Alcune riflessioni sulle emozioni del Movimento Studentesco:
3. Che la festa cominci… Il cosiddetto anno degli studenti, che segna il cambiamento degli
standard di comportamento e il primo caso di global concurrence, evidenzia come una salutare contestazione dell’autorità fosse accompagnata anche dalla capacità di mettersi nella pelle altrui.
Senza il senso dell’empatia che motivava al di là delle parole e dei discorsi politici e critici, non ci sarebbe stato lo speciale coinvolgimento collettivo nel non esserci degli Altri. Il concetto di connessione (discusso dagli psicologi cognitivisti e dai neuro-scienziati) usato con equilibrio aiuta a sottolineare, in chiave storica, la carica emozionale delle esperienze collettive generazionali del secolo scorso. I protagonisti italiani del ’68
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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 erano infatti incantati da libri come i Dannati della terra di Fanon e dalle idee dei riformatori pedagogici che si ispiravano ai valori dell’alterità.
Il coming out dei/delle minorenni e di giovani adulti nello scenario italiano è in aggiunta percepibile in un eclatante fenomeno collettivo: il passaggio dalle processioni religiose ai cortei di protesta. Ragazze e ragazzi comuni sono così entrati nel vento senza sapere se e come ne sarebbero usciti. Non era comunque una passeggiata vivere in un periodo cosiddetto formidabile, come mostrano acute analisi (Passerini, 1988) e ricordi soggettivi1.
Risultano pertanto utili le esplorazioni storiche sulle emozioni come espressione delle grandi trasformazioni sociali. A partire dai promettenti studi sulla rivoluzione francese di Reddy (2001) e di Burstin (2016). Se da una parte, le tendenze sul fronte della storia e della memoria del ’68 delineano l’esigenza di collegare la ricerca sulle esperienze personali e politiche alle loro ricadute sulle singole identità (da Passerini,1988, a Hajek, 2013), dall’altra, è legittimo chiedersi cosa potrebbe dirci di nuovo sul ’68 la storia delle emozioni?
Sarebbe sicuramente in grado di illuminare le trasformazioni soggettive che hanno alimentato le dinamiche anti-autoritarie ma soprattutto, stando alle indagini convincenti di Elias, Reddy, Stone e Outley, avrebbe la capacità di guidarci allo studio delle principali conseguenze sociali prodotte dallo stile emotivo del movimento giovanile. Su questo ammutinamento, a ben guardare, aveva alitato il vento caldo e potente della disobbedienza di figlie e figli che, durante il Settecento, in Europa e soprattutto a Venezia, avevano clandestinamente promosso una nuova cultura della sensibilità aperta ad esperienze sentimentali genuine (Plebani, 2012, p. XXVI).Non è quindi fuori luogo interrogarsi sul senso emotivo della svolta anti-autoritaria, sulle sue espressioni pubbliche e sui legami sotterranei con il passato. Anche per sfuggire alla tentazione, carica di forte reattività, celebrativa o denigratoria. Ipotizzare la storia, le storie personali e sociali attraverso le trame emotive aiuta a palesare momenti decisivi, peculiari e a scoprire come le svolte siano, con l’ottica della long durée, il risultato di una lunga serie di scelte individuali e circostanze collettive precedenti.
Pertanto lo studio della disobbedienza e del dissenso consentirebbe di inquadrare, nel corso del secondo Novecento, come la sintonia empatica –lievito del cambiamento– fosse stata stimolata dalle coscienze contrastive di Gandhi, Luther King, Zinn e Milani. Anche se può sembrare strano, l’insubordinazione in questa cornice non può essere spiegata come un rancoroso fenomeno antisociale, era, per lo meno in linea di principio, la 1 In particolare, il libro della Sereni C. (Taccuino di un’ultimista. Milano: Feltrinelli. 1988, p.83) focalizza i diversi stati d’animo.
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modalità con cui i giovani applicavano i principi dell’uguaglianza (Fromm, 1960, p. 48) nella vita quotidiana.
E’ sufficiente pensare alle discussioni pubbliche dentro le università, ai corsi di contro cultura, affollati da studenti e studentesse comuni che condividevano un’idea centrale: la rimessa in discussione del rapporto fra sapere e potere.
La posta in gioco era alta: la trasformazione dei metodi fossilizzati e standardizzati della trasmissione del sapere (funzionali all’autoritarismo accademico, all’istruzione elitaria e alla selezione scolastica) in vitali sedi pubbliche di una conoscenza, promotrice di giustizia sociale. Per queste ragioni i seminari interdisciplinari, le pratiche di auto-formazione, le assemblee sulla frammentazione dei saperi, gli alternativi programmi d’esame, erano atti comunicativi che criticavano ufficialmente la politica implicata dalle norme ufficiali.
Tutto questo rientrava nelle avventure indisciplinate di una generazione spinta dal desiderio di trasformare se stessa e di agire per lo sviluppo dell’umanità. Dallo spazio pubblico fino alle sfere più intime e private palpitava un nuovo modo di pensare e di sentire. Senza questi desideri vitali, impregnati di pulsioni epistemofiliche, non ci sarebbe stato il tentativo di criticare e comprendere il mondo, non ci sarebbe stata l’aspirazione, molteplice e plurale, di coltivare altri legami privati e pubblici. Come testimoniano le scritte apparse sui muri dell’Università di Torino e di Pisa: «Non vale la pena di trovare un posto in questa società, ma di creare una società in cui valga la pena di trovare un posto»; «Le mozioni uccidono le emozioni»;«Contro lo strapotere dei baroni e per la scientificità degli studenti». Buona parte di questa generazione si è concessa la sfarzosa esigenza di imparare cose che non servivano insieme al pericoloso lusso di sognare, di avere opinioni e di sperimentare i corsi universitari di «contro-cultura» come una specie di biglietto vincente della lotteria rivoluzionaria. Chi ha tratto beneficio da questa esperienza ha ricordato che a vent’anni era «passato da una vita vuota a una piena» e che tutto era cambiato a tal punto che non «aveva più saputo cos’era la noia». Queste voci fuori campo, dai ritmi veloci e sincronizzati, trionfavano sui confini e sui limiti. Da qui l’impazienza degli slogan: «Vogliamo tutto e subito» e «Prendete i vostri desideri per realtà».
Una emblematica allegoria del ribaltamento del mondo innescato dall’euforia libertaria del periodo si può ripescare nel film coevo Il pianeta delle scimmie di Schaffner. Perché anche la fantascienza raccontava il ’68 non meno dei corsi di contro-cultura, dove si leggevano le opere di Fromm, de Beauvoir, Marcuse e Reich.
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4. Alla ricerca della felicità
La speranza in un mondo migliore forgiava contemporaneamente una nuova identità giovanile. Nel senso prospettato da Erickson che aveva visto, grazie al suo approccio psico-storico, in quel «gigantesco rito di passaggio» (Ortoleva, 1988, p. 44), un orgoglioso stato d’animo, nato dallo sforzo collegiale di emanciparsi dalle convenzioni «della maggioranza compatta» (Erickson, 1972, p. 23).Che senso avrebbe poi avuto l’aspirazione al cambiamento se i protagonisti del ’68 non avessero pensato che tutte le loro battaglie non li avessero resi più felici?
Nell’affrontare questa situazione gli appartenenti al movimento condividevano l’idea secondo cui il ben-essere di tutti sarebbe stato germinato dall’innesto tra politica e vita quotidiana. Si ispiravano così al concetto settecentesco della rivoluzione francese, idealmente convinta che la felicità non fosse un privilegio personale o di classe, ma una esperienza collettiva. Probabilmente su questa lunghezza d’onda si sperimentava la partecipazione individuale alla vita pubblica come una singolare ed insostituibile esperienza di umana felicità.
I movimenti studenteschi spronati da questo senso di complicità cominciarono ad assaporare anche i frutti migliori della tradizione democratica americana, quella jeffersoniana (Arendt, 1988, p. 345). Infatti l’inizio del ’68, secondo la filosofa tedesca, era riconoscibile dalla spontanea adesione giovanile alla politica della non violenza e dalla ricerca della felicità pubblica, che faceva trionfare, come nella polis greca, la gioia spontanea di agire e discutere assieme ai propri pari, di scambiarsi opinioni, in una parola, di essere liberi.
Recenti studi hanno evidenziato che esiste una correlazione molto stretta tra condizioni oggettive e aspettative soggettive. Ma la scoperta che lo sfuggente concetto di felicità dipende da aspettative soggettive complica la ricerca storica, poco incline ad avventurarsi su questo fronte, fatte salve alcune eccezioni (Minois, 2009). La felicità non è comunque migliorata dal secondo dopoguerra, anzi in certi casi, come nelle società avanzate, è addirittura peggiorata. Ma allora (usando l’osservazione di Robert Kennedy quando, nel 1968, in un incontro con gli studenti universitari del Kansas, ammetteva l’inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere collettivo) cosa rendeva, per i protagonisti di un anno così controverso, «la vita veramente degna di essere vissuta»?
Non è una domanda scontata. Perché nonostante la disponibilità di saggi e libri storici, soprattutto in occasione degli anniversari e delle celebrazioni, in Italia, la documentazione risulta ancora insufficiente. Per
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fornire una parziale risposta, vanno almeno prese in considerazione, fra le le testimonianze disponibili, dichiarazioni del tipo «si è sperimentato qualcosa di simile alla felicità pubblica» (Bravo, 2008, p. 25) e quella di chi ricorda di aver capito che «la vera felicità non poteva essere solo un fatto individuale ma collettivo».
Nel bildungsroman, L’uso della vita.1968, le parole del protagonista sono esemplari: «La tensione emotiva non era più un fatto individuale, era una parte dell’energia collettiva che li coinvolgeva. Così «la felicità è diventata pubblica» (Luperini, 2013, p. 58).
5. Conclusione
In realtà, le cose non sono mai così semplici. Sfortunatamente, nonostante tutte le speranze di creare il paradiso in terra, grandi eventi nazionali —dalla strage di Stato del 1969 all’omicidio di Moro, nel 1978, ad opera delle Brigate Rosse, fino agli «anni di piombo»— cominciarono a dirottare via via il senso della vita individuale e a dare altre forme alle esperienze collettive di un movimento, già di per sé eterogeneo e composito.Con le interpretazioni recenti della storia del ’68, basata sulla riformulazione di metodi di ricerca appropriati, é decisamente troppo presto per trarre rigide conclusioni e per ignorare il dibattito in corso. Al quale Pombeni ha contribuito reinterpretando il movimento come il risultato di una lunga incubazione i cui effetti superano la conflagrazione del momento. In questa transizione di civiltà, che in sé non è stata né buona né cattiva, è entrata in gioco una laicizzazione socio-culturale latente da tempo che aveva trovato nelle scuole superiori e nelle università il principale terreno di scontro. Nell’ottica di questa profonda trasformazione che ancora ci avvolge, alla fin fine ci sembra normale ciò che mezzo secolo fa era sembrato anomalo, perché «i giovani sessantottini intuirono in termini vaghi, più per sensibilità che per ragione, ciò che oggi è diventato anche palese» (Pombeni, 2018, p. 73).
Allora perché sentiamo ancora l’esigenza di riflettere sull’anno che ha scatenato il vento della libertà e del cambiamento?
La scelta migliore al momento è formulare domande. Come già detto nella premessa, lo studio dello stile emotivo del movimento non è un problema che può essere lasciato a mezz’aria. Soprattutto perché c’è stata una generazione che fra contraddizioni e confusioni aveva tentato di sperimentare la felicità personale e pubblica attraverso il piacere dell’agire e del dialogo. Questo senso di godimento della vita sicuramente non era contaminato, come avrebbe detto Spinoza, dalle passioni
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tristi. La dimensione psichica ed emotiva dell’ammutinamento del ’68
richiede quindi un maggiore e complesso restauro in grado di cogliere i cambiamenti mentali nel paesaggio storico.
In questo senso i diffusi comportamenti giovanili confermano l’emotional turn, che ha segnato in profondità lo stile di vita e la mentalità, rappresentando un fenomeno sociale di portata mondiale.
Poi va da sé che l’attuale tendenza della storiografia internazionale a valorizzare le emozioni, le sottrae all’idea dell’immutabilità temporale, fornendo un punto di partenza alle riflessioni qui prospettate. Resta quindi da capire quale emozioni abbiano costruito nuovi spazi sociali presso una comunità generazionale che non tollerava l’umiliazione, la frustrazione, la tristezza, la noia e la passività dell’obbedienza.
Per contrasto la gioia (parola ricorrente nei ricordi personali), la rabbia, intesa con Nussbaum come indignazione e compassione, l’orgoglio giovanile –con Erikson– per la nuova identità, insieme alla carica empatica verso il non esserci degli Altri nel mondo contribuivano a gonfiare la vela ottimistica della speranza.
Valido pertanto risulta l’approccio di Rosenwain (applicato al Medioevo ma estensibile a qualsiasi periodo storico) che ha concentrato l’attenzione sul concetto di comunità emotiva, cioè sui modi in cui le esperienze individuali di un gruppo sono riconoscibili dalle loro rappresentazioni e dalle norme valoriali condivise (Plamper, 2010, p. 248).
Come cartina al tornasole, quindi, si potrebbero prendere allora in considerazione gli effetti della irresistibile influenza esercitata da Reich sulla formazione di una generazione che aveva fatto coincidere l’idea di libertà con la felicità sessuale. Fra questi primeggia però il fraintendimento del principio che si diventasse liberi con il sesso. Nonostante Reich avesse stabilito che la sessualità senza amore e meccanica fosse nevrotica e malsana. Il rovescio della medaglia della sperimentazione sessuale alimentava così l’umiliante «finzione» della libertà da parte delle ragazze, perché «era proibito non essere liberi», e scontati giochi di potere maschile, sostenuti dall’intramontabile, tipicamente nazionale, cherchez la femme.
In questo quadro, che rendeva invisibile la promessa della parità sessuale –desiderata dalle studentesse milanesi nel 1966– maturavano parallelamente altre valutazioni inclini a costruire diverse identità femminili attraverso la critica del sistema autoritario patriarcale e l’autonoma espressività della propria corporeità ed emotività.
Con la svolta femminista degli anni Settanta, il cappello del’68 ha continuato a volare e mulinare nell’aria verso il mondo.
Sul bilancio di queste esperienze generazionali, mi sembrano infine particolarmente profetiche le considerazioni di Dewey. Quando metteva
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in luce, nel 1922, che non sarebbe esistita una vera democrazia se non fosse salita sulla scena una nuova generazione le cui abitudini intellettuali e disposizioni sentimentali erano coinvolte in un progetto educativo di mutamento sociale effettivo e non apparente (Dewey, 1968, pp. 117-118). In altre parole, per il filosofo statunitense, non era sufficiente la semplice rimozione delle barriere esterne per modificare automaticamente la mentalità collettiva, ma fondamentale la trasformazione della vita interiore per opporsi ad ogni forma di dominio.
6. Riferimenti bibliografici/fonti
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Bravo, A. (2008). A colpi di cuore. Storie del sessantotto. Roma-Bari: Laterza. Dewey, J. (1922). Natura e condotta dell’uomo. Introduzione alla psicologia
sociale. Firenze: La Nuova Italia.
Elias, N. (1996). The Germans: Power Struggles and the Development of
Habitus in the Nineteenth and Twentieth Centuries. Oxford: Polite Press.
Erickson, H. (1968). Gioventù e crisi di identità. Roma: Armando.
Fromm, E. (1960). Psicoanalisi della società contemporanea. Milano: Mondadori.
Giallongo, A. (2008). La pedagogia anti-accademica. Tra critica e utopia. In Betti C., & Cambi F. (Eds.), Il ’68: una rivoluzione culturale tra pedagogia
e scuola. Milano: Unicopli.
Nussbaum, M. C. (2004). L’intelligenza delle emozioni. Bologna: il Mulino. Oatley, K. (2004). Breve storia delle emozioni. Bologna: il Mulino.
Ortoleva, P. (1988). Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America. Roma: Editori Riuniti.
Minois, G. (2009). La ricerca della felicità. Dall’età dell’oro ai giorni nostri. Bari: Edizioni Dedalo.
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Globalizing the student rebellion in the long ’68 ISBN: 978-84-948270-3-7 Peblani, T. (2012). Un secolo di sentimenti: amori e conflitti generazionali
nella Venezia del Settecento. Venezia: Istituto Veneto di Scienze, Lettere
ed Arti.
Pombeni, P. (2018). Che cosa resta del ’68. Bologna: il Mulino.
Plamper, J. (2010). The History of Emotions: An Interview with William
Reddy. History and Theory, 49(2), pp. 237-265.
Sassano M., De Poli M., & Beltramo Ceppi, C. (1966). Che cosa pensano le
ragazze d’oggi?, Anno XX, 3, pp. 6-7. Articolo disponibile sul sito del
Liceo Parini: www.liceoparini.it consultato il 4. 5. 2018.
Sull’Autrice
Angela Giallongo