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che l’errore, verosimilmente dovuto a un lapsus calami, risal- ga al Tasso medesimo: «La seconda persona singolare [del condizionale] registra un potreste (Mess. I, 8) subito corretto peraltro» (RAIMONDI, I, p. 267, § 112). La necessaria virgola

dopo più manca nei testimoni.

359 Petr. introduce, sulla scorta di S, il capoverso verosimilmente

già presente in T1(lo recano Ty T2Vt).

362 Il solo P reca punto fermo innanzi a egli, e (con Ty) è privo di

pausa in fine di v.; T1 (per aggiunta posteriore?) reca punto fermo in fine di v.; A T2 Vt hanno rispettivamente virgola e

punto fermo.

364 S potestà.

365 S Tener’; Petr., per errore, Tenere. Gli editori accolgono la

punteggiatura di T1A T2Vt; ma quella a testo, oltre a tenere

conto del punto interrogativo erroneamente anticipato da P

T1ain fine di 364 (T

1bA T2Vt indebitamente lo spostano –

sempre seguìti da S e Petr. – in fine di 368), ha l’avallo della fonte (per l’interpretazione del passo cfr. infra a 368).

366 S e Petr., sulla scorta dei soli A T2Vt, pongono virgola anche

dopo Egitto (la cui presenza non si può escludere già in T1, non perfettamente leggibile), oltre che in fine di v.

367 S Fatt’a.; In fine di v. P Ty non recano pausa (S e Petr. pon-

gono virgola).

368 S entr’a suo’. P reca soltanto una virgola in fine di v. (Ty non

presenta segni); S e Petr., sulla scorta di T1bA T

2Vt, pongo-

no in fine di v. punto interrogativo. Ma l’interpunzione accol- ta dagli editori in 365-368, fedelmente esemplata sulle corre- zioni apportate dall’Ingegneri, determina nell’interpretazione del testo un’aporia evidente. Se infatti il soggetto della relati- va iniziante a 366 è il Rosso Mar e, come appare inevitabile e necessario interpungendo così, lui di 368 risulta pronome og- getto riferito all’Egitto, ne consegue che, dopo pausa forte, il soggetto sottinteso di si fora aggiunto non potrà che essere ancora il medesimo, cioè il Rosso Mar. A meno di postulare in 369 un mutamento di soggetto (l’Egitto in luogo del Rosso

Mar) tanto repentino e sconcertante da risultare inverosimile

e incomprensibile, la punteggiatura degli editori produce dunque una manifesta assurdità, quasi che il Tasso potesse ignorare che il Mar Rosso per natura comunica con l’Oceano Indiano (si vedano 655-657; 616-619, dove la credenza in una loro separazione è qualificata di antico errore) e qui non fosse invece in questione piuttosto il possibile ricongiungi- mento, al quale osta soltanto la podestà divina, del primo con il Mediterraneo attraverso la presunta depressione egiziana: come è del resto esplicitamente dichiarato in séguito là dove si fa riferimento alla mirabile opra intrapresa da Sesostri, il quale «[…] il Mar de gl’Indi / E l’Eritreo tentò d’unire insie- me / Con quel d’Egitto […]» (381-383); e si veda anche V, 283-289; e Il Porzio overo de le virtù, p. 994, § 151 «Ma Seso- stri all’incontro il qual pensava di tagliar l’istmo ch’è fra il mar Rosso e il Mediterraneo […]»; Risposta di Roma a Plu-

tarco (in Prose diverse, vol. II, p. 333) «Il mare non passa i

termini prefissi, né ricopre quella parte che rimane scoperta di lei [scil. della terra], ch’è grevissima oltre a tutti gli altri elementi, quantunque sia più alto il letto del mare, come si scrive particolarmente del Mar Rosso, di cui è più bassa la

terra del Nilo tre cubiti. Laonde Sesostride prima, e poi alcu- no de’ miei antichi Romani non s’assicurarono di tagliar quel breve spazio di terra interposta, e di tirar una fossa fino al Nilo, per temenza di non affondar l’Egitto». La fonte d’altra parte non ammette fraintendimenti: BASILIO, Hex. IV c. 14 v

C-D [IV, 3, 6-7]: «Alioqui quid prohiberet rubrum mare, o(mn)em Aegyptum cauiorem ac depressiorem ipso existen- tem inuadere, et cum Aegyptio pelago coniungi, si no(n) praecepto conditoris ligatu(m) esset? Quod enim humilior sit Aegyptus rubro mari, facto nobis persuaserunt hi qui pelagus Aegyptiu(m) ac Indicum, in quo est rubru(m) mare inter se coniungere uolueru(n)t. Quare ab aggressione hac destite- ru(n)t, Sesostris Aegyptius qui primus ea(m) auspicatus est, et Darius Medus qui postea perficere uoluit. Atque haec a me dicta sunt, ut imperij potentia(m) intelligamus». Dal ri- scontro non soltanto risulta confermata l’interpunzione a te- sto (sostanzialmente fedele a P), ma si ricavano lumi circa l’e- segesi di Ch’ (366) – il quale, corrispondendo al Quod della fonte, avrà valore causale-dichiarativo – e soprattutto del- l’ambiguo lui di 368, che, seguìto dalla necessaria virgola, an- drà inteso come pronome soggetto riferito a Egitto (cfr. 385- 386) e per estensione all’Aegyptium pelagus. A questa ipotesi sembrerebbe ostare in verità l’«assenza completa» di lui sog- getto nei mss. dei Dialoghi (cfr. RAIMONDI, I, p. 258, § 97; l’e-

sempio che il GDLI adduce da G.L. I, 59, 1-2 è conseguenza di un grossolano fraintendimento; lui ogg. riferito al mare in

M.c. III, 805). Si veda però G.L. XIV, 10, 6-8 «e lui, ch’or

ocean chiamat’è or vasto, / nulla eguale a tai nomi ha in sé di magno, / ma è bassa palude e breve stagno». Le alternative, entrambe poco economiche, sono l’emendamento di E lui in

Et ei (o Elli); o la crux desperationis, ipotizzando il testo gua-

sto per la caduta tra 368 (con un’unica pausa forte in fine di v.) e 369 di un v. del tipo «E quel [Mar] d’Egitto in questa guisa ancora».

375 S li f. ’l proprio.

379 STRABO, Geographicorum lib. XVII, Liber decimussextus, p.

506[XVI, 4, 4] «Angustiae Aethiopiam uersus a promonto- rio fiunt, quod Dira nominantur, et oppidu(m) eodem nomi- ne, quae loca ab Ichtyophagis habitantur. Dicu(n)t hoc in lo- co Sesostris Aegyptij columnam esse quae sacris literis trans- itum eius significet. Is enim primus uidetur Aethiopiam Tro- glodyticamque subegisse, postea in Arabiam transgressus, in- de Asiam omnem permeauit, quapropter multis in locis Se- sostris uallum appellatur, et Aegyptiorum deorum templa in- ueniuntur ab eo constructa».

I regni d’Aquilone (378), cioè settentrionali, sono quelli de- gli Sciti e dei Traci. Il Tasso ricava la notizia, leggendaria e priva di qualsiasi fondamento storico, della spedizione di Se- sostri in Europa da ERODOTO, Hist. II, 103 e 110 (si veda il

terzo apparato 372-380) e da STRABONE, XV, 1, 6. L’accenno

alla sede posta in alto (378-379) non può però, sulla scorta dello storico, essere interpretato come un’allusione alla colo- nizzazione egiziana della Colchide. Infatti Erodoto, il quale pure insiste sulle numerose affinità antropologiche, etnologi- che e culturali che dimostrerebbero la discendenza dei Col- chi dagli Egiziani (II, 104), afferma di non essere in grado di dire con esattezza se, una volta giunto al fiume Fasi ripiegan- do dalla Tracia, Sesostri lasciasse lì una parte dei suoi soldati come colonizzatori del paese, o se alcuni di essi vi rimanesse- ro spontaneamente non tollerando più il suo vagare (II, 103). Inoltre la Colchide non è il punto più settentrionale raggiun- to dal re nelle sue conquiste, e solo in rapporto all’Egitto può essere fatta rientrare tra i regni d’Aquilone. L’espressione Po-

se la sede farebbe poi pensare alla fondazione di una grande

città – quasi una capitale – con annessa residenza regale, non a un modesto insediamento coloniale; oscuro e ambiguo, in- fine, risulta lo stesso sintagma in alto che non pare da riferirsi alla latitudine. Tutte queste ragioni assommate al riscontro con le fonti potrebbero indurre a sospettare il testo corrotto

e a correggere congetturalmente la sede in la stele. Di una co-

lumna eretta presso Dira a testimonianza del passaggio di Se-

sostri in Etiopia parla Strabone (si veda supra la citazione); ma è soprattutto Erodoto a ricordare (II, 102) che, nelle terre sottomesse dopo fiera e valorosa resistenza da parte degli abitanti, Sesostri era solito innalzare stele (sthvla" ejnivsth) che dichiaravano per iscritto il suo nome, il nome del paese nativo e riconoscevano la prodezza dei nemici; se costoro si lasciavano vincere senza combattere, faceva scrivere sulle ste- le (ejnevgrafe ejn th'/si sthvlh/si) le stesse cose scritte per i po- poli che si erano dimostrati valorosi, ma vi faceva anche inci- dere i genitali di una donna, volendo rendere manifesto che erano privi di valore. In II, 106 lo storico asserisce che, quan- tunque la maggior parte delle stele che il re innalzò nelle di- verse regioni (ta;" de; sthvla" ta;" i{sta kata; ta;" cwvra") non esistano più, egli ne vide in Siria Palestina con le iscrizioni in- cise e i genitali di donna. in alto / Pose la stele darebbe senso, significando che Sesostri la drizzò come segno di vittoria sui

regni d’Aquilone, e conferirebbe un più pertinente significato

anche alla successiva parentetica di 379-380. L’emendamento non è però economico perché stele (gr. sthvlh; lat. stela e ste-

le) è termine tecnico-archeologico, estraneo al linguaggio del

Tasso, la cui prima attestazione risale al 1838 (Tramater). In- fatti in G.C. XX, 18, 1-5 rievocando, sulla scorta di GIUSEPPE

FLAVIO, Antiq. Jud. VIII, 11, 3, la conquista e il saccheggio di

Gerusalemme da parte del faraone Sesach (che lo storico e- breo identifica con il Sesostri di Erodoto: «Meminit et huius p(roe)lij et Herodotus Halicarnasseos: q(ui) solum circa regis nome(n) errauit») vittorioso sul vile, imbelle e sacrilego Ro- boam, Torquato allude, in un contesto analogo, a colonne in- fami: «Ma né questo ned altro iniquo oltraggio, / né i regi av- vinti di catene e spesse / volte a morte rapiti od a servaggio, / né di vergogna alte colonne impresse, / par che facciano il volgo al ver più saggio». D’altra parte sede è lezione soddisfa-

cente qualora venga inteso non nel senso traslato e metonimi- co di ‘città capitale’ (accezione che il T.B., seguìto dal CORTE- LAZZO-ZOLLI fa addirittura risalire al Tasso citando G.L.

VIII, 8, 3-4: «e dritto invèr la Tracia il camin volse / a la città che sede è de l’impero»; il GDLI, nel significato di ‘luogo in cui si stabilisce chi detiene la sovranità, e in cui il potere co- stituito si esercita nelle varie forme; capitale di uno Stato’, re- gistra un esempio anteriore dell’ambasciatore veneto Dome- nico Trevisano [1450 c.-1535] e quindi G.L. IX, 3, 7-8 «Que- sti fu re de’ Turchi ed in Nicea / la sede de l’imperio aver so- lea»; si veda inoltre Torrismondo 1445-1446 «[…] (ch’è già vicino il re Germondo / A la sede real) […]»), bensì nel sen- so proprio e concreto di ‘seggio, trono’ (cfr. Il Ghirlinzone

overo l’epitafio, p. 730, § 15 «O.G. Entriamo in questa casa,

ch’è vostra: e sedete in questa sede, la quale è così alta; ch’io sederò in questa più bassa, come conviene a gli ascoltatori»; in Rime 1239, 48 la più nobil sede è il soglio papale; e, con al- lusione all’investitura imperiale da parte del Pontefice roma- no, si legge: «e ’l tedesco e l’ibero / assidi in alto e regni insie- me e servi» [74-75]; cfr. anche M.c. II, 36; VI, 31 altissima se-

de; 1156 «Quando Leon sedea ne l’alta sede»: cioè ancora la Sede apostolica [Lettere IV, 988, p. 71], la sede di Pietro [ivi,

991, p. 75]); 1396. Si intenda: ‘ov’egli [Sesostri] innalzò il suo trono di dominatore (avendo fatti soggetti alla sua mo- narchia gli Sciti)’.

381 S ’l; Petr., per inerzia da S, gl’I. 383 S mirabil’o.

386 S quell’i. S e Petr. seguono la punteggiatura di T1T2, ponen- do punto fermo innanzi a E: tuttavia la presenza della minu- scola in P T1aA induce ad attenuare la pausa (Vt ha virgola).

387 S ’l.

388 a l’onde è lezione genuina e si spiega con l’esigenza di variatio

rispetto a l’acque di 397. S e Petr. accolgono il capoverso pre- sente in T2Vt.

389 La lezione Piena di P, evidentemente erronea, è stata emen-

data già dall’Ingegneri (per analogia con 394).

390 S spelonche.

391-393 In tutti i testimoni l’ordinamento di 391-393 appare ma-

nifestamente guasto per il dislocamento di 393 tra 390 e 391 (secondo la numerazione a testo). La supposta erroneità della consecuzione tràdita (390-393-391), denunciata dall’assenza di senso soddisfacente e da precisi argomenti interni, trova conferma decisiva nel riscontro con BASILIO, Hex. IIII, c. 14

v D [IV, 4, 1-2]: «Deinde qui dixit congregari aquas in unam

congregationem, ostendit tibi quod multae erant aquae per multos locos diuisae. Na(m) et montiu(m) cauitates conualli- bus p(ro)fundis superinductae, aquar(um) collectionem ha- bebant, insuperque campi multi et supini, neque maximis pe- lagis magnitudine cedentes, et ualles infinitae, et conualles iuxta alias atque alias figuras cauatae, o(mn)ia aquis tunc im- pleta euacuata sunt, diuino praecepto ad unam congregatio- nem aqua undiquaque compulsa». Non si sfugge all’evidenza che Pendenti et ime in fra montagne e colli 391 rende conual-

libus profundis superinductae, participio riferito a cauitates

montane, non a valli palustri come risulterebbe dalla tradi- zione concorde. Né è superfluo osservare a questo proposito che il testo greco tradotto dal Cornaro doveva leggere qui di- versamente dai testimoni più autorevoli delle Omelie. L’edi- zione Naldini (esemplata fondamentalmente su quelle del Giet e del Garnier) reca infatti favragxi baqeivai" uJperrhg- mevnai (‘solcate da profonde voragini’; il GARNIER in PG 29

col. 86 traduce «profundis conuallibus perrupta») senza va- rianti in apparato. Ora, superinductae non può rendere il par- ticipio di uJporrhvgnumi (‘squarcio’) bensì postula – data l’a- derenza della versio latina all’originale – un verbo con la pre- posizione uJpevr forse uJperovrnumai ‘sovrasto, sto sospeso su’ (con il dativo) e un participio uJperoromevnai. Superinduco traduce con verbo di sicura ascendenza biblica («Speciatim

est insuper adijcio cum vi» FORC.) appunto l’idea di cavità

collocate al di sopra di profonde convalli, quasi serbatoi per- petui di acque correnti posti in alto (cfr. Ps. 103, 10 «qui e- mittis fontes in convallibus ut inter medios montes fluant»): il Tasso a sua volta trasforma il participio passato in presente (pendenti) insistendo con chiaroscurale e pittorica evidenza sul cupo vaneggiare di abrupte e insondabili spelunche (caui-

tates) imminenti, incombenti dall’alto, scoscese e profondate

nelle viscere – il seno alpestro (III, 105); il vasto grembo (VII, 758-760) – di un paesaggio rupestre (ime discende da profun-

dis epiteto di convallibus, qui a ribadire la dimensione verti-

cale; cfr. III, 309-314; IV, 352-358; ime e profonde sono le

spelunche anche in Rime 1596, 3). La stessa iunctura spelun- che / Pendenti rivela la chiara memoria di LUCREZIO, De rer.

nat. VI, 195 «Speluncasque velut saxis pendentibus structas»

(in corsivo la sottolineatura del Tasso nel Lucrezio aldino della Barberiniana) incrociato con VIRGILIO, Aen. I, 166-167

«Fronte sub adversa scopulis pendentibus antrum / intus a- quae dulces […]» (il CARO– I, 270-273 – traduce: «D’incon-

tro è di gran massi e di pendenti / Scogli un antro muscoso, in cui dolci acque / Fan dolce suono […]»; cfr. DANTE, Inf.

XXIII, 44 pendente roccia; ARIOSTO, O.F. X, 23, 1-4 «Quivi

surgea nel lito estremo un sasso, / ch’avean l’onde, col pic- chiar frequente, / cavo e ridutto a guisa d’arco al basso; / e stava sopra il mar curvo e pendente»; M.c. III, 813 «Ma da qual alto e in mar pendente scoglio») e forse con OVIDIO,

Heroides XV, 141 «antra scabro pendentia topho»: luoghi

tutti che, a ribadire la fondatezza della correzione proposta, sono presupposti da M.c. V, 782-783 «E tra sassi pendenti in verde speco / [Cipselo] Si forma il nido […]». Si ricordi poi che in V, 1409 «Taccion fra cavernosi orridi chiostri» rende

Tum ventos claudit pendentibus Aeolus antris di Lattanzio

(cfr. questo apparato a V, 1386). Riferito invece, secondo l’or- dinamento dei testimoni, a valli palustri il participio Pendenti mi pare privo di senso, essendo il declivio condizione contra-

ria proprio al ristagnare e all’impaludarsi delle acque. Né d’altra parte appare verosimile l’ipotesi che Pendenti et ime renda il cauatae di Basilio: in primo luogo perché l’epiteto in- dica esattamente l’opposto della concavità (in V, 945 penden-

te e cava è la “volta” convessa della cella nel favo); poi perché

si determinerebbe in tal modo un’infrazione ingiustificata dell’ordine con cui procede, nella fonte, l’enumerazione, di- gradante dalle montium cauitates, ai campi e alle ualles infini-

tae, et conualles, che il Tasso “ferrarese” intende come estuarî

paludosi, Palustri valli ed arenosi lidi (per citare un incipit tassiano – Rime 86, 1 – memore di PETRARCA, R.V.F. 145, 10

«in alto poggio, in valle ima et palustre»; e di G. DELLACA- SA, Rime, XXVI, 1 «Mentre fra valli paludose et ime»; il luo-

go petrarchesco è riecheggiato in Torrismondo, 2506-2507). Sul piano stilistico la corrotta disposizione dei vv. altera la evidente simmetria chiastica e antitetica che impronta 388- 394: a Eran […] / Pieni corrisponde Eran già colmi; alla di- mensione verticale evocata dalle segrete profondità sotterra- nee di antri e spelunche montani si contrappone l’estensione orizzontale, la vastità – paragonata a quella marina, intera- mente visibile e tremolante come essa – dei larghi campi e delle valli palustri colmi di argentato umore (e non sfugga la intenzionale dispositio chiastica di 392-393 coinvolgente lo stesso aspetto ritmico, che alterna un endecasillabo giambico ascendente a uno anapestico discendente). Poiché P, seguìto da Petr., pone punto fermo in fine dell’attuale 393 (T2 Vt –

da cui S – hanno due punti; A virgola; Ty nessun segno) ne conseguirebbe, con l’ordinamento tràdito, una asimmetrica e caotica enumerazione che di contro agli isolati larghi campi raggrupperebbe antri, spelunche e valli palustri. La genesi del guasto si spiega agevolmente supponendo che nell’autografo 393fosse vergato nel margine – per aggiunta ex novo o rifaci- mento – senza un chiaro segno di inserzione, cosicché l’Inge- gneri fu indotto a dislocarlo nel suo apografo.

394 In fine di v. P Ty non presentano segni; A reca punto e virgo-

la; T2Vt due punti. Petr. pone virgola.

395-398 Precisi indizî inducono a ritenere guasto l’ordinamento

tràdito a causa dell’inversione di 395-398 con 399-403 (se- condo la numerazione a testo). Ordinando con i testimoni concordi (preponendo cioè 399-403), riescono evidenti alcu- ne incongruenze. In primo luogo l’avverbio Anzi, oltre che troppo prossimo a un altro Anzi 406, non pare avere alcuna attinenza con quanto precede (399-403): esso in effetti non aggiunge né contrappone alcunché alla certezza dell’azione espressa da 399-403, e tanto meno ne corregge l’affermazio- ne. In modo analogo nel tempo stesso allor 395 stabilisce, in- vertendo di fatto nell’ordine dei periodi la logica sequenza degli eventi (cfr. 411-413), un paradossale rapporto di simul- taneità – quasi una sorta di maldestro ysteron proteron – tra si

votâr repente 399 e costrutti / … fur 395-396, soggetto i vasi, i fonti e l’urne 397. Questi ultimi, nella loro pluralità, designa-

no – lo dimostreremo in séguito – i molteplici bacini, colloca- ti a monte (388-394 già li evocano entro la descrizione di un paesaggio declive), dai quali prende l’avvio il deflusso delle acque in giù sospinte e, al termine del percorso, ’n una ragu-

nanza insieme accolte 403. Ora, l’ordinamento tràdito dei

versi antepone ancora una volta, in modo confuso e illogico, l’approdo conclusivo di un processo convergente nell’unità (il confluire delle acque ’n una ragunanza) al suo punto di partenza e alle sue molteplici origini (gli altri lochi in cui s’ac-

coglie o versa 398). Sorge addirittura il sospetto che con la

consueta corrività l’Ingegneri amanuense, per inintelligenza del testo, abbia riferito 395-398 – nell’autografo probabile addizione o rifacimento marginale privo di chiari segni di in- serzione – a 403, come sembrano comprovare anche gli erro- ri di trascrizione presenti in P: costrutte 395 (anziché costrut-

ti) per probabile attrazione di accolte 403, e pur 396 in luogo

versa 398 (impersonale o con soggetto sottinteso al singola-

re), mentre il soggetto di 399-403 è il plurale l’acque 400,

mosse, in giù sospinte e in conclusione insieme accolte.

L’impressione che 395-398, collocati come stanno nei testi- moni, producano l’effetto di una maldestra interpolazione che intralcia rallenta e spezza con superflue quanto intempe- stive precisazioni il serrato, incalzante procedere del discor- so, trova conferma nell’esame della fonte dichiarata ai viva- gni. Il testo di Basilio, parafrasato con scrupolosa fedeltà in 388-394, in 399-403 (si veda questo apparato a 391-393) e ancora in 404-413, appare infatti drasticamente compendiato – fino all’omissione di un passaggio logico fondamentale per l’intelligenza complessa del passo – solo, e non casualmente, in corrispondenza di 395-398: cfr. BASILIO, Hex., III, cc. 14 v

D-15 r A [IV, 4, 3-4] «Et nemo dicat, q(uo)d siquidem aqua super o(mn)em terram erat, omnino etiam omnes cauitates quae nunc mare susceperunt repletae erant. Vbi itaque aqua- r(um) collectio futura erat, cauitatibus ia(m) praeoccupatis? Ad hoc sane dicemus, q(uo)d tunc etiam uasa conceptacula-

que simul constructa sunt [con 395-398], cu(m) oporteret ad

unam congregationem aquam secerni. No(n) enim erat illud extra Gades mare, neque magnum illud et horrendu(m) na- uigantibus pelagus, quod Britannicam insulam et occidenta- les Hispanos ambit. Sed tunc capacitate dei praecepto fabri- cata, in ipsam aquarum multitudines concesserunt». La sop- pressione di quelle due frasi («Et nemo dicat […] erunt. Vbi itaque […] praeoccupatis?»), tutt’altro che superflue e prefi- guranti un’obiezione razionalistica al racconto biblico, com- porta inevitabilmente che quanto resta (395-398 appunto) perda definitivamente il suo esplicito carattere di confutazio- ne dialettica («Ad hoc sane dicemus quod […]»), e impone necessariamente una ricontestualizzazione del lacerto super- stite che non può essere ormai mantenuto nella medesima collocazione che aveva nella fonte, pena le aporie semantiche e stilistiche testè denunciate. L’appiglio per la ricomposizione

del testo è fornito al Tasso da omnino […] omnes cauitates

quae nunc mare susceperunt repletae erant. Tali cauitates reple- tae non designano esclusivamente, nell’interpretazione che

egli dà del passo, le depressioni marine, bensì – con lieve for- zatura – tutti i bacini e le raccolte d’acqua terrestri. Egli le ri- collega quindi, risalendo all’indietro nel testo basiliano, alle

montium cauitates, ai campi multi & supini, neque maximis pelagis magnitudine cedentes, alle ualles infinitae … iuxta a- lias atque alias figuras cauatae, anch’esse, al pari di quelle,