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L AURA P API E LA SUA “ FUGA ”

Nel documento Le muse di Montale (pagine 139-144)

Capitolo quarto

IV. X ENIA : P OESIE A M OSCA

IV. 2 L AURA P API E LA SUA “ FUGA ”

C’erano le betulle, folte, per nascondere

Laura Papi si annovera fra le ultime muse montaliane: il poeta la conobbe a Firenze nel 1963, anno della morte di Mosca, e la frequentò nelle estati successive a Forte dei Marmi, «la “suite” è la storia di un ultimo amore fra una giovane e un vecchio. La ragazza andava soggetta a cicli di depressione che toccavano la pazzia»464. Montale costituì un ciclo di poesie dedicate alla giovane: Dopo una fuga,

non si nasconde fuori…, e Il primo gennaio.

C’erano le betulle, folte, per nascondere il sanatorio dove una malata

per troppo amore della vita, in bilico tra il tutto e il nulla si annoiava. (vv.1-4)

463 R.CASTELLANA, op. cit., p. 213. 464 L.GRECO, op. cit., p. 65.

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Il poeta ricorda il «sanatorio» dove soggiornava la giovane «malata». Si percepisce, attraverso l’opposizione malattia/vita, il paradosso di chi, proprio perché contiguo alla morte, sente più vicina la vita. Tra le varie cose e persone intorno al sanatorio c’è anche il poeta che andava a far visita alla giovane:

E c’ero anch’io, naturalmente, e altri seccatori per darti quel conforto che tu potevi distribuirci a josa

solo che avessimo gli occhi. Io li avevo. (vv.13-16)

È tutto apparentemente ordinato e pulito, eppure è proprio questo a contrastare con la natura della donna, e, come suggerisce nel suo commento Castellana, l’amore per la vita della ragazza è eccessivo «se può portare alla follia, e ignoto ai seccatori venuti a trovarla»465. Il contrasto è qui tra l’«io» e gli «altri»; ma, mentre la maggior parte dei visitatori non ha occhi, il poeta è l’unico a capire e raccogliere il «conforto» che la giovane può dare. Un altro flash accompagna la seconda parte della suite: Laura cammina male, poiché nel suo viaggio in Indonesia venne punta da un pesce velenoso, le cui spine vennero poi tolte in Italia.

Il tuo passo non è sacerdotale,

non l’hai appreso all’estero, alla scuola di Jacques-Dalcroze, più smorfia che rituale. Venne dall’Oceania il tuo, con qualche spina di pesce nel calcagno. […] (vv.1-3)

Siamo ancora in sanatorio e Laura «difetta di ieratica eleganza»466, camminando male, poiché dal viaggio in Oceania ha riportato una «spina di pesce nel calcagno». La ferita della giovane offre al poeta l’avvio per un pensiero molto più profondo: la fuga nei mari australi, dove ella si è ferita, «fu una pericolosa avventura anche morale» in cui Laura «perdette quasi la ragione»467.

465 R.CASTELLANA, op. cit., p. 243. 466 Ibidem, p. 245.

141 […] Poi venne

ad avvolgerti un sonno artificiale. Di te qualche sussurro in teleselezione

con un prefisso lungo e lagne di intermediari. (vv.11-14)

Dopo il breve viaggio in Oceania e la ferita, la giovane viene nuovamente portata in una clinica svizzera e lì riempita di farmaci che la fanno cadere in un «sonno artificiale». Il poeta continuerà a sentirla per telefono, ma le telefonate saranno sempre più rade e l’assopimento innaturale della ragazza sarà sempre più simile a quello di un «acquario». Laura è una sorta di nuova Esterina, protesa alla fuga, in questo caso dalle rigide regole della società e dalle «vuote convenzioni dell’alta borghesia»468, rappresenta per il poeta quello slancio vitale che a lui è sempre mancato, pur sentendosi l’unico a capire il malessere della giovane.

La mia strada è passata

In questa quarta lassa si assiste alla descrizione delle due fughe di Montale e Laura: quella poetica e quella dalla vita.

La mia strada è passata

tra i demoni e gli dèi, indistinguibili. […]

Ora non domandarmi perché t’ho identificata, con quale volto e quale suono entrasti

in una testa assordita da troppi clacson. (vv.1-2, 6-8)

La «strada» percorsa da Montale è quella della poesia, concepibile come “fuga” dalla necessità e dalla realtà, mediante l’uso di una lingua poco incline all’omologazione e alla semplificazione. Su questa strada è passata anche la donna, inconsapevole “salvatrice”, che entrò dentro «una testa assordita da troppi clacson». Il poeta ricorda anche il primo incontro dei due, quando il «cervello» di Laura «pareva/ in evaporazione» e quello di Montale «non era migliore»: la giovane infatti

468 R.CASTELLANA, op. cit., p. 243.

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mostrava già i segni della malattia nervosa in corso e il poeta invece quelli della senilità.

Ma tu non ne sai nulla: se fu sogno

Laccio tagliola è inutile domandarselo. (vv.16-17)

Torna il motivo dell’inconsapevolezza della donna, del “tu non ne sai nulla”; il poeta evidenzia come sia inutile domandarsi che tipo di legame sia quello che unisce i due, «se fu sogno / laccio tagliola», entrambe le vicende biografiche sono connotate dall’aver scavalcato «l’inferno dei vivi», lasciandosi alle spalle «il vuoto, l’insensatezza»469 ed un «eliso inabitabile».

Il repertorio

Dopo la parentesi di Laura Papi, torna ad affacciarsi Mosca470. Questo testo del 14 dicembre 1969 è articolato intorno alla parola “repertorio”, quello della memoria, che fa da incipit alle quattro strofe di cui è composto il testo, e gioca con i pronomi “io, tu, noi”.

Il repertorio della tua memoria

me l’hai dato tu stessa prima di andartene. C’erano molti nomi di paesi, le date

dei soggiorni e alla fine una pagina in bianco, ma con righe a puntini…quasi per suggerire, se mai fosse possibile, “continua”. (vv.7-12)

La memoria è paragonata a una valigia: quella del poeta è ormai logora, mentre quella della donna è minuziosamente conservata dalle pagine di un diario, che «si

469 R.CASTELLANA, op. cit., p. 252. 470 Cfr. L.GRECO, op. cit., p. 67.

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conclude con un invito al superstite a continuare a vivere in assenza di lei»471. Ma il «repertorio» della memoria acquista senso se lo si legge sotto la luce del “noi”:

Il repertorio

della nostra memoria non si può immaginarlo

tagliato in due da una lama. È un foglio solo con tracce di timbri, abrasioni e qualche macchia di sangue. Non era un passaporto, neppure un benservito.

Servire, anche sperarlo, sarebbe ancora la vita. (vv.13-18)

È la memoria di una vita comune ad acquistare senso, e non si può immaginarlo «tagliato in due da una lama», e questo repertorio contiene sia elementi di assoluta quotidianità, sia traumi privati «qualche macchia di sangue». Non aveva la forma né del «passaporto» né del «benservito», e da questa parola, con gioco etimologico Montale conclude sostenendo che se ci fosse stato sempre da «servire», allora «sarebbe ancora la vita».

471 R.CASTELLANA, op. cit., p. 270.

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Nel documento Le muse di Montale (pagine 139-144)