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Estremamente delicati sono i problemi che si pongono nel caso

CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO E PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

B) Estremamente delicati sono i problemi che si pongono nel caso

di sconfinamento dell’oggetto dell’indagine rispetto al perimetro segnato dai quesiti: si tratta sostanzialmente di un eccesso “in fatto”, in contrapposizione dall’eccesso “in diritto” di cui si dirà sub C.

La giurisprudenza ha storicamente sempre avuto un approccio particolarmente elastico rispetto a questo tema, quasi che la natura officiosa del mezzo di prova e l’imparzialità del consulente fossero elementi sufficienti a garantire un tasso di legittimità intrinseca superiore alla norma, idoneo a sanare anche possibili “eccessi di zelo”.

Se questo fosse l’argomento, non sarebbe però condivisibile, perché è vero semmai il contrario: un’interpretazione estensiva dei limiti di legittimità dell’espansione degli effetti istruttori è certamente meno ragionevole a fronte di un mezzo di prova officioso che, per sua natura, si pone come tendenzialmente eversivo rispetto al principio dispositivo che governa il processo civile.

Ciò nonostante, la tendenza dei giudici è quella di salvare per quanto possibile i risultati di indagini “ormai” acquisite, in modo da poter disporre ai fini della decisione del massimo numero di elementi utili.

Il principio è certamente corretto quando si tratta di oggetti di indagine strettamente connessi rispetto a quello principale investito dal quesito, perché necessari per fornire la risposta voluta. A queste condizioni, a rigore non sarebbe neppure corretto parlare di un oggetto estraneo al quesito, perché il quesito in realtà lo ricomprende, anche se in modo soltanto implicito.

Se ad esempio il giudice chiede di accertare in quanti secondi un determinato veicolo avrebbe potuto arrestare la marcia frenando in una data condizione, è evidente che l’indagine sugli elementi che determinano il coefficiente di attrito (pneumatici, asfalto, ecc.) è automaticamente ricompresa nel quesito.

Ma fino a quale limite può espandersi l’oggetto di indagine del CTU? La giurisprudenza si mostra, come detto, alquanto tollerante, considerando legittimo da parte del giudice utilizzare anche quei risultati della consulenza che in fatto eccedano i limiti dell’incarico (da ricostruirsi sulla base dell’ambito segnato dai quesiti), purché essi “non esulino sostanzialmente dall’oggetto dell’indagine per la quale è stata disposta la consulenza stessa”101.

Si avrebbe in definitiva una sorta di prova atipica102, perché l’acquisizione istruttoria non deriva direttamente dal contenuto

101 Cass. 7/1/1995, n. 202; nello stesso senso Cass. 10/2/1987, n. 1414.

102 Esplicitamente in questo senso: Cass. 19 Febbraio 1990, n. 1223. In dottrina, cfr.

FAROLFI, I poteri istruttori del Giudice. L’ammissione e l’assunzione della prova, relazione tenuta a Roma il 10/5/2005 ad un corso di formazione per magistrati organizzato dal CSM, 33; A. PAPPALARDO, I poteri istruttori delle parti e del giudice. Ammissione,

dell’ordinanza ammissiva della consulenza (si eccede dal mandato ricavabile dai quesiti) e ciò nonostante le modalità attraverso le quali quel risultato è stato raggiunto, unite alla considerazione di una persistente strumentalità rispetto all’oggetto della “vera” indagine peritale, consentono comunque di utilizzarla.

Naturalmente, una volta affermato il principio di diritto, si tratta poi di applicarlo “sul campo” in modo corretto, pervenendo caso per caso a un’interpretazione convincente ed equilibrata. Il compito non è facilissimo, perché non è chiaro a cosa si alluda tecnicamente quando si parla di risultati che “non esulino sostanzialmente dall’oggetto dell’indagine”: abbiamo visto che non può trattarsi di attività implicate (anche se non espressamente) dai quesiti posti al consulente, perché in tal caso non saremmo neppure di fronte a una potenziale anomalia; ma allora, se non stiamo parlando di questo, come può un’indagine non riconducibile (neppure implicitamente) ai quesiti, “non esulare sostanzialmente” dal campo di indagine delineato dal giudice al momento del conferimento dell’incarico?

La verità è che attraverso questa formula finiscono per filtrare all’interno del processo anche contenuti propriamente estranei all’oggetto vero e proprio dell’indagine intesa nella sua configurazione formale: se ci si accontenta di verificare che l’indagine ulteriore sia “più o meno” ancorata al filone di quella principale, sarà ben difficile pervenire a un giudizio di

assunzione e valutazione della prova, con particolare riguardo alla consulenza tecnica d’ufficio, cit., 48.

radicale incompatibilità, non essendo seriamente ipotizzabile che il consulente si diletti ad occuparsi di questioni totalmente indipendenti dal mandato conferitogli.

Il punto è che talvolta il consulente, pur mantenendo focalizzato l’obiettivo dell’indagine su un tema “sostanzialmente non estraneo” a quello ricavabile dal mandato, va comunque al di là dell’oggetto individuato dai quesiti, spingendosi in un territorio che le parti non potevano assolutamente preventivare.

Il rischio di lesione al principio del contraddittorio si fa in questo caso concreto, e ciò per due ordini di ragioni.

In primo luogo, la deroga al principio dispositivo insita nell’istituto della consulenza tecnica d’ufficio può rimanere accettabile soltanto se l’ambito di esplicazione del mezzo di prova (e quindi i risultati concretamente ottenibili sul piano istruttorio) è direttamente controllato dal giudice: questi è l’unico dotato (oltre che delle necessarie competenze giuridiche) della visione istruttoria d’insieme che consenta di mantenere l’espletamento della consulenza in una traiettoria compatibile con il rispetto dei principi generali (e, in particolare, del contraddittorio). Se il consulente tecnico è autorizzato ad espandere autonomamente il campo di indagine, questo delicato equilibrio viene messo a repentaglio, non potendosi ammettere che la parti si vedano “scavalcate” in termini di iniziativa istruttoria da un soggetto che non riveste neppure la qualità di giudice.

In secondo luogo, è evidente che la parte appronta la propria difesa tecnica sulla base della natura dell’indagine implicata dal contenuto dei quesiti. Essa potrebbe dunque rimanere “spiazzata” se quell’indagine finisse per spingersi su territori non previsti. Ciò accade ad esempio quando la consapevolezza di dover affrontare un più ampio campo di indagine avrebbe potuto indurre la parte a munirsi di un consulente tecnico diverso (magari più esperto, in ragione dell’accresciuta difficoltà del tema da affrontare, o più specializzato nella branca implicata dal nuovo tema).

Supponiamo ad esempio che venga conferito a un consulente tecnico d’ufficio il solo incarico di determinare l’ammontare dei danni subiti da un veicolo in conseguenza di un incidente stradale e che il consulente, di sua iniziativa, decida di ampliare l’indagine alla ricostruzione della dinamica dell’incidente, magari perché ritiene indispensabile acquisire elementi cinematici per accertare la compatibilità causale fra i danni e l’incidente stesso.

Da un lato, siamo certamente al di fuori dell’ambito formale dei quesiti, non potendosi neppure concludere che il nuovo tema sia automaticamente implicato da quello originario; dall’altro, però, si deve dare atto che in qualche modo la nuova indagine è “sostanzialmente non estranea” all’indagine iniziale, alla quale è legata anche da un vincolo di strumentalità. Da qui la possibile ammissibilità dello sconfinamento, alla stregua del ricordato principio di diritto.

Ora, se la parte si è – del tutto ragionevolmente – “accontentata” di designare un suo consulente tecnico esperto in materia di valutazione dei danni ai veicoli, potrebbe trovarsi a mal partito durante l’espletamento della (imprevista) consulenza cinematica, per la quale si richiedono competenze tecnico-scientifiche ben diverse. E tutto ciò potrebbe tradursi in una ingiustificata compressione dei diritti della parte.

A nostro avviso, l’atteggiamento più corretto del consulente dovrebbe essere quello di sottoporre al giudice ogni suo dubbio prima di procedere all’ampliamento dell’indagine peritale in una nuova direzione: una volta che l’individuazione dell’oggetto della consulenza torna sotto il diretto controllo del giudice si previene ogni rischio di lesione del contraddittorio (perché le parti potranno comunque interloquire sul punto) e si recupera l’equilibrio complessivo.

Sembra dunque che la latitudine interpretativa a cui è approdata la giurisprudenza assolva soprattutto allo scopo non di riconoscere al consulente una (più che discutibile) facoltà di autonomo ampliamento dell’oggetto dell’indagine, ma di “salvare” comunque un risultato ottenuto dal consulente attraverso una procedura che ha accidentalmente deviato verso percorsi poco ortodossi.

Ecco perché si parla di “prova atipica”: la ragione per la quale quel materiale viene utilizzato non è la sua derivazione da una legittima consulenza tecnica “ampliata” (perché questo potere compete solo al

giudice, a non al consulente tecnico), bensì un pragmatico “salvataggio” di risultati ormai acquisiti agli atti ispirata da un principio di economia processuale.