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Respiro, voce, gesto e parola: gli archetipi dell'azione rituale

In cerca della voce primordiale: i Beat e gli archetipi del sacro

3.1 Respiro, voce, gesto e parola: gli archetipi dell'azione rituale

Il ritorno all'oralità del movimento beat e la conseguente riscoperta della parola poetica nella sua dimensione performativa non possono essere comprese appieno se non si tiene conto di una fondamentale componente spirituale, sempre sottesa e non di rado esplicitata dai suoi protagonisti; Kerouac e Ginsberg furono tra i primi a definire la Beat Generation un fenomeno religioso, insistendo sul legame semantico tra il concetto di beat e beatitudine. Di contro, va subito evidenziato il principale rischio cui ci si espone esaminando tale aspetto: quello di cercare “punti fermi” o esempi di ortodossia in un movimento che fu di per sé «antinomian and predominantly mystic in substance».1 Sarebbe dunque malposto, oltre che inutile, il tentativo di attribuire una visione sistematica o coerente a poesie come Howl in cui Plotino, Edgar Allan Poe, la kabbalah, il bebop e San Giovanni della Croce appaiono evocati dalla medesima vibrazione cosmica:

[…]

who studied Plotinus Poe St. John of the Cross tele- pathy and bop kabbalah because the cosmos istinctively vibrated at their feet in Kansas, […] (Allen Ginsberg, Howl)

In quella che si configura, per l'appunto, come sintesi di interessi e spunti anche diversissimi tra loro, possiamo tuttavia individuare un filo rosso, un elemento comune: la ricerca di un 1 Cfr. A. Grossman, Allen Ginsberg. The Jew as an American Poet in L. Hyde, On the poetry of Allen

Ginsberg, University of Michigan Press, 1984, pag. 103: The Beat movement [...] is antinomian and

approccio primordiale al sacro, il ritorno ad archetipi di origine lontanissima di cui – nel passaggio dalla tradizione orale a quella scritta – si era largamente perduto il senso. A ciò si deve aggiungere, parlando di una generazione segnata a più riprese dalla tragedia della guerra, l'aspirazione a una fede davvero salvifica, a un ideale di purezza davvero incontaminato; per raggiungerlo, i Beat si sono rivolti alle antiche forme dell'azione rituale e non di rado alle droghe, con lo scopo di allargare la realtà percepibile. Fissare le esatte coordinate geografiche e culturali di tale fenomeno è un'altra tentazione comprensibile quanto fuorviante: basti pensare a Kerouac e Ginsberg. Entrambi, sia pure con risultati diversi, hanno adottato e vissuto il buddismo, le tradizioni orientali, la meditazione zen; al contempo per entrambi risultava indissolubile, nella vita così come nella produzione poetica, il legame con la propria cultura originaria (l'ebraismo per Ginsberg, il cattolicesimo per Kerouac). Nelle prime stesure del romanzo che sarebbe poi divenuto Sulla strada, il protagonista Red Moultrie (versione embrionale dei futuri Dean Moriarty e Sal Paradise),

scontava l'ultima notte di una condanna avuta per complicità in una rapina. In prigione legge la Bibbia e Il viaggio del pellegrino e fa voto, una volta fisicamente libero, di cercare una libertà spirtuale, «un'eredità», come il pellegrino di Bunyan, «incorruttibile, incontaminata e che non svanisce».2

Lo stesso Sal Paradise deve il proprio cognome ad un immaginario di «memoria dantesca»3, cioè cristiana; se il viaggio della Beat Generation si è a un certo punto diretto a Oriente, lo ha fatto alla ricerca di qualcosa che in Occidente sembrava irrimediabilmente perduto.

Potremmo dire, semplificando, che l'avvento della scrittura aveva fatto sì che la parola prevalesse sulla voce; ed è a questa voce che le parole dei Beat vogliono tornare. Emblematico a tale riguardo è l'episodio della visione esperita dal giovane Allen Ginsberg a cui abbiamo fatto riferimento nel primo capitolo, tanto determinante (per la sua vita e la sua ispirazione future) da essere spesso rievocato come un punto di non ritorno; si trattò, più esattamente, di un'audizione:

«la qualità speciale della voce aveva qualcosa di indimenticabile perché era come se Dio avesse una voce umana, con tutta l'infinita tenerezza e anzianità e la solennità mortale di un Creatore vivente 2 J. Campbell, Questa è la Beat Generation, Guanda, Parma, 2001, pag.123.

3 Cfr. Ed Sanders in J. L. Mezzetta (a cura di), L'impermeabile di Kerouac. Interviste sulla Beat Generation a

che parla a suo figlio...»4

La medesima voce sarebbe stata poi invocata come sacra accanto a “coloro che la sentono” -nella sezione conclusiva di Howl: «The typewriter is holy the poem is holy the voice is holy the hearers are holy […]». Come sottolinea Corrado Bologna in Flatus vocis, la voce, in quanto forza archetipica, ha una «notevole capacità di generare miti e di prestarsi a significazioni religiose».5 Nelle culture orali la parola non poteva esistere se non attraverso la voce che la pronunciava, e la voce era una delle componenti fondamentali alla riuscita ed al funzionamento del rito. La parola non scritta si configurava come

[…] evento, forma di comunicazione che si attiva in un istante preciso nel tempo e che, al di là di quell'istante, non si presta a essere riprodotta sotto le stesse identiche condizioni situazionali ed emotive. Quest'istante nel tempo, inoltre, [...] deve collegarsi a un'azione pregna di significato, quale il rito, la cerimonia, la celebrazione o, comunque, il momento di incontro comunitario: ne conseguono la dimensione di performance, esecuzione spettacolarizzata, che l'uso della parola nelle sue forme più alte, in particolare poetiche, assume nelle culture orali e la sua fruizione di gruppo, mai solipsistica come quella della parola scritta.6

Riportando la poesia orale nell'alveo dell'azione rituale, i Beat ripristinano un legame che in epoca arcaica era garantito dalla tradizione stessa e vissuto come ovvio, tanto fra i Greci – per i quali «la parola poetica faceva esistere il mito, non lo narrava semplicemente»7 – quanto fra le civiltà africane, che considerano «la parola ritmata o cantata come potenza di vita e di morte, luogo d'origine di ogni invenzione: il nome fa essere, l'esistenza si concepisce in termini di ritmo».8 Animato dalla voce che lo pronuncia, il testo poetico «si identifica con ciò che esso fa esistere nell'ordine delle percezioni, delle emozioni, dell'intelligenza».9

Non era diverso, almeno inizialmente, l'approccio delle grandi religioni monoteistiche. Esse, com'è noto, fondano i propri testi sacri sul concetto di parola; e tuttavia, originariamente, erano soprattutto religioni della voce. Una voce «chiama a sé Maometto, che diviene così il “mediatore della Parola” […]; anche Mosè, Abramo, i patriarchi e i profeti veterotestamentari odono quella voce, in genere come “voce della natura”, ad esempio parlante dal cielo, da un 4 A. Ginsberg in J. Campbell, Questa è la beat generation, Guanda, Parma, 2001, pagg. 99-100.

5 C. Bologna, Flatusvocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 10. 6 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Carocci, Roma, 2006, pag. 18.

7 Ivi, pag. 16.

8 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 383. 9 Ibidem.

cespuglio […]».10 La parola articolata, più che agli dei, sembra in effetti appartenere al profeta/mediatore, colui che ha il compito di tradurne il messaggio in maniera comprensibile a tutti: parlando e interpretando la voce del dio, ne diventa l'emissario. E prima ancora della voce viene il soffio, cioè il respiro, senza il quale non sarebbe possibile alcun atto di fonazione/creazione: «Il soffio della voce è creatore. […] Nella Bibbia, il soffio di Yahweh dà vita all'universo come dà vita a Cristo […]».11

La centralità della voce e la sua potenza archetipica coesistevano e coincidevano con la necessità di tramandare formule che altrimenti sarebbero state dimenticate. Man mano che gli spazi dell'oralità venivano soppiantati dalla scrittura e che la poesia orale è «evasa dal rito che la conteneva»12, al rito non sono rimaste che le sacre scritture, alla cui lettura si è aggiunta, in epoca moderna e contemporanea, la non facile operazione di interpretarle. È ben noto, ad esempio, che nella tradizione cattolica Cristo corrisponde al Verbo; e tuttavia, se oggi volessimo chiarire cosa questo esattamente significhi, non potremmo non fare riferimento a secoli di teologia, alle diverse interpretazioni dell'incarnazione e della trascendenza, alle speculazioni filosofiche sul concetto di Logos; ad un pensiero, cioè, sempre più astratto e strutturato, ben lontano dall'archetipo che l'aveva partorito.

È anche a quest'orizzonte culturale ormai mutato che dobbiamo fare riferimento per comprendere determinate tecniche letterarie utilizzate dai Beat allo scopo di “liberare” nuovamente la parola. La prosa spontanea di Kerouac o il cut-up utilizzato da Burroughs, per l'appunto, non erano intese come mere operazioni stilistiche, ma sottendevano una polemica con le parole disposte secondo un ordine fisso, assoluto, dogmatico. Per Brion Gysin (poeta e pittore sperimentale, compagno e collaboratore di Burroughs) il cut-up rappresentava addirittura la risposta necessaria ai testi sacri del monoteismo: «Tutte le 'religioni del Libro', cioè l'ebraismo, il cristianesimo e l'islamismo, si basano sull'idea che in principio era il Verbo... il destino è scritto. Se volete sfidare e cambiare il destino, tagliate le parole. Rendetele un mondo nuovo.»13 Le ricerche di Gysin, oltre a influenzare notevolmente lo stile di Burroughs, l'avevano indotto a credere che le parole fossero «il principale strumento di controllo»14, pertanto si rendeva necessario «uccidere la Parola»15, ucciderla per poi “resuscitarla” in quell'archetipo perduto, con una “voce” che, come nota Zumthor, è «parola 10 C. Bologna, Flatusvocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 120.

11 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 8. 12 Cfr. P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 331. 13 J. Campbell, Questa è la Beat Generation, Guanda, Parma, 2001, pag. 267.

14 Ibidem. 15 Ibidem.

senza parola, purificata, filo vocale che fragilmente ci collega all'Unico […]».16

Contrariamente alle religioni istituzionalizzate, caratterizzate dall'aderenza a precetti fissi e immutabili, l'approccio dei Beat alla spiritualità sarà «costantemente caratterizzato da rivelazioni e visioni mistiche»17, dunque variabile, mutevole. Riscoprendo tradizioni come quelle africane o asiatiche, che tengono «[…] in considerazione maggiore la forma della voce, attribuendo al suo timbro, alla sua altezza, alla sua emissione […] potere trasformatore o curativo»18, questi autori puntano a resuscitare

la parola nella sua forma primigenia e più sensuale, quella che appartiene alla pura dimensione del suono. Al potere creativo di questo “medium aborigeno”, come a quello di un nume venerando, alcune tra le più antiche culture hanno innalzato inni, sulla sua capacità di rivelare il mondo, di far esistere le cose, hanno fondato cosmologie e teologie. E questo perché la parola, nelle culture a oralità integrale, è davvero in grado di regolare il rapporto tra l'uomo e la realtà che lo circonda, di sostanziare per lui il rito e il culto, di dare vita nella sua immaginazione al mito e progressivamente nella sua ragione al senso della storia [...].19

Impresa non certo facile, quella di ripristinare «la pura dimensione del suono» in una società ormai inevitabilmente caratterizzata dalle suggestioni di massa e da tutte le possibili declinazioni del caos e del rumore. Proprio in ragione di questa difficoltà si spiega la scelta, apparentemente contraddittoria in un contesto di ritorno all'oralità – che per sua natura prevede forme di interazione collettiva – di cercare invece la beatitudine in un isolamento da eremiti, condividendo solo successivamente, con gli altri, i frutti della chiarezza eventualmente raggiunta. Kerouac, a tal proposito, proponeva di «praticare una piccola solitudine»:

Beat doesn’t mean tired, or bushed, so much as it means beato, the Italian for beatific: to be in a state of beatitude, like St Francis, trying to love all life, trying to be utterly sincere with everyone, practising endurance, kindness, cultivating joy of heart. How can this be done in our mad modern world of multiplicities and millions? By practising a little solitude, going off by yourself once in awhile to store up that most precious of golds: the vibrations of sincerity.20

16 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 10. 17 Cfr. B. Hunsberger, Kit Smart's Howl, pag. 159.

18 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 13. 19 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Carocci Editore, Roma, 2006, pag. 131.

20 J. Kerouac, dichiarazione del 1958 tratta da L. Coupe, Beat sound, Beat vision. The beat spirit and popular

Già da queste premesse si può intuire come il “ritorno all'archetipo” operato dal movimento beat sia stata un'operazione culturale prima ancora che religiosa, e come tale non riducibile a una moda passeggera, misticheggiante e intrisa di sincretismo New Age. È stato anche un tentativo consapevole, sperimentale e proprio per questo non sistematico, di ripristinare credibilmente quelle caratteristiche e funzioni della dimensione visiva, orale e aurale che da sempre gli uomini hanno attribuito al divino: la parola, la voce e il gesto, compresi negli spazi della formula e del rito. In tal senso il respiro è sempre il respiro, a prescindere che si tratti del soffio creatore di Yahweh o delle tecniche di respirazione proprie della meditazione buddista; e la voce è sempre la voce, quale che sia il dio o l'uomo che la emette.

3.2 Veggente o invasato? Il poeta come officiante del rito e tramite di una voce