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Documenti del Movimento studentesco per rivoluzionare

l’università italiana

Loretta De Franceschi

1. Introduzione

Il Movimento studentesco del ‘68, nella sua lotta contro tutte le forme di potere e di autorità precostituite, individuava nel sistema scolastico in generale, e particolarmente nella formazione universitaria, uno snodo cruciale da riformare. Lo sviluppo economico che negli anni Sessanta si era diffuso in Italia, coinvolgendo anche i ceti sociali più bassi, aveva permesso un innalzamento del livello di scolarizzazione e, di conseguenza, un ampliamento dell’accesso all’istruzione superiore.

La popolazione studentesca universitaria era andata quindi crescendo con l’ingresso di giovani prima esclusi, innescando un processo di democratizzazione della formazione universitaria. Difatti, a metà degli anni Cinquanta gli iscritti all’università in Italia erano nel complesso 212.000 circa, mentre un decennio dopo il numero era quasi raddoppiato, toccando 425.000 iscrizioni. Diveniva chiaro che l’istruzione superiore appannaggio delle classi sociali elevate si stava sgretolando, e che l’università concepita come istituzione elitaria –promossa in epoca fascista dalla riforma scolastica di Giovanni Gentile– si stava trasformando in università di massa. Questo afflusso massiccio di giovani, in buona parte con scarse risorse economiche, poneva gli atenei di fronte a urgenti problemi di natura non solo didattica ma anche gestionale e logistica.

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 Intanto, la ventata libertaria che soffiava dagli Stati Uniti d’America aveva raggiunto anche l’Europa e l’Italia, determinando forme di aggregazione che negli atenei vedevano la nascita di un Movimento studentesco che agiva sostenendo anche le lotte degli studenti medi, degli operai e, almeno sul piano ideale, delle donne. Fondamentalmente, il Movimento studentesco nel suo insieme era anticapitalista, antimilitarista, interclassista e ambientalista.

Il Movimento studentesco degli universitari rifiutava, nello specifico, l’autoritarismo dell’istituzione accademica e dei suoi rappresentanti ufficiali, premendo per un radicale mutamento delle relazioni interne e delle condizioni di vita della popolazione studentesca, rivendicando sussidi e agevolazioni. Sul piano finanziario e delle infrastrutture –ad esempio– ciò significava l’abolizione delle tasse e la creazioni di mense, biblioteche, alloggi. Sul piano della didattica si rifiutava il dogmatismo, il nozionismo e l’autorità del corpo docente rappresentato dai cosiddetti «baroni» che spadroneggiavano liberamente. A essi veniva chiesta innanzi tutto una maggiore presenza –l’obbligo era infatti di sole 52 ore di lezione, in gran parte svolte da assistenti–; lo svolgimento di attività collaterali come esercitazioni, seminari, laboratori; un preciso orario di ricevimento; programmi d’esame flessibili e concordati; inoltre la sostituzione dell’esame orale e individuale, il cui voto non poteva essere rifiutato, con colloqui collettivi in cui lo studente partecipava alla decisione del voto finale. Altro punto centrale era l’inserimento di rappresentanti degli studenti in tutti gli organi di governo universitari.

Questa ondata di ribellione interna agli atenei che chiedeva, in sostanza, di rifondarne concezione e struttura su nuove basi, sfociava nell’occupazione, temporanea o permanente di molte facoltà in varie sedi, a cominciare da quella di Trento nel settembre del ’67, con l’unica facoltà di Sociologia del paese perennemente occupata. Le occupazioni divenivano anche momenti di ulteriore dibattito e riflessione, in assemblee che portavano talvolta alla stesura di documenti guida su principi, obiettivi e metodi di lotta.

2. Sintesi

Anche a Pisa gli studenti universitari si ribellavano a un sistema formativo ritenuto reazionario e arretrato. L’evento scatenante diveniva l’occupazione dal 7 all’11 febbraio 1967 del palazzo centrale della Sapienza, fatto sgombrare dalla polizia chiamata dal rettore, il matematico Alessandro Faedo, 24 ore prima che iniziasse la conferenza dei rettori da lui presieduta.

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Nonostante l’occupazione fosse durata solo quattro giorni, essa segnava una tappa significativa per il Movimento studentesco, sia perché aveva assunto un carattere nazionale partecipandovi rappresentanti di vari altri atenei, sia perché veniva redatto un importante documento programmatico, le Tesi della Sapienza.

Le Tesi, per complessive trenta pagine dattiloscritte firmate dai rappresentanti di sette università, partivano da un’ottica libertaria che individuava nella «classe dominante» la sua controparte, in cui le autorità accademiche detenevano un ruolo cruciale.

Riguardo al Diritto allo studio la Piattaforma programmatica, precisava che, nel rapporto fra istruzione e società capitalista, «lo studente è un lavoratore», pertanto se produce ha diritto a un salario. Ne conseguiva che il diritto allo studio poteva realizzarsi solo nel rispetto dei seguenti tre principi: «abolizione di ogni tipo di tassa o di tributo; concessione a tutti gli studenti attivamente inseriti nell’università del salario […]; creazione di adeguate infrastrutture».

Le Tesi della Sapienza costituiscono una fonte essenziale per comprendere il processo di rinnovamento innescato dagli studenti teso a rivoluzionare l’università italiana modificandone i presupposti fondativi e la sua funzione all’interno della società.

Il lavoro che il Movimento studentesco pisano stava conducendo portava inoltre all’elaborazione di un altro documento –meno noto del precedente– redatto nel novembre del 1968, il quale si addentrava nello specifico dell’offerta formativa. Si tratta di un volumetto di 66 pagine rivolto innanzi tutto alle matricole, curato direttamente dal Movimento e dal titolo

Università e studenti.

Nella parte introduttiva si affermava che la rivolta giovanile era indirizzata contro i tre elementi basilari del sistema scolastico italiano in generale, ovvero la meritocrazia, l’ideologia classista e l’autoritarismo. Nel particolare contesto universitario, pertanto, le più importanti rivendicazioni studentesche divenivano le seguenti.

Per quanto concerneva gli esami, si chiedeva: cadenza mensile, eliminazione del respinto e interrogazioni collettive. Riguardo alle lezioni: orario stabilito da una commissione di studenti, corsi di recupero serali, eliminazione della firma di frequenza, precisa delimitazione della materia d’esame con disponibilità di dispense integrative. Inoltre, gli studenti volevano l’apertura continuata degli istituti, biblioteche fornite di tutti i libri di testo posseduti in più copie, libertà di riunione e discussione nelle aule, assistenza per tutte le pratiche da espletare.

Il documento entrava poi nel vivo della questione, passando in rassegna tutte le dieci facoltà dell’ateneo pisano, a cominciare da quelle

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 tecnico-scientifiche per proseguire con le umanistiche, evidenziando per ognuna criticità e carenze sia sul piano ideologico sia dei contenuti didattici, nonché nei risvolti logistici. Alcuni nodi salienti erano trasversali e comuni a tutte le facoltà, ovvero l’apprendimento passivo, lo strapotere dei docenti, la polemica con i «normalisti» che apparivano privilegiati e favoriti dal sistema accademico.

Per ragioni di spazio, si prenderanno qui in considerazione solamente le quattro facoltà umanistiche, a cominciare da quella di Lettere.

Il Movimento studentesco pisano affermava che Lettere funzionava molto male. Intanto si percepiva una netta separazione fra studenti «destinati all’insegnamento, che vengono soffocati per 4-5 anni sotto un cumulo di manuali inutili, di materie le più disparate, di corsi noiosi, di esami mnemonici e umilianti» e –dall’altra– «un gruppetto ristrettissimo di studenti di razza selezionata» quasi tutti provenienti dalla Scuola Normale destinati alla ricerca cioè alla cattedra universitaria. La facoltà di Lettere era stata poi teatro di un episodio clamoroso durante l’occupazione del febbraio ’68, quando il professore di linguistica Tristano Bolelli –direttore dell’istituto di glottologia dal 1948 all’83– aveva dato uno schiaffo allo studente che presiedeva l’assemblea, Rocco Pompeo. Ne era seguita l’irruzione della polizia, lo sgombero della facoltà, un processo e, comunque, il fatto aveva dimostrato a tutto il paese quanto i docenti fossero arroganti, dispotici e reazionari.

Lingue veniva giudicata una «sottospecie di facoltà [in cui] lo studente sarà preso in giro più che altrove: se ne farà un sottolaureato in lettere […] illudendolo sulle possibilità di uno sbocco che non avrà quasi mai». Qui le matricole erano in grande maggioranza donne e si prevedevano in crescita, mentre i docenti risultavano sottodimensionati, così come le aule e le attrezzature. Tali carenze ne facevano pertanto una facoltà di «seconda mano».

Per Scienze politiche il Movimento impostava il discorso in termini più ampi. La facoltà, nata negli anni ’30 per formare l’apparato amministrativo fascista, dopo la II guerra mondiale si era aggiornata alle esigenze dello stato democratico solamente in certe sedi, ma in altre «cresceva all’ombra della facoltà di Legge», rimanendo «sostanzialmente un’appendice degli studi giuridici, feudo privato dei professori di diritto che avevano qui il loro secondo o terzo incarico». Nel mondo del lavoro, inoltre, i laureati in Scienze politiche apparivano svantaggiati perché a loro si preferivano quelli in Lettere o Giurisprudenza, soprattutto per due ragioni: a Scienze politiche –da un lato– non veniva offerta una solida cultura e non si stimolava una «comprensione critica della società»; –dall’altro– la facoltà non conduceva alla formazione della classe dirigente, che era precostituita, al massimo formava «quadri intermedi dequalificati».

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Passando infine a Giurisprudenza, per il Movimento studentesco pisano coloro che vi si iscrivevano dimostravano già di «accettare un condizionamento e una pressione da parte del potere costituito». Le matricole provenivano difatti solo dal liceo classico o scientifico, «i due torrioni fortificati della struttura classista», esclusi gli altri per «riservare lo studio di legge ai figli di una borghesia già integrata». Anche la didattica di questa facoltà induceva lo studente a isolarsi, sia per l’uso del linguaggio giuridico comprensibile a pochi, sia per lo studio mnemonico che evitava il metodo induttivo. Inoltre, il concetto basilare che veniva trasmesso era che le istituzioni dello stato si configuravano come sacre e inviolabili. Infine, l’esame serviva solo a verificare se lo studente aveva «assorbito» bene questo presupposto, acquisendo una forma mentis passiva. Per il Movimento, in particolare nelle facoltà di legge l’accentramento del potere era evidente, con pochi professori ordinari che, come «grossi feudatari», controllavano qualsiasi concorso per «mantenere tutto il mondo giuridico in un clima medioevale di sudditanza e clientelismo». Ne derivava che il diritto per eccellenza, essendo una disciplina nazionale, «può permettersi di rimanere immobile in una situazione retrograda».

3. Conclusioni

Va innanzi tutto notato l’impegno del Movimento studentesco pisano nel lavoro sul campo svolto, finalizzato a rilevare la concreta situazione all’interno dell’ateneo, non solo in termini generali ma nello specifico delle singole facoltà. Sia in quelle umanistiche, sia in quelle tecnico-scientifiche, per acquisire informazioni aggiornate sulla didattica, sulle infrastrutture, sul rapporto fra promossi e respinti il Movimento conduceva indagini somministrando questionari agli studenti, consultando i verbali d’esame, passando in rassegna il materiale stampato dall’università.

Nel Movimento studentesco prevaleva una visione marxista che poneva gli studenti, insieme a operai, minoranze, ceti subalterni, in contrapposizione ai ceti superiori, alimentando dal basso una lotta di classe che, oltre a trasformare la società, avrebbe dovuto rivoluzionare anche l’università. Essa era la principale istituzione votata a formare le classi dirigenti, una struttura fondamentale per mantenerle in posizione elitaria nella gerarchia sociale, ma la ribellione giovanile che prendeva avvio negli anni Sessanta portava a contestare radicalmente il sistema accademico in quanto tale. Divenivano quindi inaccettabili l’autoritarismo e il dogmatismo dei docenti, la selezione meritocratica, il mito del successo.

Il Movimento studentesco mirava a «sgretolare» l’istituzione universitaria, abbattendo le strutture sociali che la sorreggevano e quindi

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