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Beat e buddismo: alienità culturale e ritorno al respiro

In cerca della voce primordiale: i Beat e gli archetipi del sacro

3.4 Beat e buddismo: alienità culturale e ritorno al respiro

Cercando quella dimensione primordiale, spiritualmente pura, orale ed esoterica che in Occidente sembrava perduta, i Beat si sono generalmente e tendenzialmente dedicati al buddismo, alla meditazione, alla filosofia zen, al taoismo. Questa che è certamente una delle cifre più rappresentative e conosciute del movimento, appare tuttavia, per certi versi, anche la più problematica: entusiastica sul piano dell'adesione sperimentale, curiosa e istintiva, appare invece irrisolta sul piano dell'alterità e identità culturale. La ragione di tale ambiguità va probabilmente ricondotta alla speranza, comprensibile, che il buddismo potesse realmente rappresentare per la Beat Generation il vero, la salvezza, l'illuminazione risolutiva; mentre invece rappresentò – non più e non meno dell'ebraismo, del cristianesimo, dell'induismo, dei movimenti di protesta o del jazz – un singolo aspetto, per quanto fondamentale, di una realtà irriducibilmente plurale e sfaccettata. Era stato il gusto per la ricerca dell'ignoto, per l'esotico e per l'avventura a spingere lo sguardo del movimento verso Oriente, prima e più di qualsiasi sovrastruttura intellettuale:

L'antenato più importante del buddismo beat non veniva dall'Estremo Oriente, ma dalla East Coast: da Concord, nel Massachussetts, dove nel 1845 Henry David Thoreau costruì una baracca sulle rive del lago Walden. Girò le spalle ai tradizionali valori puritani del duro lavoro e del profitto, e si diede invece ai rigori della contemplazione […]. Walden è il capostipite del buddismo beat: pratico nella sua vita in mezzo alla natura, saggio nei suoi principi ecologici e utile come guida ai testi classici induisti. […] Quando in Walden scrive: “Sono andato nei boschi perché volevo vivere lentamente, affrontare solo i fatti essenziali della vita, e vedere se riuscivo a imparare quello che aveva da insegnare” poteva essere benissimo Gary Snyder a parlare.53

Ancora prima di conoscere Ginsberg e Kerouac, Snyder aveva assecondato la sua passione per le arti cinesi approfondendo lo studio delle culture orientali. Fece un lungo viaggio in Giappone per un totale di 12 anni di esilio, durante il quale studiò zen e meditazione con un

roshi, un anziano maestro; tradusse opere dell'eremita Han-Shan, vissuto nell'VIII secolo, di

cui si considerava una sorta di discendente beat. Anche il poeta Philip Whalen, cui Kerouac si sarebbe in seguito ispirato per il personaggio di Warren Coughlin ne I vagabondi del Dharma, si considerava un discendente di Han-Shan; come Snyder, praticò lo zen e visse lunghi periodi di isolamento tra le montagne, prestando servizio come guardia forestale.

La scoperta o riscoperta di tecniche rituali come la meditazione e la contemplazione – direttamente connesse all'archetipo della voce primordiale e al suo recupero – trova nella storia del movimento e nel suo rapporto con l'oralità una collocazione coerente; al contrario, i contenuti teorici del buddismo assumono spesso – per i Beat che hanno prodotto dichiarazioni e testimonianze esplicite al riguardo – i tratti di una cultura aliena e per molti versi incomprensibile. Lo stesso Ginsberg, pur aderendo al buddismo, era del tutto consapevole delle enormi distanze e diversità antropologiche di questo stile di vita con l'Occidente: in una lettera a Neal Cassady affermava che «La maggior parte degli scritti buddisti che aveva letto […] non erano di nessun interesse, “vaghi […] perché è una cosa che per noi non ha contesto” […]».54 Buddha finiva per diventare «un'icona del bastare a se stessi, dell'essere spiritualmente fortificati contro le preoccupazioni finanziarie, le pressioni familiari […]. Anche se la scrittura buddista non era molto affascinante, Ginsberg scrisse a Cassady che gli piaceva l'idea zen dell'introspezione filosofica […]».55 Del medesimo problema era ugualmente consapevole Burroughs, se descriveva a Kerouac il proprio rapporto con il 53 J. Campbell, Questa è la beat generation, cit. , pag. 190.

54 J. Campbell, Questa è la beat generation, Guanda, Parma, 2001, pag. 172. 55 Ibidem.

buddismo in questi termini:

Ricorda, Jack, ho studiato e praticato il buddismo (nel mio solito modo trascurato, certo). La conclusione a cui sono arrivato, e non credo di parlare da uno stato di illuminazione, ma semplicemente di aver tentato il viaggio... era che il buddismo per l'Occidente può essere solo studiato come la storia, che è un oggetto di comprensione, e per quello scopo praticare lo yoga può essere molto utile. Ma per l'Occidente non è Una Risposta, Una Soluzione. Dobbiamo imparare dalle azioni, dalle esperienze, dalla vita; cioè soprattutto dall'Amore e dalla Sofferenza […]. Il buddismo a volte si risolve in una porcheria psichica […].56

Era stato proprio Kerouac, in effetti, ad approcciarsi al buddismo nella maniera più ingenua e semplicistica. Dotato di un «un senso dell'appartenenza nazionale molto forte»57, profondamente segnato dall'educazione cattolica, aderiva alla filosofia orientale con l'entusiasmo acritico del neofita, mentre la scarsa predisposizione all'autodisciplina – fondamentale, ad esempio, per la meditazione – era compensata da quella, eccessiva, per l'alcool:

Dopo aver riletto Walden cominciò a studiare testi orientali […] e, col suo solito entusiasmo, prese moltissimi appunti e presto si definì un esperto. […] Nella filosofia orientale […] Kerouac cercava un sistema per indebolire il suo Io condizionato dall'egocentrismo, il suo Io occidentale, quello che lui chiamava “l'Io-Kerouac”. Nello stesso momento gli si apriva un'altra strada per l'oblio. Questo fu il periodo in cui il bere cominciò a prendersi la parte migliore di lui. […] confessò a Ginsberg […] che «in questo momento, per via di una sciocca euforia – vino e benzedrina – non riesco a mettermi a sedere a praticare il vero dhyana». Per uno cui i pensieri portavano guai, e che beveva per domarli – cosa che portava guai più grossi – c'era della consolazione in frammenti di saggezza buddista fatta in casa come questo: Pensare è proprio come non pensare / così non devo pensare / più.58

Nonostante tutti i suoi sforzi – anzi, forse proprio in ragione di questo sforzarsi – il buddismo di Kerouac rimase in qualche modo posticcio, fatto in casa, come attestano molte sue “licenze interpretative”, indebite quando non del tutto strampalate; affermava, ad esempio, che «Buddha era “un ariano” con “lunghi capelli biondi” che si era tagliato quando si era ritirato dal mondo civilizzato»59, oppure che il primo dei Quattro Nobili Precetti del buddismo, "Tutta 56 W.S. Burroughs in J. Campbell, Questa è la beat generation, Guanda, Parma 2001, pag. 193.

57 J. Campbell, Questa è la beat generation, Guanda, Parma, 2001, pag. 25. 58 J. Campbell, Questa è la beat generation, Guanda, Parma 2001, pagg. 191-192. 59 Ivi, pag. 192.

la vita è sofferenza", poteva essere tranquillamente ribaltato in "Tutta la vita è gioia", senza che ci fosse grande differenza.60 Questo lasciarsi trascinare dall'esotismo, non riuscendo però a viverlo se non negli aspetti più esteriori e superficiali, è lo stesso che conduce Port Moresby e la moglie Kit (protagonisti del romanzo The Sheltering Sky, in italiano Il tè nel deserto) a inoltrarsi nel deserto del Sahara, senza trovare riparo al loro deserto interiore:

Burroughs fece i bagagli e partì per Tangeri […]. Una delle principali attrazioni della città era che il sesso con il tipo di maschi adolescenti dal corpo armonioso che tanto piacevano a Burroughs era facile e a buon mercato […]. Anche le droghe erano analogamente approvate dalla polizia […]. Lo scrittore più conosciuto di Tangeri era un altro americano, Paul Bowles […]. I due romanzi di Bowles, Il tè nel deserto e Lascia che accada, erano tra le cose che avevano attirato Burroughs a Tangeri.61

Il mondo islamico, per l'appunto, non aveva mancato di esercitare un fascino magnetico sui Beat; fascino che tuttavia, in misura ancor più significativa rispetto al buddismo, finiva sovente per esaurirsi in sé stesso:

La comunità degli espatriati occidentali che si muoveva tra Tangeri e Casablanca – come Truman Capote, Tennessee Williams, Gore Vidal, Brion Gysin e molti protagonisti della Beat Generation come Allen Ginsberg, William S. Burroughs, Gregory Corso, Jack Kerouac, Peter Orlovsky, di cui Bowles e la moglie diventano punti di riferimento – non aveva una visione profonda dei valori dell'islam. Preferivano circondarsi dei più condiscendenti e disponibili giovani uomini, con cui condividere costosi piaceri mondani, piuttosto che frequentare Imam e moschee.62

È di nuovo Allen Ginsberg a offrire una riflessione più sistematica e consapevole sull'esperienza buddista, riconnettendola agli archetipi della voce primordiale e del soffio creatore. Il suo interesse per la meditazione è inteso soprattutto come chiave per accedere all'introspezione, a partire dal suono, «the first sense to come and the last sense to leave»63, la cui dimensione più naturale, pura e spontanea era stata alterata dagli artifici del linguaggio e dai medium di massa, fino alla scomparsa del “ritmo umano” e alla separazione della voce dal corpo:

60 Cfr. J. Campbell, Questa è la beat generation, Guanda, Parma 2001, pag. 218. 61 Ivi, pagg. 195-196.

62 W. Lesser, Murder as Social Impropriety: Paul Bowles' Evil Heroes, Twentieth Century Literature 32 (Fall/Winter) pag. 196.

63 A. Ginsberg, Allen Verbatim. Lectures on poetry, politics, politics, consciousness, McGRAW-HILL, New York, 1974, pag. 21.

So there's tone, or affect, or feeling of the voice, and that's connected very much with the rhythm of the language – whether it's a natural rhythm of language or whether it's a forced artificial bureaucratic dry rhythm affected by multiple machinery, affected by its being passed through many typewriters, whether it's an authentic human personal voice talking, or whether it's a voice that has been filtered through so many machines that the human rhythm has been lost.64

In un dialogo con il poeta Robert Duncan, Ginsberg fa riferimento alla possibilità di raggiungere, tramite l'insegnamento della corretta respirazione e vocalizzazione, «la condizione ottimale per rilassare il corpo e spalancare la mente».65 Nel corso del tempo aveva iniziato a «vedere la poesia come la possibilità di articolare l'osservazione della propria mente, di ricordarsi uno o due pensieri e buttarli giù. In quel senso è facile come respirare […]. Da questo punto di vista è molto simile alla meditazione».66 Anche in questo caso, nelle culture orali, i precedenti non mancano: nota Zumthor che «Una delle tradizioni poetiche più raffinate del mondo era, fino ancora a mezzo secolo fa, quella degli Inuit, in una lingua in cui una sola parola aveva nello stesso tempo il significato di “respirare” e di “comporre un canto”».67 Ah e Om sono due dei suoni basilari di Oṃ Ah Hūṃ, mantra purificatore del buddismo tibetano; Ginsberg vi fa riferimento per esemplificare la possibilità di ripristinare la parola come evento, tutt'uno con l'atto di pronunciarla («The spoken breath, “Ah-om”, or “Oh” or “Ah” ore “Uuuh”, is identical with the event that it describes, because it is the event»68), di conseguenza irripetibile, mai uguale a sé stessa: «[…] perché in realtà non siamo noi a parlare, è solo il vento, è solo il vento, è solo un respiro che ci attraversa»69 e perché «the quality of the Om is dependent on the quality of the Om-er»70 (chissà che facendo simili affermazioni Ginsberg non notasse la somiglianza fra il termine Om-er e il nome proprio

Homer). Per Ginsberg l'unica prosa che possa dirsi “veritiera” e “personale” è quella che

nasce dal proprio ritmo corporeo, cioè dalla respirazione:

64 Ivi, pagg. 27-28.

65 Cfr. A. Ginsberg, Allen Verbatim. Lectures on poetry, politics, politics, consciousness, McGRAW-HILL, New York, 1974, pag. 109.

66 A. Ginsberg, Facile come respirare. Appunti, lezioni, conversazioni, Minimum Fax, Roma, 1998, pag. 97. 67 Zumthor, pag. 99.

68 A. Ginsberg, Allen Verbatim. Lectures on poetry, politics, politics, consciousness, McGRAW-HILL, New York, 1974, pag. 25.

69 A. Ginsberg, Facile come respirare. Appunti, lezioni, conversazioni, Minimum Fax, Roma, 1998, pag. 96. 70 A. Ginsberg, Allen Verbatim. Lectures on poetry, politics, politics, consciousness, McGRAW-HILL, New

If you don't write your own prose out as part of your own body rhythm, some actual rhythm from real speech, as some really spoken tale as might be spoken by Homer or any old taleteller, you wind up with an impersonal prose […]. In other words you can wind up with prose which is a lie […]. […] there is a tradition of prose in America, including Thomas Wolfe and going through Kerouac, which is personal, in which the prose sentence is completely personal, comes from the writer's own person-his person defined as his body, his breathing rhythm, his actual talk.71

Una lettura consapevole del ritmo fa sì che «The breath of the poet […] is reproduces by the breathing of the reader».72

Il concetto di parola magico-religiosa ed efficace espresso da Detienne, trova un'applicazione nel poema pacifista di Ginsberg Wichita Vortex Sutra (1966). I sutra sono aforismi o componimenti che racchiudono – generalmente, ma non necessariamente, in pochi versi – elementi di filosofia e di sapienza buddista; Ginsberg in realtà esordisce con quella che è una vera e propria invocazione alle Muse, le sue Muse, dal mistico indiano Ramakrishna a William Blake, da Cristo a Jaweh ad Allah, come in una "chiamata alle armi" contro le armi:

I call all Powers of imagination

to my side in this auto to make Prophecy, all Lords

of human kingdoms to come

Shambu Bharti Baba naked covered with ash [...]

Shivananda who touches the breast and says OM Srimata Krishnaji of Brindaban who says take for your guru William Blake the invisible father of English visions Sri Ramakrishna master of ecstasy eyes

half closed who only cries for his mother [...]

Sacred Heart my Christ acceptable Allah the compassionate one Jaweh Righteous One

all Knowledge-Princes of Earth-man, all ancient Seraphim of heavenly Desire, Devas, yogis & holymen I chant to—

Come to my lone presence

into this Vortex named Kansas, [...]

Wichita è una città del Kansas – stato che Ginsberg sta attraversando mentre compone la 71 A. Ginsberg, Allen Verbatim. Lectures on poetry, politics, politics, consciousness, McGRAW-HILL, New

York, 1974, pag. 153. 72 Ivi, pag. 182.

poesia improvvisandola su un registratore portatile – da dove Carrie Nation, veemente attivista favorevole al proibizionismo (era famosa per l'abitudine di danneggiare le sale da bar con un'ascia), aveva lanciato la sua protesta, contribuendo alla diffusione di un clima (un

vortice) di odio e intolleranza che, dicono i versi, aveva finito per condurre alla guerra: «Carry

Nation began the war on Vietnam here/ with an angry smashing ax/ attacking Wine». Ciò che Ginsberg intende dire è che il linguaggio – la parola efficace – ha il potere di incidere sulla realtà fino a trasformarla; la cultura buddista è da lui utilizzata come un "innesto" semantico su quella americana, per sua natura violenta e guerrafondaia. Come nota Lewis Hyde, «[…] the war has been created by language ... & Poet can dismantle the language consciousness conditioned to war reflexes by setting up (mantra) absolute contrary field of will as expressed in language».73 Ginsberg è il poeta-sciamano che officia il rituale, e il Whichita Vortex Sutra è la formula magica in suo possesso. Quasi a testarne l'efficacia, lo pronuncia dichiarando la fine della guerra:

[…]

I lift my voice aloud,

make Mantra of American language now, I here declare the end of the War! […]

Compiendo quest'operazione di contaminazione culturale, Ginsberg sa che il suo mantra avrà successo «only if its language can oppose and finally dismantle the corrupt and evil language which has conditioned the American people to “war reflexes”».74 Ginsberg, in altre parole, vuole mettere alla prova il linguaggio: «In this sense, “Wichita Vortex Sutra” is primarily a poem embodying an experience of contemporary American language and what that language can or cannot accomplish».75