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Le periferie del Sessantotto: Peppino Impastato e

«l’immaginazione al potere» in

Sicilia (1968-1978)

Antonia Criscenti

1. Introduzione: la politica italiana e il Movimento

Touraine ha suggerito l’espressione «68 mondo» (Touraine, 1968), per sottolineare la contemporanea presenza di eventi assimilabili sulla scena internazionale, nello stesso periodo di tempo, come un intreccio di lotta

sociale, comunismo utopico, e crisi di modernizzazione. Per i protagonisti,

spesso involontari, trascinati, senza consapevolezza culturale, né coscienza politica, dentro una realtà incandescente, magmatica e insieme viscosa, non sempre è stato possibile, nell’immediatezza storica e nella immaturità psicologica, l’orientamento ed il governo delle situazioni: piuttosto, l’onda ha prodotto disordine e scomposto impressioni, obiettivi e ricordi. Qualcosa è rimasta, tuttavia, di quella esperienza pedagogica socializzata, utile e produttiva, tenace e duratura, ed ha costruito la dimensione privata e pubblica di un’esistenza post-sessantottina: l’impegno, il rigore etico,

l’attitudine critica. Per tale ragione, il lascito di quegli anni si connota,

nella vita come nel lavoro, nei rapporti sociali come nel privato, con forte

dimensione partecipativa, quale scommessa civile per la democrazia.

La scelta di proporre la lettura del ‘68 in Sicilia attraverso l’esperienza tragica di Giuseppe Impastato, che visse l’euforia –e forse l’inganno– dell’immaginazione al potere, si lega alla premessa, ma anche al tentativo di

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 cogliere, attraverso la verginità politica di un giovane di provincia dell’estrema periferia italiana (Cinisi è un piccolo paese in provincia di Palermo che conta oggi più o meno 10.000 abitanti), la forza trainante che è propria di ogni

progetto di cambiamento. Il ’68 in Sicilia si è presentato, vedremo, puntuale

e coevo rispetto a Parigi, Roma, Berlino (Così, 2008, p. 3).

Le ragioni di questa scelta ideologica e culturale, per una lettura del ‘68 in Sicilia, attraverso l’esperienza politico- pedagogica e pubblicistico-giornalistica di Giuseppe Impastato, si lega fondamentalmente all’influenza che la lotta del giovane Impastato subì dalle rivendicazioni promosse dalla «nuova sinistra» palermitana e siciliana in generale, che individuava nella «borghesia mafiosa» il nucleo della degenerazione socio-politica della realtà siciliana1, proprio durante gli anni «caldi» del Movimento.

Peppino Impastato scriveva:

Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali, a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare divenuta ormai insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto con connotati ideologici tipici di una società tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, fin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte ed il suo codice comportamentale. E’ riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva ed a compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività. Approdai al PSIUP (partito socialista italiano di unità proletaria) con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuol rompere tutto e cerca protezione2. La testimonianza, indurita dalle sofferenze, (di un’esperienza definita dallo stesso Impastato, qui come altrove, «schizoide») di Giuseppe Impastato richiama l’urgenza, non solo individuale, di coniugare impegno politico e ricostruzione sociale e offre, altresì, la chiave per interpretare il fenomeno del movimento del ‘68 come strumento di emancipazione: psicologica, rispetto all’autorità parentale; sociale, rispetto all’asservimento clientelare;

culturale, rispetto ad una pedagogia autoritaria ed all’educazione volta alla

cieca ubbidienza ed alla conformazione. La volontà di emancipazione e la determinazione del riscatto passano, per il giovane e ribelle rampollo 1 Santino (2008, 2013). Una letteratura sullo specifico spaccato siciliano, e in genere meridionale del movimento, registra l’attenzione dei critici alla questione: Baeri (1992); Battaglia, D’Angelo & Fedele (1988); Caciagli (1977); Distefano (1988); Donzelli & Creosimo (2000); Giarrizzo & Aymard (1987); Giarrizzo (1986); Tiranna (1991); La Villa (1998-1999); Lupo (1993, 1996, 2004); Macaluso (1970); Nisticò (2001); Riccio & Vaccaro (1992); Severino & Licciardi (2009).

2 Si tratta di appunti autobiografici conservati presso l’Archivio del Centro Impastato. Il testo dei manoscritti è pubblicato quasi integralmente nel sito www.centroimpastato.it; il tratto non porta la data, ma la ricostruzione di Umberto Santino fa risalire gli «appunti» al novembre del 1977. Cfr. Impastato (2009, p. 111).

Le periferie del Sessantotto: Peppino Impastato e «l’immaginazione al potere» in Sicilia (1968-1978)

di genìa mafiosa, attraverso la costruzione di un’identità politica che avrebbe potuto generare –dovuto, nelle intenzioni di Impastato- la forza per contrastare il dominio mafioso esteso su tutto il territorio a lui familiare. Come avremo modo di scrivere più avanti, l’operazione, per dare risultati soddisfacenti, doveva tradursi in strategia pedagogica di diffusione di una cultura della partecipazione e dell’impegno: tutto il Movimento e Marcuse gliene offrivano gli strumenti.

Ma si deve procedere a gradi, conoscere il contesto ed i «vissuti» per comprendere i fatti e tentare l’interpretazione di un movimento che storicamente si legge in espansione pressoché uniforme, appunto, in tutto il mondo occidentale ma che trova le proprie caratterizzazioni proprio nelle «zone di confine», nelle periferie.

Il ’68 in Sicilia può meglio definirsi come «la Sicilia nel ‘68» (Santino, 2008, p. 13), per intendere il trascinamento di alcune fasce socio-geo-culturali entro l’onda del movimento stesso.

Il ’68 siciliano (palermitano, come catanese, in qualche misura assimilabili) è certo stato periferico, nel senso che le mobilitazioni studentesche avvennero sull’onda lunga proveniente dal centro situato tra Roma, Pisa, Trento, Milano e Torino, eppure, esso si è inserito, sviluppandolo ulteriormente, in un processo di riflessioni e di esperienze che ha avuto corposità e persino originalità. I temi al centro della riflessione furono principalmente: 1) l’analisi della fase come crisi di regime e non di sistema, il problema del partito rivoluzionario; 2) il Mezzogiorno; 3) la realtà siciliana; 4) la mafia.

Il movimento degli studenti si sviluppò nelle scuole secondarie e nelle Università agitando i temi di fondo del movimento nazionale e internazionale: la lotta contro l’autoritarismo (esercitato nei luoghi classici della famiglia, del potere politico, delle forze economiche), il «potere studentesco». Se a tali temi si aggiunge –con il rilievo che rivestì- il problema specifico della mafia, ciò fu certamente dovuto all’influenza esercitata dal gruppo politico che faceva capo, a Palermo, al circolo Lenin (Santino, 2009, p. 295). Nel 1970 il Circolo Lenin aderì al «Manifesto», costituitosi gruppo politico nazionale, mantenendo tuttavia caratteri originali che possono venire sintetizzati nel documento elaborato dal leader del gruppo, Mario Mineo, e che provocò forti reazioni anche all’interno dello stesso gruppo politico siciliano. Il documento attivava una lettura fortemente segnata dalla commistione tra la classe borghese imprenditrice e la mafia:

[…] essa [la mafia] rappresenta la forma specifica in cui si è generata e strutturata la borghesia siciliana come classe economicamente parassitaria e intermediaria, ieri tra la classe agraria feudale e le masse contadine, oggi tra il capitale del Nord e le grandi masse popolari sfruttate. […] il punto è che lo strato

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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 fondamentale e la funzione dominante in seno al blocco privilegiato sono quelli della borghesia mafiosa. […] l’ascesa della nuova borghesia capitalistico-mafiosa, più moderna, più aggressiva, più pronta a invadere nuovi campi, è andata determinandosi, nel corso degli anni ’50, parallelamente alla crisi delle strutture agrarie, ed ha avuto il suo momento decisivo nell’assalto all’istituto regionale. Qui sta la chiave –tra l’altro- dell’interpretazione del «milazzismo». […] Nel corso degli anni ’60, impadronitosi dell’istituto regionale, e trasformatolo in una «industria», il cancro si è esteso a tutta l’isola […] (Mineo, 1995, p. 208).

A tale lettura, il «Manifesto» nazionale, sia come movimento che come giornale, arroccato su un’idea di Mezzogiorno generica ed astratta –direi scorretta storicamente e politicamente– non diede alcun peso e nessun seguito. All’interno della sinistra siciliana, il Partito Comunista Italiano (d’ora in avanti PCI), il cui segretario regionale era Achille Occhetto, nei primi anni ’70 elaborava la linea del patto autonomistico tra forze politiche diverse, compresa la Democrazia Cristiana (d’ora in avanti DC): era la versione siciliana del «compromesso storico» (che avrebbe visto protagonisti nazionali Enrico Berlinguer e Aldo Moro). Poiché al centro dell’analisi di Mineo vi era il rapporto mafia-politica, e veniva chiamata in causa soprattutto la DC (partito egemonico di governo), il PCI (partito egemonico di opposizione), che invece cercava di allacciare rapporti con essa, avversò quell’analisi, rimproverando all’autore di vedere dappertutto mafia3. Nella ricerca di un’alleanza con la DC, il PCI troverà come interlocutori proprio personaggi che appariranno più compromessi: Giulio Andreotti, a livello nazionale, e Salvo Lima, a livello regionale (Santino, 1997, 1994). Da tale analisi nacque una linea politica che ebbe nella proposta di «espropriazione

della proprietà mafiosa» la sua chiave di volta (provvedimento che solo nel

1982 sarebbe stata recepito istituzionalmente dalla legge antimafia).

2. Il ’68 in Sicilia: l’esperienza politica e culturale di

Peppino Impastato