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Il Sessantotto e la pedagogia critica di Ivan Illich Negli anni Sessanta i sistemi di istruzione sono stati oggetto di

Il Sessantotto nella pedagogia di Ivan Illich: come leggere

2. Il Sessantotto e la pedagogia critica di Ivan Illich Negli anni Sessanta i sistemi di istruzione sono stati oggetto di

importanti riforme tanto negli Stati Uniti quanto nei paesi dell’Europa occidentale: fra gli effetti della ripresa economica successiva alla seconda guerra mondiale vi fu anche il miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie e, con esso, una maggior consapevolezza sulle opportunità di mobilità sociale collegate all’accesso allo studio, secondario e universitario. Istanze di cambiamento giungevano anche dal mondo del lavoro per la necessità di disporre di personale qualificato e sufficientemente preparato ad accompagnare le innovazioni, tecniche e organizzative, nei processi

Il Sessantotto nella pedagogia di Ivan Illich: come leggere in chiave contemporanea la «descolarizzazione della società»

produttivi di quegli anni. Non potendo entrare nel merito dei singoli provvedimenti adottati, mi limito a rilevare due tendenze contrastanti alla base delle quali vi sarebbero molte delle ragioni che hanno sollecitato la contestazione studentesca. Da una parte gli interventi legislativi sulla scuola e sull’università, pressoché ovunque, sono stati concepiti dai governi per accompagnare i processi di ammodernamento e sviluppo di allora innalzando l’accesso e la permanenza dei giovani fino ai gradi più elevati del sistema di istruzione pubblica: mai come in quel periodo la percentuale di studenti raggiunse livelli così elevati sul totale delle coorti giovanili e il prolungamento degli studi divenne un fenomeno di massa. Dall’altra, però, si determinarono problemi strutturali, soprattutto a livello universitario (la scarsa disponibilità di aule e spazi studio, la proliferazione degli assistenti per reggere l’impatto di corsi sempre più affollati, la «svalutazione» dei titoli di studio) e, ancor di più, si manifestarono resistenze culturali interne alle stesse istituzioni scolastico-universitarie da parte di chi, fra il corpo docente e accademico, non aveva saputo (o voluto) leggere nelle riforme un adeguamento di mandato e si era arroccato su posizioni conservatrici circa la funzione di selezione sociale in carico all’istruzione e al suo apparato. È anche da un simile contrasto che si sono generate alcune delle posizioni ideologicamente più radicali del Sessantotto, come la contestazione di ogni forma di autorità e l’affermazione di principi anarchici.

Quanto stava accadendo, per i contesti in cui il «movimento» ha preso forma e, dunque, per le evidenti implicazioni educative, non poté non influire sulle teorie pedagogiche di quella stagione: fra i temi più significativi del dibattito attorno all’educazione negli anni immediatamente successivi al Sessantotto vi fu la critica all’ideologia scolastica, rea, attraverso programmi, libri di testo, pratiche didattiche e formazione del corpo docente, di essere espressione del pensiero unico capitalistico-borghese. Quella pedagogia, intrisa di atteggiamenti e valori autoritari, fu smontata e demistificata (Cambi, 2005) da altre impostazioni, definite «alternative», «radicali» o, più semplicemente, «critiche». Entro questa espressione, oltre alle posizioni di chi ha esercitato la funzione critica in chiave epistemologica, rivolgendola cioè allo stesso discoro pedagogico nelle sue varie prerogative (di linguaggio, di metodo, di finalità), vanno incluse soprattutto quelle manifestazioni di dissenso rispetto al modo in cui le pratiche e le istituzioni educative si sono venute a connotare in una determinata società, allo scopo di cambiarle. L’azione di critica, infatti, a partire dalla radice etimologica del verbo krino (giudico), indica il giudizio o l’apprezzamento sulla «validità» o sul «valore» di qualcosa, che non si riduce, però, a dati d’esperienza accolti passivamente o ad opinioni non vagliate: la critica, in quanto attività del pensiero che produce un giudizio

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 consapevole, investe (o, meglio, dovrebbe investire) anche l’azione (Colicchi, 2009).

Fra le espressioni più radicali del dissenso, e che includono, fra le altre, l’autogestione pedagogica di Georges Lapassade, la pedagogia

degli oppressi di Paulo Freire o l’educazione incidentale di Paul Goodman,

merita di essere qui considerata la produzione di Ivan Illich e, in particolare, l’opera che probabilmente meglio di ogni altra lo avvicina ad alcune delle rivendicazioni del movimento sessantottino: Descolarizzare la società. Occorre subito precisare la natura di tale vicinanza, nel senso che Illich, oltre a trovarsi fisicamente lontano dagli epicentri della contestazione, fra America Latina, Porto Rico e Messico, non fece alcun riferimento esplicito in quel testo a quanto stava accadendo nelle scuole e nelle università europee; il momento in cui il saggio fu scritto (la prima edizione è del 1970) e, soprattutto, i suoi contenuti, suggeriscono però un’affinità di orientamenti con la linea tenuta dagli studenti sulla funzione della scuola.

Il principale problema che aveva ispirato la mobilitazione consisteva nella denuncia della matrice ideologica alla base delle pratiche didattiche e delle teorizzazioni pedagogiche del tempo; la scuola, in altri termini, anziché offrire itinerari formativi in grado di rivolgersi alle coscienze dei giovani e consegnare loro le redini dei propri destini in funzione delle capacità individuali, finiva con l’essere uno strumento di riproduzione dell’ordine sociale nelle mani della classe capitalistico-borghese. Il medesimo assetto conservativo si era insinuato anche in altre istituzioni –la famiglia su tutte– ma evidentemente nella scuola, più che altrove, ciò contrastava in maniera conflittuale con la legittima aspirazione di protagonismo delle nuove generazioni.

Ebbene, con l’affermazione di voler «abolire l’istituzione scolastica», resa esplicita già nel titolo del primo capitolo del libro, anche Illich, con l’inconfondibile stile provocatorio e radicale, tipico della sua produzione, chiarisce immediatamente come a dover essere abolita, in realtà, non debba essere la scuola in quanto tale, ma il processo di istituzionalizzazione che l’ha ingabbiata e l’ha privata della sua funzione originaria. Anche per lui gli «organismi burocratici del corporate state» ad aver subito medesima sorte sono stati più d’uno –la famiglia consumistica, i partiti, l’esercito, la chiesa e i media– e così come «l’istruzione pubblica trarrebbe giovamento dalla descolarizzazione della società, così alla vita familiare, alla politica, alla sicurezza collettiva, alla fede e alle comunicazioni gioverebbe un processo analogo» (Illich, 1970, p. 12). Nelle sue pubblicazioni successive – da Convivialità del 1973 a Nemesi medica del 1975 – Illich svela il filo rosso che collega fra loro gli scritti, ovvero la critica al modo dominante, se non unico, di intendere lo sviluppo e il concetto di «crescita»: «Ciascun

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saggio –si legge in Disoccupazione creativa–, nell’esaminare un settore diverso della crescita economica, dimostra una regola generale: i valori d’uso vengono ineluttabilmente distrutti quando il modo di produzione industriale raggiunge quel predominio che io ho chiamato monopolio radicale». E ancora, poco oltre: «in tutte le società lo sviluppo ha avuto il medesimo effetto: ognuno si è trovato irretito da una nuova trama di dipendenza nei confronti di prodotti sfornati dal medesimo tipo di macchine: fabbriche, cliniche, studi televisivi, istituti di ricerca. Per appagare questa dipendenza bisogna continuare a produrre le stesse cose in quantità maggiori: beni standardizzati, concepiti e realizzati ad uso di un futuro consumatore già addestrato dall’agente del produttore ad aver bisogno di ciò che gli viene offerto» (Illich, 2005, p. 28).

Come ha osservato Gaudio (2012), insomma, la cifra comune che contraddistingue le tesi di Illich è la relazione fra bisogni e scarsità in relazione alla loro gestione professionalizzata: in altri termini, ciò che determina il processo di istituzionalizzazione –e che rappresenta il vero problema con cui misurarsi– è la trasformazione di un legittimo bisogno sociale in uno spazio di mercato non necessariamente finalizzato al profitto (si pensi alla salute e, appunto, all’istruzione), ma ugualmente regolato da un meccanismo di domanda-offerta indotto, fra le altre cose, dall’eccessiva professionalizzazione degli interventi che quello stesso bisogno presuppone. Descolarizzare –o, più diffusamente, deistituzionalizzare– per Illich aveva il significato di arginare la de-umanizzazione (Kahn, 2009), vale a dire l’eccesso di sovrastrutture tecnocratiche e normative, il più delle volte concepite sotto l’egida dello Stato, per riconsegnare alla dimensione umana, nei suoi connotati di creatività e autonomia, l’essenziale attitudine a conoscere, curarsi, regolare le relazioni con gli altri e con il mondo. Per la scuola ciò significava, anzitutto, scardinare alcuni punti fermi della prassi didattica –la suddivisione degli allievi in classi sulla base dell’età, la «frantumazione dell’apprendimento» in materie, l’illusione di far coincidere la competenza con la carriera scolastica– e, soprattutto, riconsiderare la funzione di accompagnamento della relazione educativa, ridotta invece a essere uno scambio fra insegnanti-distributori e allievi-consumatori in cui le performance standardizzate dei secondi vengono successivamente utilizzate per giustificare nuove formulazioni del modello che, sotto le mentite spoglie di slogan accattivanti –la centralità dello studente, l’ausilio delle tecnologie, la didattica per problemi, e così via–, non ne modificano il senso di omologazione.

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3. Conclusione

Sull’utopia della descolarizzazione, così come sulla vicinanza ideologica fra le tesi di Illich e il movimento studentesco si corre il rischio di non essere particolarmente originali: si tratta infatti di itinerari di ricerca già ampiamente battuti dalla storia della pedagogia o dalla pedagogia sociale e che puntualmente ritornano in occasione delle varie ricorrenze, anche passate, del Sessantotto; un aspetto, però, che pare utile segnalare in questa sede, in una fase storica in cui le nozioni di «crescita» e «sviluppo», nelle loro molteplici accezioni, sono soggette a continue revisioni di ordine antropologico ed economico, tanto più a seguito di quanto accaduto dopo il 2008, è la constatazione di un ritorno di alcuni dei temi cari a Illich o, per dirla altrimenti, dell’attualità del suo pensiero.

Sui dubbi rivolti a una scuola incapace di assecondare la naturale disposizione dei bambini ad apprendere, anche in assenza di aule, insegnanti e attività didattiche strutturate , si era già espresso Gardner negli anni Novanta, quando, a proposito dell’apprendimento del linguaggio nelle prime fasi di vita, lo associava a vincoli neurobiologici ed evolutivi che hanno a che fare, cioè, «con l’appartenenza a una specie e con quei principi dell’evoluzione umana che prevedibilmente agiscono in tutti gli ambienti fisici e sociali che si incontrano nel mondo» (Gardner, 1991, p. 17); la frequenza della scuola, invece, fa leva su vincoli di altra natura, storici e istituzionali, in virtù dei quali il vero obiettivo che le scuole perseguono attraverso il processo di insegnamento-apprendimento, non sarebbe la comprensione profonda e genuina dei fenomeni ma, piuttosto, la preparazione degli studenti ad eseguire in maniera convenzionale prestazioni meccaniche e ritualizzate. Se Illich si era spinto nel disegno utopistico di descolarizzare la società intera, Gardner sembra voler rivolgere il medesimo intento alla mente del bambino –unschooled

mind è l’espressione evocata dallo psicologo americano– per liberarla

dal condizionamento delle sovrastrutture istituzionali e restituirle la sua naturale plasticità.

Sulla necessità, poi, di riconfigurare entro una dimensione più umana e sostenibile lo sviluppo, secondo principi di equità, giustizia sociale o –per dirla con Illich– di convivialità, le connessioni con posizioni critiche rispetto al primato dell’economia capitalistica sono ricorrenti: la più esplicita, probabilmente, si riscontra nei lavori di Serge Latouche sul concetto di «decrescita», ove i numerosi rimandi rivolti al pensiero illichiano si palesano già nel comune utilizzo del prefisso «de-» (de-scolarizzare e de-crescere) per indicare la necessità di arrestare, rallentare o invertire processi che hanno sovvertito le ragioni stesse da cui hanno tratto origine.

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Da ultimo, anche il monito lanciato dal pedagogista inglese Ken Robinson sulla necessità di cambiare i paradigmi dell’istruzione, rimasta sostanzialmente ferma a modelli di insegnamento e apprendimento che potevano essere validi in epoche passate, ma lontani dal fornire le conoscenze di cui hanno bisogno i ragazzi di oggi, sembra affondare le proprie radici in alcune delle motivazioni che spinsero Illich ad auspicare un’azione descolarizzatrice. Un punto sul quale Robinson insiste nelle sue numerose pubblicazioni, riguarda l’incapacità della scuola di cogliere le reali potenzialità degli alunni che la frequentano e di assecondare la loro disposizione alla creatività e al pensiero divergente: «I sistemi attuali –scrive Robinson– pongono limiti rigidi al modo in cui gli insegnanti insegnano e gli studenti apprendono. L’abilità accademica è molto importante, ma lo sono anche le altre abilità […]. Questi approcci educativi stanno soffocando alcune più importanti abilità, necessarie ai nostri giovani per farsi strada nel mondo sempre più esigente del ventunesimo secolo: i poteri del pensiero creativo» (Robinson, 2012, pp. 27-28). Ebbene, in un significativo passaggio di Descolarizzare la società, Illich, nel prendere le distanze dall’uso di programmi e pratiche didattiche omologanti, spiega il valore di ciò che egli chiamava «educazione liberale»: quell’educazione, cioè, volta a favorire le condizioni per un uso aperto ed esplorativo delle capacità acquisite, libera dalla rigidità dei programmi scolastici e degli ordinamenti istituzionali. Attraverso espressioni significativamente sintoniche a quelle di Robinson, Illich conclude che «l’educazione a un’utilizzazione esplorativa e creativa delle capacità […] può essere il punto di arrivo di un insegnamento, ma di tipo sostanzialmente opposto all’esercitazione pratica. Si fonda infatti sul rapporto fra partner che già posseggono le chiavi che danno accesso alle conoscenze accumulate nella e dalla comunità. Si fonda sullo spirito critico di quanti si servono di queste conoscenze in modo creativo. Si fonda infine sulla domanda sorprendente e inattesa che apre nuove prospettive a chi l’ha presentata e a chi l’ha ricevuta» (Illich, 1970, p. 35).

4. Note bibliografiche

Cambi, F. (2005). Le pedagogie del Novecento. Roma-Bari: Laterza.

Cambi, F., & Betti C. (a cura di) (2011). Il ’68: una rivoluzione culturale tra

pedagogia e scuola. Itinerari, modelli, frontiere. Milano: Unicopli.

Cavalli, A., & Leccardi C. (2013). Le quattro stagioni della ricerca sociologica sui giovani, Quaderni di sociologia, 62, pp. 157-169.

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 Colicchi, E. (a cura di). (2009). Per una pedagogia critica. Dimensioni

teoriche e prospettive pratiche. Roma: Carocci.

Gaudio, A. (a cura di). (2012). Illich. Un profeta postmoderno. Brescia: La Scuola.

Illich, I. (1972) [1970]. Descolarizzare la società. Milano: Mondadori. Illich, I. (2004) [1975]. Nemesi medica. Milano: Mondadori.

Illich, I. (1975) [1973]. Convivialità. Milano: Mondadori.

Illich, I. (2005) [1978]. Disoccupazione creativa. Milano: Boroli.

Latouche, S. (2016). La decrescita prima della decrescita. Precursori e

compagni di strada. Torino: Bollati Boringhieri.

Robinson, K. (2012). The Element. Milano: Mondadori.

Tolomelli, M. (2008). Il Sessantotto. Una breve storia. Roma: Carocci.

Sull’Autore

Matteo Cornacchia email: mcornacchia@units.it

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