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Kaddish: l'identità culturale come anima errante

In cerca della voce primordiale: i Beat e gli archetipi del sacro

3.5 Kaddish: l'identità culturale come anima errante

I lift my voice aloud,

make Mantra of American language now, I here declare the end of the War! […]

Compiendo quest'operazione di contaminazione culturale, Ginsberg sa che il suo mantra avrà successo «only if its language can oppose and finally dismantle the corrupt and evil language which has conditioned the American people to “war reflexes”».74 Ginsberg, in altre parole, vuole mettere alla prova il linguaggio: «In this sense, “Wichita Vortex Sutra” is primarily a poem embodying an experience of contemporary American language and what that language can or cannot accomplish».75

3.5 Kaddish: l'identità culturale come anima errante

Può apparire paradossale che un'opera come Kaddish (1961) – così intima e personale come solo l'elaborazione di un lutto familiare può essere – possa fare da perno per una riflessione 73 A. Ginsberg, Allen Verbatim. Lectures on poetry, politics, politics, consciousness, McGRAW-HILL, New

York, 1974, pag. 182.

74 L. Hyde, On the poetry of Allen Ginsberg, University of Michigan Press, 1984, pag. 294. 75 Ivi, pagg. 294-295.

più ampia, generazionale, collettiva; eppure, come vedremo, questa via di mezzo tra lamento funebre, autobiografia e invocazione del divino esprime – in uguale e forse maggiore misura rispetto a Howl – un sentimento universale. Il kaddish è una preghiera ebraica il cui tema centrale è, per l'appunto, l'esaltazione del nome di Dio. Ginsberg non aveva potuto partecipare al funerale della madre che si tenne, secondo l'usanza ebraica, non più di tre giorni dopo il decesso. Durante il rito un necroforo recitò una breve preghiera in ebraico, ma non fu possibile dare a Naomi Ginsberg il kaddish poiché mancava il quorum necessario di dieci maschi richiesto dai precetti del Talmud. Con la consueta compresenza di sacro e profano, con un piede nella tradizione e uno fuori, Ginsberg restituisce alla madre – tramite la poesia – quello che i precetti religiosi le avevano negato (sfogando anche, almeno in parte, il senso di colpa per averla fatta internare e per non aver partecipato alla cerimonia); ma Kaddish non è solo questo. Il lungo componimento attraversa vari momenti, vari stati d'animo del poeta e della realtà che lo circonda; nei primi versi già si sovrappongono i temi della morte e della ricerca della verità, la paranoia della madre e quella di Allen, la tradizione ebraica e quella buddista, con il blues di Ray Charles in sottofondo:

Strange now to think of you, gone without corsets & eyes, while I walk on the sunny pavement of Greenwich Village.

downtown Manhattan, clear winter noon, and I’ve been up all night, talking, talking, reading the Kaddish aloud, listening to Ray Charles blues shout blind on the phonograph

the rhythm the rhythm – and your memory in my head three years after – And read Adonais’ last triumphant stanzas aloud – wept, realizing how we suffer –

And how Death is that remedy all singers dream of, sing, remember, prophesy as in the Hebrew Anthem, or the Buddhist Book of Answers – and my own imagination of a withered leaf – at dawn – […]

Prevalgono i riferimenti all'oralità: il kaddish è recitato dal poeta «aloud», così come le ultime strofe di Adonais. L'influenza del blues sul timbro della poesia è esplicitamente citata («the rhythm the rhythm»), ma per comprendere appieno le sonorità che Kaddish evoca dobbiamo ripensare alle elegie e ai salmi biblici: «l'inno ebraico è grave, solenne e degno di quella

maestà divina che intende specialmente ad onorare […]»76. Per meglio accostarsi al testo originale di Kaddish, afferma Fernanda Pivano, bisogna tenere presente il ritmo delle lamentazioni ebraiche:

Sentirlo leggere Kaddish ad alta voce è davvero come ascoltare una preghiera ebraica per i morti. […] ebraico e salmodiante com'è, questo tradizionale inno a una morta ha in sé il segno della più tipica trasformazione operata da Ginsberg nelle leggi poetiche tradizionali. […] Voglio dire, nel momento stesso che Ginsberg attinge nella forma a un'ispirazione biblica e religiosa delle più tradizionali e inalterabili, la immerge nella realtà sociale e poetica più drammaticamente contemporanea. Il risultato è un misto di angoscia e terrore, di commozione e di spavento, di pietà e di terrore.77

Commozione, spavento, pietà, terrore: sono i sentimenti che Ginsberg indirizza a Dio come alla madre, alla voce primordiale della natura, al suo mistero incomprensibile. Se in Howl giganteggiava il Moloch del capitalismo – inumano, inquisitore, guerrafondaio – qui è Dio ad essere invocato, ambiguamente, con immagini pacificanti («Blessed be He Who leads all sorrow to Heaven! Blessed be He in the end!») oppure minacciose (Lord Lord great Eye that stares on All and moves in a black cloud»). Le immagini bibliche, del resto, sono spesso grandiose e iperboliche, tanto in positivo quanto in negativo: «[…] nato specialmente da un sentimento di adorazione o di terrore ispirato dall'onnipotenza del nume che premia o castiga, il linguaggio poetico del popolo cercò l'espressione più elevata per rappresentarsi il nume collocato molto in alto»78.

Accostando il racconto struggente del calvario clinico di Naomi alle formule del rituale ebraico, Ginsberg fa i conti con una contraddizione essenziale che non è solo sua, ma dell'intera Beat Generation: il sentirsi alieni tanto nella propria cultura originaria quanto in quella di arrivo. Da un lato, come afferma Allen Grossman, il poeta si rappresenta come «the only surviving son of a Jewish universe which died with the death of his mother»79, facendo della tradizione ebraica «[…] a new ground for poetic identity beyond the disintegrating coterie which first gave him notoriety and a language»80. Dall'altro comprende che la coterie internazionale, frammentaria e disgregante a cui Grossman fa riferimento fa comunque parte 76 A. De Gubernatis, Storia della poesia lirica, Editore Ulrico Hoepli, Milano, 1883, pagg. 83-84.

77 F. Pivano, Pagine Americane. Narrativa e poesia 1943-2005, Edizioni Frassinelli, 2005, pagg. 362-363. 78 A. De Gubernatis, Storia della poesia lirica, Editore Ulrico Hoepli, Milano, 1883, pagg. 83-84.

79 A. Grossman, Allen Ginsberg. The Jew as an American Poet in L. Hyde, On the poetry of Allen Ginsberg, pag. 108.

di lui:

This mixture of nationalism and ethnicism represents the peculiar position of the American Jewish poet who regards himself as simultaneously native and, in the special sense which always pertains to the Jew, alien. […] The culture of Ginsberg’s poems, despite its attempt to naturalize itself, is fundamentally an international culture, as the mind of the Jew is fundamentally an international or extranational phenomenon. “Kaddish” opens with a neo-Platonic reference to Shelley’s Adonais, a prophetic memory of the Hebrew anthem, and echoes of Christian apocalypse. His style recalls successively Yeats, Hart Crane, William Blake, the Jacobean prose of the Authorized Version, the ecstatic prose of Moby Dick, the translations from the thirties of the Chinese wisdom literatures. Whereas the national image in Whitman is a stable symbol of an ideal form of the self, Ginsberg’s reference to America is an effort to naturalize a fundamentally alien consciousness.81

Nessun popolo quanto quello ebraico è accostabile – simbolicamente – a questa generazione errante, segnata dal disastro bellico, beatificata quanto battuta: «the Jew is the prime symbolic representative of man overthrown by history»82. Malgrado il tono grave e – ovviamente – funereo, Kaddish non si limita a rappresentare l'epitaffio per una madre (e per un mondo, per una generazione) morente; ne include la celebrazione, non senza una speranza di rinascita (o di reincarnazione, se guardiamo al poema in un'ottica buddista). L'anima errante di Israele, la cosiddetta Shekhinah, langue e si consuma come la madre Naomi; ma è il poeta a rivitalizzarla, cantando il rituale ad alta voce e ricostituendola fuori dalla storia (cioè nella poesia e nel mito):

In “Kaddish” the archetypal female is a mutilated and paranoid old woman […] haunted by the image of Hitler and dying, obscene and abandoned, in a sanatorium. This is Ginsberg’s version of the Jewish mother and, simultaneously, of the shechina, the wandering soul of Israel herself. Ginsberg is the last dutiful son of Israel reciting kaddish at the grave of his mother and of the symbolic image of his people. The mysticism of Ginsberg […] represents the attempt of the Jewish mind to reconstitute itself outside of history.83

La presenza della voce – umana, ancestrale, invocata, recitata, immaginata – resta insomma una delle cifre costanti della poesia beat e del suo recupero dell'oralità; per quanto la si possa 81 A. Grossman, Allen Ginsberg. The Jew as an American Poet in L. Hyde, On the poetry of Allen Ginsberg,

pag. 106.

82 Ivi, pag. 103 (dichiarazione di Allen Ginsberg). 83 Ivi, pag. 105.

sintetizzare – come si è cercato di fare in queste pagine – nelle diverse sperimentazioni linguistiche, antropologiche e letterarie del movimento, la sua importanza risiede soprattutto nella domanda, universale e irrisolta, che essa stessa implica. Cosa rimane, della voce, dopo la voce?

[...]

Now I've got to cut through – to

talk to you – as I didn't when you had a mouth. Forever. And we're bound for that, Forever – like Emily Dickinson's horses – headed to the End. They know the way – These Steeds – run faster than we think – it's our own life they cross – and take with them.

Capitolo 4