buon senso ancor prima che giuridico) in base al quale “una questione discussa è meglio decisa di una questione non discussa”70: i contributi valutativi forniti dalle parti (le quali, non va dimenticato, padroneggiano i fatti storici

rilevanti per la causa in modo molto più ampio di quanto non possa fare il giudice) possono consentire di espandere l’angolo visuale dal quale la questione istruttoria viene affrontata e agevolare il giudice nel cogliere le giuste motivazioni per ammettere o non ammettere la consulenza.

Per come è strutturato il processo, è sostanzialmente impossibile che il giudice possa pronunciarsi sull’ammissione di questo mezzo di prova senza che si sia già consolidato un ampio contraddittorio fra le parti: l’atto di citazione e la comparsa di risposta (quanto meno in caso di costituzione tempestiva) precedono certamente qualsiasi possibile decisione istruttoria del giudice e consentono a questi di esaminare gli spunti dialettici suscitati dalle parti contrapposte; inoltre, all’udienza di comparizione sarà pur sempre possibile per le parti, ove si affacci l’eventualità di ammettere una consulenza “precoce”, formulare le deduzioni del caso.

E questo meccanismo fa sì che le parti possano misurarsi ad armi pari: attore e convenuto hanno la possibilità di far sentire la propria voce nella stessa misura, consentendo così di garantire la corretta attuazione del contradditorio a monte di ogni decisione ammissiva di una consulenza tecnica.

Potrà talvolta accadere che il giudice, facendo uso del suo potere officioso nel senso più ampio e puro, ravvisi la necessità di una consulenza tecnica alla quale le parti non hanno neppure pensato. Ma, a parte che l’eventualità è alquanto rara, anche in questo caso le parti hanno comunque

avuto pari opportunità di dedurre sul punto e, se non lo hanno fatto, devono imputarlo a una loro libera scelta e non certo a una indebita lesione del diritto di difesa.

Analoghe considerazioni valgono per il caso in cui una delle parti rimanga totalmente inerte rispetto alla richiesta dell’altra di ammettere una consulenza tecnica, cosicché il giudice sentirà una sola campana. L’inerzia potrà derivare da una mancata partecipazione al processo tout court (contumacia), ma anche da una – più o meno consapevole – omissione difensiva.

Anche qui non vi sarà, evidentemente, alcun vulnus al diritto del contraddittorio, perché lo sbilanciamento fra le parti non è certo imputabile al sistema o al giudice, ma a un comportamento della parte stessa, che disponeva di tutte le facoltà per difendersi al meglio.

In effetti, se è vero che il rispetto del principio del contraddittorio – e più in generale del diritto di difesa – è un valore fondante del nostro ordinamento (quasi etico ancor prima che giuridico), non si deve incorrere nell’equivoco di espanderne il significato oltre un ragionevole confine. Alla parte deve essere garantita la piena facoltà di attuare il contraddittorio, non certo l’attuazione pratica di tutte le possibili difese teoriche a prescindere dalle concrete scelte della parte stessa e addirittura contro la sua volontà.

Il cattivo esercizio del diritto di difesa – derivante da imperizia o da negligenza – non costituisce affatto un vizio processuale71: l’importante è che quel diritto di difesa abbia avuto a sua disposizione tutti gli strumenti processuali che la legge prevede e non anche che quegli strumenti siano stati concretamente sfruttati.

Da tutti questi elementi è dunque lecito trarre la sensazione di una relativa “innocuità” della fase di ammissione della consulenza sotto il profilo delle possibili lesioni del principio del contraddittorio.

Abbiamo però fin dall’inizio avvertito che questo scenario è più apparente che reale, perché una disamina più approfondita consente di cogliere quello che è il vero nodo del problema.

Finora abbiamo genericamente parlato di “ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio”, come se stessimo parlando dell’ammissione di un qualsiasi altro mezzo di prova costituendo (testimonianza, interrogatorio formale, giuramento decisorio, ecc.), ma il concetto stesso di “ammissione” assume nel nostro caso un significato molto diverso.

Nell’ammettere una prova formulata da una parte il giudice si limita ad avallare – previa verifica dei requisiti di legge - l’introduzione nel processo di uno schema di prova interamente confezionato dal richiedente.

71 Cosa teoricamente possibile: nell’ordinamento statunitense, ad esempio, il fatto che

un imputato sia stato difeso in modo inefficiente è motivo di impugnazione (e ciò in un sistema che restringe al massimo lo spazio per i gravami).

Si pensi ad esempio alla prova per testi, nella quale la parte formula capitoli “separati e specifici” sui quali chiede che determinate persone vengano interrogate.

Il giudice può certamente respingere la richiesta istruttoria in tutto o in parte e magari emendare alcuni capitoli cancellando espressioni inammissibili, ma non potrà mai intervenire attivamente nel processo di costruzione della prova: il mezzo di prova è interamente confezionato dalla parte e il giudice è chiamato soltanto a vagliarne la conformità allo schema legale.

Nella consulenza tecnica d’ufficio, invece, il giudice non è solo il soggetto che ammette la prova, ma è anche il soggetto che la “confeziona”. Benché nel gergo comune si tenda a dire che un giudice ha ammesso una consulenza tecnica tout court (qualificandola magari in funzione della branca del sapere coinvolta dall’indagine: medico-legale, cinematica, contabile, ecc.), l’espressione non ha in realtà molto senso: non è possibile

sapere che cosa il giudice abbia davvero ammesso finché egli non formulerà al consulente i quesiti.72

Ecco il punto: l’effetto che la decisione del giudice produrrà nel processo dipende esclusivamente dalla natura dei quesiti, i quali soltanto segnano la ragion d’essere dell’indagine peritale, l’ambito dei fatti sui quali

72 Sulla centralità del quesito nella struttura della CTU e sull’opportunità di formulare

quesiti dettagliati per prevenire gli inconvenienti di cui si dirà in seguito, cfr. ROSSETTI, Il

CTU (“l’occhiale del giudice”), cit., p. 84; BRESCIA, Manuale del perito e del consulente tecnico nel processo civile e penale, Sant’Arcangelo di Romagna, 2013, p. 98.

essa dovrà essere svolta e i confini dello spazio nel quale il consulente dovrà muoversi.

E questa è la ragione per la quale l’art. 195, 3° comma, c.p.c. oggi opportunamente dispone che la formulazione dei quesiti avvenga all’interno della stessa ordinanza di ammissione: in caso contrario l’individuazione della consulenza tecnica resterebbe insufficiente73.

E qui tornano in gioco le problematiche che abbiamo già ampiamente trattato nei capitoli precedenti: la formulazione di quesiti impropri rispetto alla natura stessa di questo mezzo istruttorio, tali da alterare ingiustificatamente i delicati equilibri della disciplina dell’onere di allegazione e di prova, può davvero introdurre una lesione intollerabile al principio del contraddittorio e alla par condicio.

Ecco dunque che l’obiettivo deve focalizzarsi proprio sui quesiti, che rappresentano in un certo senso il ponte fra la fase di ammissione (perché vengono enunciati prima che le indagini peritali abbiano inizio) e la fase di espletamento (perché costituiscono la mappa che delimiterà il campo di indagine).

Come abbiamo avvertito, qui può davvero sorgere qualche pericolo di “invasione di campo”: se il giudice, anziché limitarsi a recepire i fatti principali così come provati (o non provati) dalle parti e accostarsi alla consulenza come necessario strumento di approfondimento, si trasforma in

un inquisitore a tutto campo ponendosi alla ricerca della verità a prescindere dall’iniziativa probatoria delle parti stesse, egli altera irrimediabilmente gli equilibri del processo, non solo snaturandone l’anima dispositiva, ma anche pregiudicando la corretta attuazione del contraddittorio74.

Va però detto che, anche in questo caso, proprio gli strumenti accordati alle parti dal legislatore per tutelare il diritto di difesa (in particolare: le scansioni processuali che precedono la decisione istruttoria) consentono, se non di impedire, quanto meno di limitare l’eventualità di possibili abusi. Le parti, pur con l’ormai noto limite di non poter vincolare la decisione officiosa, hanno senz’altro ampie possibilità di dedurre (e controdedurre) oralmente e per iscritto sui potenziali quesiti e di illustrare al giudice le ragioni per le quali quello specifico quesito è illegittimo.

Certo, rimane la possibilità che il giudice resti sordo alle critiche della parte e persista in una decisione che – violando un principio fondamentale del processo civile – introduce un vizio di legittimità. Ma si tratta esattamente dello stesso rischio che può verificarsi per qualsiasi altra decisione (istruttoria o di merito) affetta da un vizio in procedendo: e il rimedio consisterà evidentemente nell’impugnazione.

74

È stato esattamente affermato che “il potere discrezionale del giudice incontra due

limiti: il rispetto del principio dispositivo sub specie di onere della prova in capo alle parti; l’onere di motivazione” (MAMBRIANI, Appunti in tema di consulenza tecnica nel processo civile. Il ruolo del CTU, Milano, 2011, p. 6). Peraltro, è proprio la natura di questi

limiti – soggetti a interpretazioni inevitabilmente elastiche – a rendere la valutazione di legittimità alquanto problematica: limitarsi a dire che una consulenza è legittima finché non viola il principio dispositivo e finché è congruamente motivata resta, in assenza di concrete specificazioni “sul campo”, poco più che una tautologia.

In definitiva, lo scenario presenta certamente elementi delicati, ma non deve essere drammatizzato più di tanto. L’unica differenza che merita di essere sottolineata è che, se un vizio processuale ha le stesse probabilità di presentarsi per qualsiasi mezzo di prova (sia esso officioso o a istanza di parte), gli effetti nocivi del vizio possono indubbiamente essere più penetranti quando viene ammessa una consulenza tecnica d’ufficio. E ciò per la semplice ragione che solo in questo caso il giudice può introdurre autonomamente elementi istruttori (anche decisivi) nel processo, mentre per