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Autorità educativa e nuove forme di autoritarismo dopo il

Sessantotto

Fabrizio d’Aniello

1. Introduzione. Il Sessantotto tra antiautoritarismo e

marginalizzazione dell’idea di autorità

Come un terremoto, il Sessantotto ha scosso plurime dimensioni esistenziali e, ugualmente, ha scosso anche la pedagogia, l’educazione, la scuola, l’università, non trascurando ripensamenti epistemologici, revisione di modi, forme e luoghi, appelli di democratizzazione e partecipazione.

Se l’università è stata il luogo di nascita del movimento di protesta italiano, la scuola è stata nondimeno al centro di un aspro campo di battaglia, diviso tra ipotesi demolitrici di stampo illichiano e più moderatamente trasformative, la cui risultanza di sintesi, rinviante a una premura decostruttiva-ricostruttiva, ha finito per investire pure la natura della pedagogia tout court, così come la configurazione dei rapporti educativi familiari e l’educazione degli adulti, appena sollecitata dal neonato progetto dell’educazione permanente.

In definitiva, una determinata pedagogia e una determinata educazione furono complessivamente chiamate a lasciare spazio a una pedagogia e a un’educazione «nuove», tese a dar vita a un uomo «nuovo». E il principio animatore del «nuovo» non poté non saldarsi con il tentativo di abbattere il bersaglio principale della contestazione: l’autoritarismo. Un autoritarismo sovente nutrito dal nesso foucaultiano sapere-potere

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 e da un’impostazione e un pregiudizio aristocratici e classisti, nonché esercitato a differenti livelli: istituzionale in genere, accademico, scolastico, familiare, ecc. Un autoritarismo, ancora, che si esprimeva essenzialmente con l’ingerenza dall’alto e che pretendeva specialmente dai giovani la sottomissione acritica a prescrizioni sul modo di comportarsi, pensare, concepire la realtà.

Scopo di questo intervento è giusto quello di evidenziare sommariamente come la lotta all’autoritarismo e la crisi dei modelli di riferimento corrispondenti abbiano sostanzialmente causato un disorientamento e un disperdersi dell’idea di autorità nel diniego dell’autoritarismo tali da agevolare l’imporsi di un modello altrettanto autoritario. In quest’ottica, quanto avvenne nella scuola è esemplificativo di una situazione più generale.

Come rileva Chiosso (2015), subito dopo il Sessantotto alcune proposte della sinistra radicale furono accolte all’interno del sistema scolastico italiano, ma il rigetto dell’autoritarismo, affidato a prove diversificate di una «scuola nuova», non si risolse in un disegno finalistico chiaro, capace di una riforma organica, bensì nell’abbozzo di una confusa sovrapposizione tra antiautoritarismo e marginalizzazione generalizzata dell’autorità. Tali prove dapprima produssero la politicizzazione dell’esperienza didattica, la degerarchizzazione dei rapporti interpersonali, convalidando presupposti libertari, e l’autonomizzazione della stessa didattica da una «metafisica influente», da cui la così detta «eclissi dell’educativo» e la riduzione dell’educazione ad apprendimento (Macchietti, 2015, pp. 24-25). Quindi, naufragato nel nulla il disarticolato intento riformatore, condussero semplicemente al sopravvento della dimensione libertaria su quella prettamente politica, concorrendo al radicarsi di un soggettivismo, di una difficoltà a rinvenire valori condivisibili e di una debolezza relativistica che, presto, si estesero anche al piano familiare e sociale, aiutati dall’irrompere del neoliberismo e del suo portato di individualismo esasperato. Tutto questo mentre la pedagogia si interrogava come disciplina e constatava progressivamente l’affermarsi di una cultura educativa di marca anglosassone, pragmaticamente centrata più sui mezzi che sui fini, e l’emergere di un nuovo paradigma: le scienze dell’educazione.

Come ogni terremoto, quello del Sessantotto ha generato macerie, probabilmente «rimosse» con troppa fretta. Poiché la scossa non è stata così potente da aver dato corpo a un cambiamento radicale, come osserva Riva (2012) dall’euforia si è passati ragionevolmente alla depressione e in questo brusco transito si è incuneato un difetto di riflessione pedagogica e socio-culturale da parte della società nel suo complesso in grado di valutare e metabolizzare adeguatamente le suddette macerie. Ciò, a

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muovere giustappunto dalla sovrapposizione tra antiautoritarismo e rifiuto generico dell’autorità –dal caso paradigmatico della scuola agli universi circostanti– fino all’intrecciarsi di questa sovrapposizione con l’avvento del neoliberismo, con riflessi ed esiti che scontiamo ancora oggi.

2. Crisi dell’autorità: dal godimento all’alleanza educativa

tra limite e desiderio

Benché a distanza di cinquant’anni, o meglio proprio perché dopo cinquant’anni la «rimozione» di certi fantasmi si lega con criticità educative del presente, la pedagogia può e deve contribuire alla predetta opera riflessiva, a cominciare segnatamente dal rapporto con l’autorità. Autorità e desiderio, l’altra grande scoperta del Sessantotto. Desiderio disancorato dal bisogno e libertà. Dietro le trame ordite tra questi elementi si nasconde il punto di svolta della tardo-modernità. Ma procediamo con ordine.

Alla fine degli anni sessanta, come output della reazione ai modelli autoritari, Mitscherlich (1970) previse il verificarsi di una società senza padre, perciò priva di tutele e inadatta a trovarne. Il tema della scomparsa del padre, però, non è stato affrontato solo dallo psicoanalista. Dopo averla trattata in riferimento ai totalitarismi, Lacan (2006) ritorna sulla tematica del padre negli anni della contestazione, evocando la sua evaporazione. Per Lacan il padre è l’elemento fondante la famiglia e il corpo sociale, è colui che distacca il figlio dalla madre e lo rende «in-dipendente», che ne canalizza positivamente e anti-autodistruttivamente l’aggressività e lo prepara al sano desiderio. Il padre costituisce simbolicamente quell’alleanza tra legge e desiderio che garantisce l’espressione identitaria del figlio. La sua evaporazione (l’evaporazione della legge/autorità) invalida il limite edipico al principio di godimento assoluto, il quale non è né desiderio né, tanto meno, prova di libertà.

Uscendo dal circuito psicoanalitico, possiamo avanzare una prima lettura del godimento come incapacità di desiderare e crescere, come perdita di una tensione etica in favore di una persistenza nell’adesso estetico, come soddisfazione «im-mediata» di un non-desiderio.

Precisato questo, il Sessantotto ha giustamente combattuto l’autoritarismo e, con esso, il «discorso del padrone» di Lacan. Come anticipato, l’errore non è lì ma è avvenuto successivamente, non permanendo in una riflessività capace di ricomprendere le macerie e disambiguare una confusa indistinzione tra autoritarismo e autorità, lasciando che si accantonasse l’intera imago dell’autorità e lasciando che si imponessero nuovi autoritarismi: su tutti l’ancora lacaniano «discorso del capitalista».

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 Il tramonto del padre e l’annesso svincolamento del desiderio dalla legge appaiono coessenziali allo sviluppo del neoliberismo e di un nuovo capitalismo (Deleuze & Guattari, 1976). Di quel capitalismo che riemerge dalla protesta sessantottina e sussume nel suo apparato gradualmente globalistico le istanze di libertà, autonomia, creatività e femminilizzazione del lavoro (Revelli, 2001). Capitalismo neoliberista, «de-regolatore», alleato di una «unità-impresa» in eterna competizione (Foucault, 2005, p. 186), alla ricerca del proprio interesse e di una felicità privata nell’iperconsumo (Lipovetsky, 2007). Capitalismo edipico, dal parricidio all’incesto, cioè al godimento illimitato scovabile primariamente nell’unica cosa duratura in uno scenario di precarietà occupazionale-esistenziale: la merce.

Involontariamente e paradossalmente, quel Sessantotto che si era opposto al capitalismo e al consumismo si ritrova a spianare loro la strada. Si potrebbe dire che l’aspirazione sessantottina alla libertà è calamitata da una verità economica che modella una concezione funzionale e distorta della libertà stessa. In proposito, Cavallera (2011, p. 93) afferma che il Sessantotto è stato un «momento di liberalizzazione […] che poteva condurre a sbocchi non solo comunisti o anarchici, ma anche liberisti». Per lo storico, l’antiautoritarismo si è fuso con il progetto neoliberista e le radici di ciò risiedono già nelle tendenze anti-adultiste degli anni cinquanta del

boom economico, quando la domanda di liberazione dei costumi incontra

l’offerta della logica di mercato, la quale punta sull’edonismo giovanile. Gli esiti del Sessantotto riabbracciano questo incontro (anche oltre la sfera giovanile), dando nomi nuovi alla libertà: da un lato libertà di godimento e dall’altro libertà di farsi unità-impresa performante, appunto. A fare la propria parte in questa partita di pseudo-libertà è pure la pedagogia, dagli anni settanta e ottanta (eclissi dell’educativo) fino a oggi, con il paradigma del lifelong learning, giacché sempre più incline a servire i mezzi apprenditivi rivolti all’economico e alle sue esigenze e sempre meno a favorire una dimensione teleologica disinteressata.

Sulla base della predominanza della sfera economico-consumistica –rafforzata dal nesso precarietà occupazionale-ciclicità del presente– imperativo consumistico del «godi ora» – si può ampliare la prima lettura del godimento come «im-mediatezza» della soddisfazione nella dispersione del soggetto nell’oggetto, anzitutto di consumo (Giorgetti Fumel, 2012). È intuibile come questo oggetto –estendendo il raggio della semantica consumistica– possa identificarsi nondimeno in un target di aggressività dettata da una logica di possesso consumerico dell’altro e delle cose, o nell’oggetto di consumo sessuale, o ancora nel consumo di sostanze, oppure, rimandando al «farsi performante», nell’oggetto-forma dell’apparenza e nell’oggetto-immagine della popolarità (la vendibilità di

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sé). Per tutto questo, il discorso sul padre assume un significato rilevante nella riflessione pedagogica.

L’evanescenza del padre, pedagogicamente parlando, è l’evanescenza di figure adulte educativamente significative. Seguendo la cronaca più e meno recente e analizzando i vari report sulla condizione giovanile degli ultimi quindici anni, i giovani italiani aderiscono al ritratto della «dispersione» dato. Inoltre, disorientati, immersi nel presente estetico, tesi a eludere responsabilità e regole e generalmente sfiduciati, ancorché con una gran voglia di fare e di mettersi in gioco, lamentano il bisogno di qualcuno che si metta in sintonia e li supporti fornendo un fermo riferimento esistenziale a casa come a scuola, ossia di figure educativamente significative.

In questo senso, Bellingreri (2014, p. 20), in linea con il discorso sul Sessantotto e con quanto addotto, sollecita «il ritorno del padre in educazione». Non si tratta di ritornare a modelli autoritari, ma di ripartire consapevolmente dal loro smarrimento per mirare a un’autorità/ autorevolezza che è e si fa dono di senso oltre la libertà liberistica. Si tratta di recuperare l’alleanza perduta tra legge e desiderio.

Consequenzialmente è educativamente significativa quella figura (insegnante o genitore) che evoca il senso educativo del limite quale freno al godimento. Con tale «regol-azione» riconsegna al desiderio la sua potenza trasformativa. Questa, secondo il significato di un’accensione progettuale strettamente ancorata alla inesauribilità del possibile autorealizzativo, laddove il futuro s’impone sulla sterilità del presente grazie alla forza rinviante del desiderio medesimo, il quale si rivivifica ogniqualvolta viene raggiunto un obiettivo della progettualità attesa. L’educatore significativo è perciò colui che apre l’orizzonte di senso dell’educando trascendendo l’immanenza esistenziale e le sue lacune. Con l’indicazione del limite egli fa intravedere la praticabilità di vivere appieno il potenziale umano oltre le secche di un godimento intrappolato nell’oggi eterno. L’educatore significativo è colui che si (s)porge per costruire e mediare insieme valori su cui impiantare desiderio di crescita e libertà come capacità di agire la vita. È ancora colui che testimonia la fatica etica dell’essere al mondo, ma anche la riuscita possibile, mettendo a disposizione il proprio sapere e agire all’interno di uno spazio testimoniale-educativo intitolato alla responsabilità. È pertanto significativo e autorevole l’educatore che è «abile a rispondere» (respons-abile) alle domande di senso dei giovani assieme a loro, che educa alla responsabilità e che è moralmente responsabile: si può abbandonare una dimensione estetica, una tensione superficiale legata al godimento e la voglia di perdersi nell’oggetto se si sente la responsabilità dell’educare, si educa alla responsabilità e si vive la responsabilità testimoniandola.

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3. Conclusioni. Autorità/autorevolezza educativa ed

educazione alla responsabilità