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La parola performativa. Tracce di oralità nella poetica della Beat Generation

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia D

IPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICI E CULTURALI

C

ORSO DI

L

AUREA

M

AGISTRALE IN

LINGUE, CULTURE, COMUNICAZIONE

La parola performativa.

Tracce di oralità nella poetica della Beat Generation

Prova finale di:

Federica Guerra Relatore:

Franco Nasi

Correlatore:

Marc Seth Silver

Anno Accademico 2019/2020

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ABSTRACT

This dissertation aims to show how the Beat Generation, in the middle of the Twentieth century, tried to restore the ancient role of the poet as an artist performing in front of an audience. By means of contextual references, textual analysis, examples and the previous studies on oral poetry, this paper outlines a new rise of orality in the poetics of the movement.

The first chapter retraces the development of the poet's role through history, from its being the guardian of the tradition and a person in charged with social functions, to his progressive loss of centrality. At the same time, it follows the development of poetry from its oral roots in early societies, to the emergence of writing and the subsequent invention of printing, which transformed the relationship between poets and their audience and the attitude towards poetry itself. Afterwards the reader is introduced in the realm of the Beat, by focusing on their attemps to take poetry back into the streets where it once was.

In the past, as it is now in many cultures, oral poetry overlapped with, or was identical with, song. The second chapter investigates the deep connection which once existed between poetry and music, until they became more independent by the end of the Vth century b.C. An overview of their original relationship is all-important in order to analyse the peculiar position of Jack Kerouac and Allen Ginsberg towards music. The first one, whose novels became icons of a generation, developped his bop prosody by listening to jazz music, whereas the latter was more attracted to the dimension of sound, so that he ended up singing his poems and recording albums with Bob Dylan.

It is known that one of the meaning of the word "beat" refers to a particular attitude or state of blessedness named "beatitude", which itself reveals the desire of the Beat Generation to place itself in a spiritual dimension. The third chapter argues that they approached religion because they found in it a way to awaken their consciousness; moreover, it is shown how religion affected their poetry and their lifestyle.

The last chapter investigates the relationship between the Beat Generation and other avantgarde movement developped in the fifties in Brasil and in Europe. These movements wanted to create a new kind of art in which different languages were blended. Moreover, it was interesting to notice that many of their researches were focused on the recover of voice as a creative medium.

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RÉSUMÉ

Cette mémoire a l'objectif d'individuer les marqueurs d'oralité parmi lesquels la Beat Generation a essayé de rétablir la dimension publique et spectacolaire de la performance poétique.

Le premier chapitre parcourt par grandes étapes le développement historique du rôle du poète, depuis qu'il était considéré le dépositarie de la tradiction et il exerçait des fonctions sociaux, jusqu'à sa perte de centralité. Parallèlement, on suit le développement de la poésie dès ses racines orales dans les sociétés archaïques, jusqu'à l'invention de l'écriture et de l'imprimerie, qui ont changé radicalement la rélation entre le poète et son publique et la façon de coicevoir la poésie. Après on va introduir les moyens par lesquelles les Beat ont cherché à retourner la voix au corps du poète.

Ensuite, on approfondit l'étroit lien qui existait entre poésie et musique, jusqu'à ce qu'elles sont devenues indépendantes l'une de l'autre vers le IV siècle a.C. On veut surtout souligner le parallelisme qui existe entre la poésie lyrique, qui était un genre bien codifié chez les Grecs, et la poétique d'Allen Ginsberg et Jack Kerouac, qui avaient une rélation tour particulière avec la musique. Kerouac a emprunté son style aux rythmes éffrénés du jazz, tandis que Ginsberg était fasciné par la dimension sonore de la poésie, tant qu'il a commencé à chanter ses propres poèmes.

Le mot "beat" a plusieurs sens, dont un est béni, bienheureux. À partir de cette affirmation, qui témoigne une certaine spiritualité du movement, on va chercher dans leur poétique et dans leur mode de vie les étapes d'un voyage intérieur qui les a menés a redécouvrir les archétypes de la prédication réligieuse. Les Beats sont toujours en quête d'un moyen pour éveiller leur conscience, pour vivre une expérience libératrice, dont découle leur intérêt pour le Bouddhisme.

Enfin, on change nôtres coordonnés pour retrouver, chez les avant-gardes historiques et chez les nouveaux mouvements d'avant-garde nés dans les années cinquante, une tendance à mettre en discussion le langue littéraire et le modes de la communication, qui était propre de la Beat Generation aussi. Ce qui nous intéresse est la spérimentation en diréction d'une poésie orale, qui utilise sons et instruments et surtout qui explore les potentialité de la voix humaine.

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INDICE

Introduzione 1

1 Presenza della voce, presenza del poeta: la Beat Generation e il ritorno all'oralità 1.1 Dalla presenza della voce alla sua assenza 6

1.2 La voce restituita al corpo 14

2 I Beat e la musica: dalla prosodia bop di Jack Kerouac ai blues di Allen Ginsberg 2.1 Poesia delle origini: la lirica 21

2.2 Jack Kerouac e la strada del ritmo 25

2.3 Allen Ginsberg e la strada del suono 31

3 In cerca della voce primordiale: i Beat e gli archetipi del sacro 3.1 Respiro, voce, gesto e parola: gli archetipi dell'azione rituale 42

3.2 Veggente o invasato? Il poeta come officiante del rito e tramite di una voce ultraterrena 47

3.3 Tra sacro e profano: Ginsberg, Blake, Whitman e la predicazione orale 52

3.4 Beat e buddismo: alienità culturale e ritorno al respiro 57

3.5 Kaddish: l'identità culturale come anima errante 63

4 Altre latitudini 68

4.1 Le sperimentazioni del primo Novecento 69

4.2 Gli anni polifonici della neoavanguardia 74

Conclusioni 85

Bibliografia 89

Siti consultati 91

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Introduzione

«Disse che anche la poesia andava detta in un altro modo, perché servisse ad altre schiere, e perché diventasse movimento attivo senza ritorno, ogni volta che il desiderio avesse preso una forma e il dominio»

(Attraversare il fiume, da I fondamenti dell'essere, Patrizia Vicinelli)

Non è un caso, forse, se l'opera più famosa di Allen Ginsberg, la lunga poesia dedicata a Carl Solomon per la quale Lawrence Ferlinghetti, editore della prima edizione di Howl and other Poems, è stato accusato di oscenità, si intitola Howl, “Urlo”. La poesia, com'è noto, è stata letta per la prima volta la sera del 7 ottobre 1955 alla Six Gallery di San Francisco, in occasione di una lettura pubblica a cui hanno partecipato anche Philip Lamantia, Gary Snyder, Michael McClure, Philip Whalen e Kenneth Rexroth, un poeta della generazione precedente, nella veste di Maestro delle cerimonie. In quell'occasione, come nelle numerose altre che seguirono, è stata la voce di Ginsberg a dare vita alle parole del testo, a restituire alla sfera orale-aurale dell'ascolto il suo poema composto per iscritto, perché «aveva capito l'importanza del suono della lingua scritta, e anche l'importanza del coinvolgimento fisico del poeta coi versi lunghi: la lunghezza del verso non indicava soltanto l'atto fisico di tirare il respiro ma anche l'unione dello stato fisico con quello emotivo durante la composizione.»1

Se, com'è ovvio, l'impatto di Howl dipese in larga parte dal suo contenuto e dall'alto valore letterario che gli è stato riconosciuto (elevandolo, con On the road di Jack Kerouac, a testo chiave della Beat Generation), è innegabile d'altra parte che furono la performance di Ginsberg e l'eco che ne seguì ad amplificare per alcuni la portata dello scandalo, per altri la certezza della rivoluzione culturale alle porte. Queste le testimonianze di alcuni dei presenti:

Kerouac: Tutti gridavano... mentre il vecchio padre [Rexroth] della ribalta poetica di San Francisco si asciugava le lacrime per la felicità. [...]

McClure: Ginsberg lesse fino alla fine della poesia, che ci lasciò in piedi stupiti, o esultanti e stupiti, ma sapendo nel profondo che era stata infranta una barriera. [...]

Rexroth: Quando finì, il pubblico di duecentocinquanta persone si alzò in piedi e batté le mani ed

1 F. Pivano, Pagine americane: narrativa e poesia 1943-2005, Milano, Frassinelli, 2005, pag. 1533.

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esultò e pianse.2

E ancora più illuminante è la successiva testimonianza di Michael McClure, che ci racconta di come, quella sera, «Una voce umana e un corpo erano stati scagliati contro il duro muro dell'America e dei suoi eserciti di alleati e di marina e accademie e istituzioni e sistemi di proprietà e le basi che sostengono il suo potere»3. È la presenza del poeta a fare la differenza, a richiamare all'azione gli astanti che non possono trattenersi dal piangere, dall'esultare, dal battere le mani in segno di approvazione e commossa partecipazione. È il corpo del poeta ad ergersi contro l'establishment americano degli anni Cinquanta, è la voce del poeta ad essere lanciata (urlata, potremmo dire in questo particolare caso) contro le sue fondamenta, a minarne irrimediabilmente la stabilità. Perché la voce, prima di trovare espressione nella parola e quindi nel linguaggio articolato, non è altro che un evento sonoro e rappresenta nell'inconscio umano «una forza archetipica [...] dotata di un potente dinamismo creatore»4 capace di creare talvolta, ma anche di distruggere.

Certamente l'alto gradiente alcolico della serata (si riporta che lo stesso Ginsberg era intoxicated5 già prima di salire sul palco), con un Jack Kerouac tra il pubblico che si adoperava per rifornire il locale di vino rosso californiano, ha contribuito di per sé a creare un'atmosfera di comunione e abbandono collettivo6, ma più del vino è stata determinante la performance del poeta, che nutriva l'entusiasmo della folla e a sua volta se ne alimentava:

Somewhat nervous, he started in a calm, quiet tone, letting the poem’s words achieve their own impact, but before long he gained confidence and began to sway rhythmically with the music of his poetry, responding to the enthusiasm of the audience, which was transfixed by "Howl’s" powerful imagery. Jack Kerouac [...] shouting “GO!” at the end of each long line. The crowd quickly joined him in punctuating Allen’s lines with shouts of encouragement, and Allen, inspired by the intensity of the room, responded with an even greater flourish to his reading.7

Oggi potremmo ritrovare lo stesso entusiasmo, la stessa partecipazione e la stessa sintonia tra

2 J. Campbell, Questa è la Beat Generation, Ugo Guanda Editore S.p.A., Parma, 2001, pagg. 201-202.

3 Ivi, pag. 202.

4 C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Ed. Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 10.

5 http://www.english.illinois.edu/maps/poets/g_l/ginsberg/performance.htm, consultato in data 11/07/2019.

6 « As the evening progressed and the audience began to get tipsy, suddenly everyone was a participant.

Ginsberg later explained: “[The poets] got drunk, the audience got drunk, all that was missing was the orgy.”

David S. Wills, Sixty Years After the Six Gallery Reading, 07/10/2015, dal sito https://www.beatdom.com/sixty-years-after-the-six-gallery-reading, consultato in data 11/07/2019.

7 M. Schumacher, Dharma Lion: A Biography of Allen Ginsberg, University of Minnessota Press, 1992.

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pubblico e performer al concerto di una popstar acclamata, non certo a un recital di poesie, e questo è dovuto, oltre alla particolare attitudine di Ginsberg, a fenomeni spiegabili dalla prossemica (la gestualità, la distanza interpersonale, lo spazio dell'azione) e soprattutto a certe caratteristiche della poesia che, seppure testuali, possono essere lette come indizi di un'oralità latente. Proprio questi indizi saranno oggetto della presente trattazione, allo scopo di svelare la relazione tra la poetica dei maggiori esponenti della Beat Generation e la poesia orale, il cui vasto campo di indagine è ancora largamente in via di esplorazione.

Il caso dello storico reading alla Six Gallery del 1955 non è affatto isolato, anzi è emblematico dell'attività di questi poeti che dedicarono la loro vita alla diffusione della poesia e in parallelo alla lotta contro ogni tipo di discriminazione (razziale, sessuale, ideologica), per una maggiore emancipazione delle categorie sociali più emarginate. Questi scrittori si sono avvicendati sul palcoscenico un numero indefinito di volte, recitando – finanche cantando – i loro versi spesso con un accompagnamento strumentale, e altrettanto numerose sono le testimonianze audio e video conservate negli archivi che ci permettono ancora, a distanza di anni, di partecipare virtualmente alle loro performance. La differenza sostanziale è che nel nostro caso, in assenza del performer, non ci è data la possibilità di interagire direttamente con lui, ed è così che il nostro assomiglia piuttosto all'ascolto passivo di una voce mediata cui non possiamo realmente rispondere. Venendo meno il poeta in carne ed ossa, viene meno una componente fondamentale del reading come performance, che prevede la presenza simultanea del pubblico e dell'artista in quello che si configura come un evento unico ed irripetibile, sia per l'alchimia particolare che si instaura tra un autore e il suo pubblico che per per il contesto (l'anno, il giorno, l'ora e lo spazio dell'esibizione), che spesso incide significativamente sull'esito della performance.

Addentrandoci in quello che va sempre più configurandosi come un genere letterario autonomo, cercheremo di chiarire che la poesia performativa è qualcosa di più e di diverso dal semplice poeta che ci restituisce ad alta voce i suoi versi, sebbene sia anche questo un atto performativo: «all reading is performative/ & a reader has in some ways to supply the performative/ element when reading»8. Nel caso della poesia performativa, però, la performance si dà non come un elemento accidentale e secondario, ma come il fine ultimo della composizione, vincolando l'autore alla scelta di determinati espedienti stilistici e formali o comunque incidendo significativamente sul contenuto della poesia (normalmente, invece, il

8 C. Bernstein, Thelonious Monk and the Performance of Poetry, in My Way. Speeches and poems, The University of Chicago Press, London, 1999, pag. 19.

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testo si considera compiuto dal momento che è sulla pagina, e può capitare che non venga mai letto ad alta voce davanti a un pubblico).

Probabilmente nessuno degli autori intervenuti al reading della Six Gallery, men che meno Allen Ginsberg, si sarebbe definito “performer” né avrebbe fatto riferimento in questi termini alla propria “performance”, ma non possiamo negare che siano stati loro a riportare «la poesia nella strada dove si trovava una volta, fuori dell'aula scolastica, fuori del corso di eloquenza e fuori dalla pagina stampata»9, quella pagina stampata che per anni «ha reso la poesia silenziosa»10 allontanandola dalla gente e dal divenire. D'altronde, prosegue Ferlinghetti nel suo intervento, non importa l'etichetta che viene data alla nuova poesia, «Quello che importa è che questa poesia usa gli occhi e le orecchie come non sono stati usati da molti anni»11. Nella sua nuova veste di poesia che si fa e che, soprattutto, si ascolta in diretta dalla voce dei poeti, il messaggio poetico torna ad abitare le strade, le piazze, le folle, ed a circolare in quello che storicamente è stato il suo primo canale (l'aria) come messaggio orale.

Se è vero che le opere dei poeti della Beat Generation non possono formalmente rientrare nel genere della poesia orale, poiché «la poesia orale è poesia altra [nel tempo, nel luogo, nello spazio] rispetto alla rassicurante poesia scritta»12, è pure altrettanto vero che i loro reading hanno riportato alla luce il tema dell'oralità. Ad accrescere questo rinnovato interesse nei confronti dell'oralità è stato soprattutto lo stile di questi poeti, caratterizzato dall'utilizzo del verso libero, da una prosodia che ha assimilato i ritmi e il sound del jazz e dall'uso di parole gergali prese in prestito dai musicisti afroamericani. Non mancheremo di evidenziare quegli elementi stilistici e testuali che ci permettono di parlare di una seconda oralità, ovvero di un ritorno all'oralità incoraggiato dai media e dalla dimensione partecipativa degli eventi sociali e politici che caratterizzavano l'America degli anni '50 e '60. Per riconoscere questi indizi di oralità, ci rivolgeremo agli studi dei ricercatori che, soprattutto a partire dalla prima metà del Novecento, hanno dedicato la loro vita all'indagine delle tradizioni orali e dei loro detentori, recandosi di persona nelle regioni in cui certe culture marginali sono sopravvissute e raccogliendo le testimonianze di un passato non così lontano in cui anche in Europa c'era ancora chi si cullava, o si ribellava, al suono di una voce non mediata. Citeremo quindi gli studi di Parry, Lord, Havelock, e le opere successive di Ong e Zumthor, che hanno sapientemente sintetizzato e se possibile sviluppato i lavori precedenti, oltre agli autori che in

9 L. Ferlinghetti, Note on poetry in San Francisco, in Chicago Review, Vol. 12, No. 1 (Spring, 1958), pag. 4.

10 Ibid.

11 Ibid.

12 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 24.

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tempi più recenti hanno apportato il loro contributo a questi studi, come Corrado Bologna.

Non è sulla poesia orale o su un suo possibile orizzonte di recupero che si concentrerà il presente lavoro: per noi è impossibile anche solo immaginare una società fondata esclusivamente sull'oralità, figuriamoci pensare di restaurarla. A dispetto della vastità dei possibili studi su un tale argomento, intere aree di ricerca restano tuttora inesplorate e progressivamente spariscono sotto i nostri occhi gli ultimi baluardi di una tradizione che si estingue perché nessuno si fa più carico di tramandarla. Per fortuna però la Beat Generation e, come vedremo, certe avanguardie poetiche del secondo dopoguerra, hanno percorso un cammino “a ritroso” che ha riportato la voce al centro della scena, restituendole un'autorità che aveva quasi completamente perduto e, soprattutto, il suo ruolo di «oggetto intorno a cui si stringe e si solidifica il legame sociale»13. Ci focalizzeremo dunque sulla scoperta di quanto la Beat Generation ha fatto per riportare la poesia «fuori dalla pagina stampata»14, per ridare alla parola le ali che l'introduzione della scrittura – prima – e l'invenzione della stampa – poi – avevano atrofizzato.

Omero – coniando un'espressione formulaica che ricorre per ben centoventiquattro volte nell'Iliade e nell'Odissea – definisce la parola “alata”. Ma qual è questa parola e, domanda ancora più pertinente, a più di duemila anni di distanza e in un contesto radicalmente differente, la parola in cui i poeti della Beat Generation hanno riposto la loro fiducia è ancora in grado di librarsi in volo? Com'è possibile che una generazione tanto discussa e criticata sia riuscita, più di tutte le altre, a farsi ascoltare? Per rispondere a questo e ai molti altri interrogativi sollevati da questo breve capitolo introduttivo, occorre prendere le mosse da un tempo molto lontano in cui la scrittura non era ancora stata inventata, e l'oralità non era un fenomeno marginale ma un insostituibile fattore di coesione sociale: quando l'udito era più importante della vista, e non c'erano strumenti che potessero sostituirsi alla voce umana.

13 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 8.

14 L. Ferlinghetti, Note on poetry in San Francisco, in Chicago Review, Vol. 12, No. 1 (Spring, 1958), pag. 4.

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Capitolo 1

Presenza della voce, presenza del poeta:

la Beat Generation e il ritorno all'oralità

1.1 Dalla presenza della voce alla sua assenza

Il termine “poesia” deriva dal greco poiéō, che significa propriamente fare, produrre. Platone, nel Simposio, chiarisce che poiéō indica un fare artigianale, un creare dal nulla, un agire diretto alla produzione di un oggetto che rimane autonomo ed estraneo rispetto a chi l'ha prodotto; per lo storiografo Erodoto, poiéō è l'attività propria di colui che ha il fine ultimo di creare un'opera in versi. Occorre insomma risalire all'antichità per raccogliere i primi frutti di quest'antico fare, rimasto sostanzialmente invariato nei secoli e per l'uomo ancora così necessario.

Ripercorrendone a ritroso la storia, scopriamo che la nascita della poesia è di molto anteriore a quella della scrittura alfabetica, che fu introdotta intorno all'VIII secolo a.C. in Grecia; a partire da quel momento le tante poesie tramandate oralmente dagli aedi (che le cantavano, spesso accompagnandosi con uno strumento musicale), iniziarono a trovare la loro forma scritta nella fissità della pagina. Non tutte le società umane hanno introdotto la scrittura alfabetica, e certamente l'evoluzione in tal senso è stata graduale; persino nelle culture che sono state prima chirografiche, poi tipografiche, ci sono voluti molti secoli perché la scrittura venisse pienamente interiorizzata, rimodellando le strutture psichiche degli individui e i modi della conoscenza. Nel suo Orality and Literacy. The Technologizing of the Word (1982) l'antropologo Walter Ong attestava l'esistenza, anche in epoca contemporanea, di culture marginali la cui conservazione è assicurata unicamente dalla sopravvivenza delle tradizioni orali, e dove l'oralità non è ancora stata soppiantata dalla scrittura, sebbene gli appartenenti alle suddette culture sembrino auspicarselo:

La scrittura apre alla parola e all'esistenza umana possibilità inimmaginabili senza di essa. Oggi le culture orali riconoscono il valore delle loro tradizioni e ne rimpiangono la perdita, eppure non ho mai incontrato né mai udito di una cultura orale che non volesse conseguire al più presto

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l'alfabetizzazione.1

Del resto, anche le masse non alfabetizzate hanno prodotto un ricco repertorio di poesie e racconti orali tramandati di generazione in generazione. È già difficile per noi immaginare un mondo senza scrittura, un'epoca in cui gli individui potevano contare solo sulla loro memoria per riprodurre nella mente l'esperienza passata e poter così ripetere riti, formule, storie imparate in precedenza. Lo è forse ancor di più pensare alla nascita ed alla diffusione di poesie che non sono mai state scritte: com'è stato possibile comporle? Erano ascrivibili ad un genere piuttosto che ad un altro? Che forma avevano, chi era incaricato di ricordarle?

Naturalmente parlare di forma è sensato per noi che siamo abituati a visualizzare i versi sulla pagina, a riconoscere il metro e la struttura rimica che sostengono la poesia; ma non avrebbe avuto alcun senso prima dell'avvento della scrittura, quando il testo non aveva uno sviluppo spaziale ma temporale. Le parole, che oggi ci appaiono «simili a cose»2, imprigionate

«tirannicamente e per sempre»3 nel nostro campo visivo, erano un tempo entità effimere la cui esistenza si consumava nel brevissimo tempo in cui qualcuno le pronunciava (il che, possiamo supporre, le avvalorava ulteriormente). Le parole altro non erano che suoni articolati dalla voce umana; «Il suono che l'orecchio registra è evanescente, è flusso irreversibile, tempo. [...]

se lo si interrompe non rimane altro che il silenzio»4. In un orizzonte di oralità primaria, il senso più importante era l'udito: era intrattenersi ad ascoltare le gesta degli eroi cantate dal poeta, era assistere alla celebrazione di un rito in cui il sacerdote ripeteva formule cristallizzate dall'uso e dalla tradizione (per Paul Zumthor, il primo embrione della poesia orale nasce proprio dalle formule rituali), era l'apprendista che per imparare un'arte o un mestiere seguiva diligentemente le istruzioni e gli ammonimenti del suo maestro. «Gli appartenenti alle culture orali primarie, cioè totalmente ignare della scrittura [...] imparano non attraverso lo studio in senso stretto», dal momento che non è possibile studiare in modo analitico senza saper leggere né scrivere, «ma mediante una sorta di apprendistato», o «come discepoli, ascoltando, ripetendo ciò che sentono, padroneggiando i proverbi e le loro combinazioni»5.

La sfida di pensare la poesia prima dell'introduzione della scrittura si può vincere analizzando

1 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 241.

2 Ivi, pag. 30.

3 Ivi, pag. 31.

4 Ivi, pag. 8.

5 Ivi, pag. 27.

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le caratteristiche formali dei testi che, pur essendoci stati trasmessi in forma scritta, hanno alle spalle una lunga gestazione orale. Milman Parry (1902-1935), con i suoi studi sullo stile formulare dei poemi omerici, fu tra i primi a comprendere che il testo contiene indizi dai quali si può capire se è stato in qualche modo mutuato dalla tradizione orale e «congetturare, a torto o a ragione, la primitiva oralità di un genere poetico»6, oltre che del testo in questione. Parry, cui oggi viene riconosciuto soprattutto il merito di aver postulato la natura orale della tradizione all'origine dei testi omerici, elaborò la sua teoria a partire da una serie di osservazioni precedenti condotte fin dal Settecento «sulla facies formulare della lingua omerica, sulla stratificazione compositiva che sta dietro all'Iliade e all'Odissea, sull'assenza di scrittura all'origine di questo processo, sulla non storicità della figura di Omero»7; ma anche grazie allo studio sul campo di una tradizione orale vivente. Recatosi in Jugoslavia insieme al suo assistente Alfred Lord negli anni in cui era professore ad Harvard, Parry studiò e registrò su nastro magnetico le esibizioni dei cantastorie locali (guslar). Essi recitavano antichi poemi tradizionali dando prova – oltre che di una formidabile memoria – di una altrettanto vivace creatività, resa possibile da una particolare tecnica compositiva che univa all'improvvisazione l'utilizzo di formule codificate ed affinate dalla tradizione. Le formule usate dai guslar non erano diverse, nella sostanza, da quelle che secondo Parry avevano edificato lo scheletro dei poemi omerici: elementi compositivi standardizzati che aiutavano il poeta a ricreare il testo esecuzione dopo esecuzione, facendo ricorrere sistematicamente gruppi di parole a struttura metrica fissa, esprimenti una certa idea o un'immagine particolare, come per la realizzazione di un patchwork.

Evidentemente l'uso delle formule inficiava l'originalità del testo, ma all'epoca l'originalità non era considerata un valore; lo era invece l'aderenza alla tradizione, al dato dell'esperienza, al rispetto dell'orizzonte di attesa del pubblico. A determinare il successo o l'insuccesso di una performance erano piuttosto l'originalità del cantore, che si esprimeva «nell'esecuzione, in un contatto sempre diverso con il suo pubblico»8 e la sua capacità di mantenere viva l'attenzione e di dare vita alle parole con abili modulazioni della voce. «L'atteggiamento dell'uditorio», che spesso conosceva in anticipo gli avvenimenti salienti della trama, non era dunque «di curiosità per l'esito dei fatti, ma di godimento per la qualità della narrazione»9. Il cantore aveva la responsabilità (e la libertà) di marcare il racconto in maniera personale, affinché

6 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 69.

7 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Carocci, Roma, 2006, pag. 23.

8 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Ed. Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 14.

9 F. Codino, Introduzione a Omero, Einaudi, Milano, 1965, pag. 192.

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all'unicità della sua performance si andasse ad aggiungere l'unicità della situazione in cui essa era inserita. Capitava così che spesso i narratori introducessero «nuovi elementi nelle storie antiche: nella tradizione orale vi saranno tante varianti minori di un mito quante sono le volte che esso è stato ripetuto, e il numero delle ripetizioni può crescere all'infinito»10. Spesso a diversificare una versione del mito dalla precedente era semplicemente l'ordine in cui materiali, temi e formule erano rapsodizzati, ovvero cuciti insieme (dal greco rhaptein, cucire insieme e ōide, canzone, poesia): talvolta era uno stesso autore a comporre versioni diverse della stessa storia, adattando l'intreccio e il tono della composizione all'occasione e al tipo di pubblico che aveva di fronte. Non deve dunque stupire che i due poemi omerici siano infarciti di formule e di temi standardizzati come «il consiglio, l'adunata dell'esercito, la sfida delle armi, la spoliazione dei vinti, lo scudo dell'eroe»11, né che la lingua in cui sono stati scritti (o, per meglio dire, trascritti) fosse una lingua artificiale, «creata progressivamente da generazioni di cantori per rispondere alle esigenze di un metro rigidamente strutturato, l'esametro dattilico»12, il verso della poesia epica per eccellenza. Così, ad esempio, se Ulisse nell'Odissea viene sempre definito “astuto”, non è soltanto perché egli è effettivamente un grande stratega e supera in furbizia i suoi avversari, «ma anche perché senza quell'epiteto il suo nome non potrebbe essere inserito per bene nel metro».13 Una ripetizione che giova quindi all'economia del verso oltre che alla memoria del lettore, e una lingua che è artificiale nel senso che l'utilizzo di un dato termine dipende, più che dal suo significato specifico, dalle esigenze metriche del brano in cui esso compare. L'intuizione di Parry può non sembrare particolarmente originale, ma prima che essa venisse formulata e dimostrata era normale ritenere che «i termini metrici appropriati si presentassero all'immaginazione poetica in modo immediato e del tutto imprevedibile, e dipendessero dal solo “genio”»14 dell'autore. In realtà il poeta orale esperto «possedeva un abbondante repertorio di termini sufficientemente diversificati, da permettergli di averne uno a disposizione per qualunque esigenza metrica si presentasse man mano che egli cuciva la sua storia»15. L'originalità come la intendiamo oggi – la particolare impronta stilistica di un autore, la sua capacità di coglierci di sorpresa – è un valore che ha cominciato ad affermarsi quando non vi era più chi non componesse le proprie opere per iscritto, e dunque non era più necessario attenersi a schemi narrativi

10 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 71.

11 Ivi, pag. 46.

12 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Carocci, Roma, 2006, pag. 23.

13 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 90.

14 Ivi, pag. 45.

15 Ivi, pag. 44.

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preconfezionati, a personaggi monotoni, a temi fissi: l'autore poteva spingersi sempre più al largo della propria immaginazione senza preoccuparsi della memorabilità del testo, dal momento che il lettore avrebbe potuto sfogliare anche a ritroso le pagine del libro.

Vale la pena soffermarci su questo snodo fondamentale della civiltà greca in cui oralità e scrittura sono venute per la prima volta a sovrapporsi, guardandosi inizialmente con diffidenza e mantenendo le distanze, ma arrivando infine ad essere complementari, in un indistricabile rapporto di osmosi. I due termini oralità e scrittura, che sul piano temporale si configurano come gli estremi di una serie continua, in realtà si oppongono nettamente solo per alcuni dei tratti che li caratterizzano; è il caso, ad esempio, del ricorso alla vista nel caso della scrittura, all'udito in quello della poesia orale. In effetti, come afferma Zumthor, «tra la maggior parte dei tratti non esiste che una differenza di grado, una differenza che consiste, in maniera molto variabile, in un più o in un meno»16; va inoltre ricordato «che in ogni epoca gli uomini dell'oralità e gli uomini della scrittura coesistono e collaborano tra di loro»17, rendendo di fatto impossibile tracciare una linea di demarcazione netta tra i due modi della conoscenza, tra le due forme di comunicazione. In questa fase, detta aurale (a rimarcare il contatto vocale- auditivo tra autore e destinatario) o di oralità mista, oralità e scrittura attraversano una condizione transitoria di equilibrio: la seconda influenza la prima solo per quanto concerne la composizione, trasmissione o conservazione nel tempo del messaggio, mentre la pubblicazione del messaggio resta affidata alla performance, ovvero al contatto diretto tra l'esecutore e il pubblico. «Ed è in questa reciproca e progressiva influenza tra esecuzioni orali e redazioni scritte [...] che si concretizzò quella "mistione irreversibile di oralità e scrittura"

[...] in ragione della quale [...] i poemi omerici si debbono considerare testimonianza e non documento di oralità integrale». 18 La stessa civiltà letteraria greca prende le mosse da questi poemi che si situano proprio sulla linea di confine «tra un sistema della comunicazione in cui il messaggio viene elaborato, pubblicato e trasmesso per via integralmente orale e un altro sistema nel quale, invece, la scrittura interviene sui processi di composizione e trasmissione»19, ed «è solo a partire dalla fine del V secolo a.C. che anche la fruizione del testo da parte del pubblico comincia a essere affidata alla scrittura, per dare luogo, tra il IV secolo a.C. e la successiva età ellenistica, a una vera e propria civiltà del libro».20

16 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 35-36.

17 Ibidem.

18 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Carocci, Roma, 2006, pag. 43.

19 Ivi, pag. 29.

20 Ivi, pag. 30.

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Bisogna però aspettare alcuni secoli prima che la diffidenza nei confronti della scrittura e del libro venga definitivamente superata. Lo stesso Platone (427? – 347 a.C.) nutriva delle riserve nei confronti della scrittura e delle lettere, che a suo dire «cagionano smemoramento nelle anime di coloro che le hanno apprese»21 e non entrano in uno scambio dialettico con il discente, che se prova a interrogarle non ottiene risposta. Ma esprimeva tali critiche per iscritto, segno che alla sua epoca i Greci – secoli dopo l'invenzione dell'alfabeto, avvenuta intorno al 720-700 a.C. – avevano ormai pienamente interiorizzato la scrittura, determinando un mutamento irreversibile a livello dell'organizzazione mentale e del discorso che ha favorito lo sviluppo del pensiero analitico e, conseguentemente, la nascita della filosofia. Un cambiamento di questa portata si può paragonare a quello avvenuto in seguito all'invenzione della stampa e, in tempi ben più recenti, all'introduzione dell'elettronica e dei new media: le esperienze di scrittura e lettura sono state digitalizzate al punto da rendere quasi obsoleto il libro, oggetto che per secoli aveva goduto di enorme prestigio ed era diventato luogo della pubblicazione per eccellenza. Ma anche prima del quindicesimo secolo, i testi che ancora venivano composti e trasmessi solo per via orale/aurale venivano marginalizzati, poiché si riteneva che fossero frutto di una cultura secondaria rispetto a quella “ufficiale” e colta che si faceva e si fruiva per mezzo della scrittura:

Fu nell'età ellenistica [...] che per la prima volta si determinò la scissione tra una cultura egemonica ed elitaria dei ceti politicamente e intellettualmente dominanti, connotata ormai da un indissolubile rapporto con la scrittura e con il libro, e la cultura popolare, della gente comune, erede di un'antica tradizione di oralità [...]. Eppure le "due culture" [...] di età ellenistica non furono impermeabili l'una all'altra, anzi: proprio nel momento in cui le forme popolari di espressione poetica, ancora legate a una dimensione orale della comunicazione, venivano ad acquisire una loro subordinata autonomia rispetto alla Letteratura – inaugurandosi così nella storia occidentale la prima fase di una ricorrente identificazione tra orale e folklorico – quest'ultima, cioè la letteratura, cominciò a guardare a esse, le forme espressive popolari, come si guarda a una realtà insieme aliena e attraente, da cui viene linfa vitale e stimolo al rinnovamento.22

Fintanto che le due culture avevano convissuto senza che l'una prevaricasse nettamente sull'altra, questo “scarto” tra cultura egemonica ed elitaria e cultura popolare si era manifestato nelle forme espressive che confluivano nei due opposti schieramenti. Eppure

21 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 7.

22 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Carocci, Roma, 2006, pag. 70.

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esisteva ancora, come nota Livio Sbardella, una permeabilità tra regno dell'oralità e regno della scrittura; non c'era la percezione che qualcosa, con le lettere, si fosse irrimediabilmente perduto. Spesso «quello che nasceva dalla dimensione orale, ma aspirava a elevarsi, tendeva in modo spontaneo verso la scrittura, e quello che era già scrittura, ma aveva bisogno di lasciarsi fruire anche al di fuori del ristretto mondo dei clerici e dei litterati [le categorie che per molto tempo detennero il monopolio dell'istruzione] tendeva in modo altrettanto spontaneo verso la diffusione per mezzo della voce.»23

Nell'arco di oltre due millenni si sono alternati periodi di marginalizzazione dell'oralità (per esempio l'età ellenistica, dopo che l'oralità aveva dominato le comunicazioni in età arcaica e classica, e l'Umanesimo, il secolo che ha sacralizzato il testo come monumento) ad altri in cui si è ripristinata la centralità del discorso orale, come ad esempio durante l'alto Medioevo, quando sia in area germanica che nei paesi di lingua romanza fiorivano miti, leggende, canti e storie che venivano composte e tramandate oralmente. Come si può facilmente intuire, l'equilibrio è venuto meno nel momento in cui l'invenzione di Johannes Gutenberg, introdotta in Germania nel 1455, ha radicato ulteriormente la parola nello spazio immutabile della pagina; oltre a dare un impulso decisivo all'alfabetizzazione diffusa, la stampa abbatteva i tempi e i prezzi della riproduzione, provocando un aumento esponenziale del numero dei libri in circolazione. La loro diffusione capillare incoraggiò, col tempo, quella lettura solipsistica e silenziosa che non ha più alcuna somiglianza con l'esperienza collettiva dell'ascolto, laddove invece «Nelle culture manoscritte e in quelle degli esordi della stampa, la lettura tendeva ad essere un'attività sociale, con spesso una persona che leggeva a un gruppo.»24 All'inizio della storia letteraria, gli autori più scaltri utilizzavano degli escamotage per aiutare il lettore a darsi una collocazione fittizia all'interno della narrazione:

il materiale filosofico, per esempio, veniva presentato attraverso dialoghi [...]. Più tardi, nel Medioevo, i testi filosofici e quelli teologici furono presentati sotto forma di obiezioni e risposte.

Ancora, Boccaccio e Chaucer mostrarono al lettore gruppi di uomini e donne che raccontavano storie a turno [...] in modo che il lettore potesse immaginare di far parte della compagnia di chi ascoltava.25

In seguito divenne pressoché impossibile per il lettore fingersi parte di una cornice di

23 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Carocci, Roma, 2006, pagg. 80-81.

24 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 184.

25 Ivi, pag. 147.

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ascoltatori, perchè il romanzo non richiedeva che lo si leggesse ad alta voce o che fosse più di una persona per volta a sfogliarne le pagine, né erano frequenti le reali occasioni di incontro per intrattenersi ad ascoltare poeti che concedessero live performance delle loro opere.

La dimensione performativa della parola poetica sarebbe stata ampiamente riscoperta solo nel Novecento, con potenzialità prima inimmaginabili rese possibili dalla nascita di nuovi mezzi di comunicazione e dal formarsi di un pubblico di massa. I canali che hanno reso possibile ed incoraggiato questo ritorno all'oralità – un'oralità che non è più primaria ma secondaria, come puntualizza giustamente Walter Ong – sono il telefono, la radio, la televisione, i registratori e tutti quei mezzi elettronici introdotti a partire dalla fine del XIX secolo che restituiscono alla voce e alla presenza un ruolo centrale nel panorama della comunicazione. «Questa nuova oralità ha sorprendenti somiglianze con quella più antica per la sua mistica partecipatoria, per il senso della comunità, per la concentrazione sul momento presente e persino per l'utilizzazione delle formule»26, ma ha pure numerose e irriducibili differenze. Innanzitutto, tale oralità secondaria o di ritorno non può prescindere dall'uso consolidato della scrittura e della stampa su cui poggia le basi; inoltre l'oralità del XX secolo genera un «senso di appartenenza a gruppi incommensurabilmente più ampi di quelli delle culture ad oralità primaria»27, soggetti al vincolo della prossimità. Usata talvolta in funzione civile e propagandistica (si pensi, per l'Italia, a Carducci e D'Annunzio), centrale nelle sperimentazioni di certe avanguardie che hanno indagato le potenzialità sonore della parola, questa nuova oralità è più strumentale che sostanziale, ancorata com'è alla necessità ora di ottenere un effetto straniante, provocatorio, o finanche meramente estetico, ora di diffondere il messaggio il più rapidamente possibile e ad un pubblico più ampio possibile. Un pubblico che di recente è aumentato esponenzialmente in termini numerici, ma che il più delle volte – trovandosi dall'altra parte di uno schermo o ad ascoltare passivamente il messaggio trasmesso da un altoparlante – risulta ininfluente, irrilevante ai fini di una performance che ha luogo con o senza di lui. Quello di cui noi stessi facciamo parte è un pubblico «assente, invisibile, muto»28, privato della possibilità di instaurare qualsiasi dialogo, ed è così che l'apparente proliferare dell'oralità si traduce spesso in una sua drastica riduzione. I media hanno

«restituito la sua onnipresenza alla voce»29 ma l'hanno al contempo spersonalizzata, isolata.

La presenza, che come abbiamo detto rappresenta il principio trainante delle società ad oralità

26 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 191.

27 Ivi, pag. 192.

28 Ivi, pag. 193.

29 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 295.

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primaria, (non a caso il testo chiave di Zumthor sull'argomento si intitola La presenza della voce) spesso non è che una presenza fittizia, se pensiamo ad esempio allo speaker radiofonico o al presentatore televisivo che si rivolgono a un pubblico assente dalla scena. È in questo panorama di riferimento che dobbiamo collocare, per meglio comprenderla, l'esperienza del più autentico e spontaneo ritorno all'oralità della Beat Generation; nata sullo sfondo dell'America del secondo dopoguerra, non guarda semplicemente al passato ma include la sfida aperta di ripristinarlo.

1.2 La voce restituita al corpo

L'intento dichiarato dei Beat è quello di riportare la poesia tra la gente, per strada, di liberare le parole dalla pagina e il poeta dal santuario dove è stato troppo a lungo rinchiuso a contemplare se stesso e la propria arte:

The poetry which has been making itself heard here of late is what should be called street poetry. For it amounts to getting the poet out of the inner esthetic sanctum where he has too long been contemplating his complicated navel. It amounts to getting poetry back into the street where it once was, out of the classroom, out of the speech department, and – in fact – off the printed page. The printed word has made poetry so silent.30

Un'impresa certo non facile da realizzare per un gruppo che contava all'epoca pochi, giovanissimi poeti; eppure, con la loro pratica assidua di tenere reading nei locali, nelle aule universitarie, persino durante le manifestazioni per i diritti civili, restituirono alla voce il corpo che i mass media le avevano negato, nella convinzione che la migliore poesia la si fa leggendola insieme, facendone collettivamente esperienza. Ed agli scrittori della Beat Generation, tra cui ricordiamo in particolar modo Allen Ginsberg (1926-1997), Lawrence Ferlinghetti – il poeta editore da poco centenario – Jack Kerouac (1922-1969), Gregory Corso (1930-2001) e William S. Burroughs (1914-1997), l'esperienza certo non mancava: c'è chi, per aver pubblicato e distribuito una poesia, ha dovuto difendersi in tribunale da un'accusa di oscenità; c'è chi ha attraversato gli Stati Uniti “per la stessa ragione del viaggio” prendendo

30 T. Hoffman, American poetry in performance: from Walt Whitman to hip hop, University of Michigan Press, 2011, pag. 124.

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appunti per un romanzo che è diventato il testo chiave di un'intera generazione; c'è chi ha sperimentato sulla propria pelle le droghe più disparate, passando da una dipendenza all'altra con la serialità di un uomo di scienza e riportandone minuziosamente gli effetti in un libro; c'è persino chi si è fatto internare in manicomio, certo di aver iniziato a manifestare i segni di una follia ereditaria latente. Parlo, naturalmente, di Allen Ginsberg, che nel 1949 si consegnò al Columbia Presbyterian Psychiatric Institute di New York in seguito a un'esperienza allucinatoria che lo segnò profondamente ed ebbe ripercussioni anche sulla sua attività di poeta. Mentre era seduto sul letto della sua camera a East Harlem, con il libro Songs of Innocence and of Experience di William Blake aperto alla pagina di Ah, Sun-flower sul ventre, una voce nella stanza prese a recitare la poesia, e Ginsberg in quella voce riconobbe lo stesso Blake, autore dell'opera. Più avanti approfondiremo le qualità che Allen attribuì a quella voce;

per il momento ci interessa sottolineare la singolarità di questa allucinazione uditiva – come l'ha definita lo stesso Ginsberg, che «credeva all'autenticità di quell'esperienza come il momento in cui la sua anima spirituale e quella poetica si erano fuse nell'uomo e nel poeta che sarebbe diventato»31 – in cui un poeta recita ad un altro poeta i propri versi. Colpiscono le parole con cui Ginsberg ha descritto, in seguito, il suo “incontro” con uno dei più famosi e visionari poeti inglesi: «the apparitional voice, in the room, woke me further deep in my understanding of the poem, because the voice was so completely tender and beautiful...

ancient... and simultaneos to that voice there was also an emotion, risen in my soul in response to the voice».32 La portata di quest'avvenimento fu tale da far maturare in Ginsberg una più profonda conoscenza di sé e, soprattutto, del suo ruolo di poeta, della sua missione di condurre le persone alla «Verità»33 così come lui vi era stato condotto dalla voce di Blake;

appena ventiduenne, comprese che la voce è la più affidabile delle guide, e che l'unico modo per vivere autenticamente è ascoltarla: «Anyway, my first thought was this was what I was born for, and second thought, never forget – never forget, never renege, never deny. Never deny the voice – no, never forget it, don't get lost mentally wandering in other spirit worlds or war worlds or earth worlds.»34 Non negare mai la voce, anzi schierarla in prima linea quando

31 J. Campbell, Questa è la beat generation. New York – San Francisco – Parigi, Guanda, Parma, 2001, pag.

100.

32 Il brano citato è tratto da un'intervista con Thomas Clark registrata nel giugno del 1965 e pubblicata nella Paris Review nella primavera del 1966. Io cito da A. Arbor, On the Poetry of Allen Ginsberg, University of Michigan Press, 1984, pag. 122.

33 J. Campbell, Questa è la beat generation. New York – San Francisco – Parigi, Guanda, Parma, 2001, pag.

100.

34 Come sopra, cito da A. Arbor, On the Poetry of Allen Ginsberg, University of Michigan Press, 1984, pag.

123.

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c'è da rivendicare un'appartenenza o da marcare una distanza, quando si marcia in strada per la pace o per il riconoscimento dei diritti civili, com'era all'ordine del giorno in quegli anni negli Stati Uniti: «Gli uomini non hanno mai cessato di investire, nell'opera della voce, il loro odio per la guerra, la loro volontà di sottrarsi al suo Ordine, in nome di un semplice desiderio di pace o in un movimento di più globale rifiuto.»35 La voce che Ginsberg ha sentito, e a cui ha saputo attribuire con precisione un tono, un'intensità, un timbro, non solo l'ha emozionato più di quanto l'avrebbe emozionato la lettura silenziosa della poesia, ma gli ha addirittura permesso di comprendere meglio i versi di Blake, di intercettare chiaramente le intenzioni dell'autore. Pur non potendo non mettere in discussione le sue dichiarazioni, quando ci descrive minuziosamente la sua esperienza allucinatoria, onirica o comunque vogliamo definirla (non dimentichiamo che lo stesso Ginsberg in seguito a questi fatti ebbe a dubitare della propria sanità mentale), vale in questo caso la pena cedere ad una piccola suspension of disbelief; perché anche da qui prende le mosse la Beat Generation, anche l'eco della voce di William Blake risuona nelle future parole di Allen Ginsberg e degli altri scrittori della cosiddetta controcultura.

L'esordio poetico di Allen Ginsberg fu, per così dire, un esordio orale. Il suo nome iniziò a circolare dentro e fuori l'ambiente letterario dopo il 1955, quando per la prima volta lesse pubblicamente, con una performance memorabile, il suo Howl dedicato all'amico Carl Solomon, altro storico paziente del Columbia Presbyterian Psychiatric Institute di New York.

Il titolo di quest'opera offre un duplice indizio: sul piano contenutistico, pensiamo ad un testo scritto in prima persona (“I saw” è appunto la formula di apertura della poesia), in cui l'autore, in un crescendo di pathos, dà sfogo ai propri sentimenti (la denuncia contro il materialismo della società americana e la sua disumanizzazione, ma anche «la simpatia e l'identificazione con l'individuo rifiutato, mistico, persino “pazzo”»36); sul piano stilistico, pensiamo ad una poesia scritta per essere letta ad alta voce, con un linguaggio colloquiale, un ritmo incalzante ed espedienti tipici del discorso orale (l'utilizzo frequente di ripetizioni, uno stile additivo, caratterizzato dalla giustapposizione delle parti del discorso, una certa ridondanza espressiva).

L'urlo di Ginsberg, un po' come «Il grido della nascita, il grido dei bambini che giocano, il grido che riesce a strappare una perdita irreparabile o una gioia indicibile»37, è qualcosa che ha a che fare più con gli “istinti del cuore”38 che con la ragione, con le potenzialità ritmiche e

35 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 338.

36 A. Ginsberg, Urlo. Poesie, dalla Premessa di L. Fontana, Il Saggiatore, Milano, 2010, pag. 19.

37 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 10.

38 A. Ginsberg, Urlo. Poesie, dalla Premessa di L. Fontana, Il Saggiatore, Milano, 2010, pag. 19.

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sonore della voce piuttosto che con la sperimentazione linguistica fine a sé stessa. La meticolosa ricerca delle parole in Ginsberg, più volte definito dalla critica un wordsmith ovvero un “fabbro di parole”, non si basa tanto «sull'importanza delle parole in sé»39, come suggerisce la vivace penna critica di Fernanda Pivano. «Le parole non gli interessano come suono o come concetto o come immagine, ma per la possibilità in esse implicita di risuscitare gesti, situazioni, stati d'animo primordiali slegati dalle sovrastrutture della società [...].»40 In Howl, inoltre, la ricerca delle parole è funzionale alla struttura dei versi lunghi che compongono la poesia e le imprimono un andamento ritmico cadenzato simile ad un assolo di jazz. Uno dei tratti distintivi della poetica di Ginsberg (ma anche, ad esempio, della prosa di Kerouac) è appunto il verso lungo di derivazione whitmaniana. Walt Whitman è stato il primo ad utilizzare il cosiddetto long line nel celebre poema d'apertura di Leaves of Grass, Song of Myself, mutuando a sua volta questa forma (all'epoca ancora inusuale per la poesia americana) dalla tradizione biblica. «Qui Whitman aveva cominciato a sperimentare una nuova idea di verso non più delimitato da quantità sillabiche fisse e quadratura d'accenti, ma misurato sulla durata del respiro fisico, sulla tenuta della voce nella declamazione parlata, non più sulla lettura mentale»41, un'idea rivoluzionaria ed efficace che venne ripresa, quasi un secolo dopo, dalla Beat Generation. Per capire l'origine del verso libero di Ginsberg e della sua particolare disposizione delle parole sulla pagina, «prima riga allineata a sinistra e continuazione del verso rientrata»42, si deve quindi risalire, tra gli altri, a Walt Whitman e alle end-stopped-lines della King-James Bible, versi così chiamati perché terminano sovente con un segno di punteggiatura che marca insieme la fine del verso e la chiusura dell'unità sintattica (laddove tradizionalmente tra un verso e quello successivo esisteva una relazione di enjambement).

Come Whitman aveva deciso di utilizzare l'aria che entrava e usciva dai suoi polmoni come infallibile unità di misura del verso, così gli autori della Beat Generation – complice il jazz, che al tempo di Whitman esisteva solo nella sua forma embrionale di canto che accompagnava il lavoro degli schiavi nelle piantagioni – stabilirono che il modo migliore per poter parlare al cuore della gente era quello di farlo assecondando il ritmo del proprio respiro.

Il bebop era stato tenuto a battesimo da Dizzy Gillespie e da Charlie Parker intorno al 1945, nello stesso periodo in cui Ginsberg, giovane cadetto della Columbia University, conobbe

39 F. Pivano, Prefazione a Sulla Strada di J. Kerouac, Mondadori, Milano, 1959, in Pagine Americane.

Narrativa e poesia 1943-2005, Edizioni Frassinelli, 2005, pag. 265.

40 Ibid.

41 A. Ginsberg, Urlo. Poesie, dalla Premessa di L. Fontana, Il Saggiatore, Milano, 2010, pag. 16.

42 Ibid.

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quelli che nel giro di pochi anni sarebbero diventati il nocciolo duro della cosiddetta Beat Generation: Lucien Carr, Jack Kerouac, John Clellon Holmes, William S. Burroughs. Questo particolare tipo di jazz fu per loro soprattutto una fonte di ispirazione: così la prosa spontanea di Kerouac imita nella scrittura quello che l'improvvisazione bop è per il jazz, così i versi lunghi, cantilenanti e ritmati di Ginsberg, se letti ad alta voce, suonano come un assolo di Charlie Parker. E, a loro volta, i musicisti traevano il ritmo ed il fraseggio musicale dal conversare quotidiano:

Il sassofono echeggiava il respiro del parlato ed era come se stesse parlando attraverso gli accenti di una conversazione o di una concitata parlata rapsodica. C'era un elemento della vera voce per come veniva pronunciata, introdotto nella musica attraverso il sassofono o la tromba, che echeggiava le peculiarità ritmiche della parlata nera.43

Queste giovani leve d'America, che nel secondo dopoguerra avevano urgenza di parlare di sé e del proprio tempo non per denunciarlo – «gli scrittori di questo dopoguerra [sono] nati in un mondo ormai denunciato»44 – ma per ricostruirlo, trovarono nel jazz la vitalità e la spontaneità di cui avevano bisogno per allentare la presa dei vincoli che la ragione impone alla scrittura.

Non c'è dubbio che se Kerouac avesse fondato una nuova religione, in apertura del suo decalogo avrebbe inciso sulla pietra il comandamento “primo pensiero miglior pensiero”.

Dello stesso avviso era Michael McClure, che nel settembre del 1959 annotava sul suo diario:

«Quando scrivo, non faccio correzioni, o ne faccio pochissime. Il primo scopo è per me la liberazione», e proseguiva con una riflessione sulla misura del verso, che non deve essere dettata da ragioni esteriori (la norma, l'estetica), ma da motivazioni legate all'interiorità del poeta. Ad una poesia non si deve cucire l'abito su misura: il testo deve apparire sulla pagina nella nudità originaria con cui è stato concepito dall'autore.

Non è solo al jazz (di cui torneremo a parlare più approfonditamente in seguito) che gli scrittori della Beat Generation ricorrono per liberarsi dai condizionamenti e dalle sovrastrutture che alterano e confondono l'autenticità della voce. I mezzi di cui si servono

«sono sempre mezzi che valgono a svincolare la personalità: la droga che sgancia il cervello dalle leggi morali o intellettuali, [...] la velocità folle o la totale inazione, l'anarchia o la vita

43 A. Ginsberg, Le migliori menti della mia generazione. Lezioni sulla Beat Generation, Il Saggiatore, Milano, 2019, pagg. 64-65.

44 Prefazione a J. Kerouac, Sulla Strada, Mondadori, Milano 1959, in F. Pivano, Pagine Americane. Narrativa e poesia 1943-2005, Edizioni Frassinelli, 2005, pag. 261.

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monastica.»45 Scrivere sotto l'effetto di droghe e allucinogeni, azzerando i freni inibitori e l'attenzione nella scelta delle parole, avvicina la scrittura a una sorta di dettatura dell'inconscio. Se, come afferma Ong46, il discorso orale improvvisato è meno soggetto al controllo della mente – si dovrebbe pensare prima di parlare, ma tra il pensiero e la parola spesso corre un tempo infinitamente breve – un testo buttato giù di getto, dopo aver assunto sostanze psicotrope che alterano la capacità di giudizio, dovrà per forza assomigliare al parlato, a un testo in cui il tempo della riflessione è azzerato. Tante poesie di Allen Ginsberg sono nate sotto la spinta propulsiva del pejote o nell'ebrezza sfrenata dell'alcol, come riportano numerosi scritti autobiografici; dovette provarle tutte o quasi prima di raggiungere le conclusione che «le droghe, il peyote e gli allucinogeni erano interessanti ed erano un valido aiuto, ma non costituivano la realtà suprema. Forse potevano esserne catalizzatori [...]

ma non fino a raggiungere un esito soddisfacente nella ricerca.»47 Nel drogato, nell'individuo abbattuto e rifiutato dalla società, che vive di escamotages, che guarda dalle macerie il mondo che si è lasciato alle spalle, c'è qualcosa che i Beat rivendicano con forza, c'è l'autenticità che cercano di trasmettere con le loro opere e che rappresenta appunto l'oggetto della loro ricerca.

Una ricerca che non può prescindere da una riflessione sull'essenza stessa della poesia, sulle sue origini – come abbiamo visto, orali – e sulla necessità di liberarsi di quanto ci sia nel linguaggio di convenzionale, forzato, prestabilito. Se gli antichi dovevano ricorrere al metro per esigenze di memorizzazione, nella poesia beat a soccombere per prima è proprio la metrica tradizionale: come si può pensare di scrivere qualcosa di autentico e personale, costringendo le parole a rimare tra loro quando lo richiede la norma e contando minuziosamente le sillabe e gli accenti del verso, come vorrebbero i puristi? Un primo passo in questo senso, nella poesia americana, era stato fatto da Williams Carlos Williams (1883- 1963), poeta molto apprezzato da Ginsberg, che gli aveva peraltro affidato l'Introduzione di Howl. Williams aveva elaborato il concetto di misura variabile del parlato in poesia, secondo cui, in estrema sintesi, le pause del verso dovevano corrispondere alle pause naturali della lingua parlata. E questa ricerca di una consonanza tra il ritmo della lingua e quello della poesia echeggia le sperimentazioni che avvenivano in contemporanea nel campo musicale:

A quel tempo la batteria e il basso, gli strumenti che davano il ritmo, erano diventati strumenti da

45 Prefazione a J. Kerouac, Sulla Strada, Mondadori, Milano 1959, in F. Pivano, Pagine Americane. Narrativa e poesia 1943-2005, Edizioni Frassinelli, 2005, pag. 262.

46 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Ed. Il Mulino, Bologna, 1986, pag. 123.

47 A. Ginsberg, Le migliori menti della mia generazione. Lezioni sulla Beat Generation, Il Saggiatore, Milano, 2019, pag. 59.

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solisti, così che invece di una base ritmica metronomica, stereotipata e automatica come il pentametro giambico o perfino la conta simmetrica degli accenti, ci fosse invece una nuova accentazione variabile, una nuova misura variabile, un nuovo beat variabile. Una nuova sezione ritmica variabile piuttosto che la sezione ritmica tradizionale del dixieland vecchio stile o del jazz.

[...] I musicisti imitavano l'umore del modo di parlare autentico, lo trasferivano direttamente nella musica e traevano ispirazione dal parlato per il fraseggio musicale e il ritmo. Ravvivarono tutto il jazz mainstream americano con il vero ritmo del linguaggio parlato così come la poesia mainstream americana, attraverso Williams Carlos Williams, veniva rigenerata, a livello ritmico, dall'ascolto e dall'imitazione del vero e proprio linguaggio parlato. Accadeva tutto simultaneamente.48

L'importante era provare ad imitare «l'umore del modo di parlare autentico», che in quegli anni significava anche tenere conto del modo in cui la radio ed i giornali avevano influenzato la comunicazione interpersonale. «Il giambo non è la normale misura della parlata americana», disse Williams a Ginsberg nel 1953. «Il piede deve essere ampliato o contratto in rapporto al reale linguaggio parlato. La chiave della poesia moderna è la misura, che deve riflettere il flusso della vita moderna. Per l'uomo e il poeta è necessario restare al passo con il suo mondo.»49

L'eredità di Williams, accolta e attualizzata dagli autori della Beat Generation, si è tradotta in una poesia d'avanguardia la cui forza risiede essenzialmente nel ritmo e nel vocabolario.

La “poesia della strada”, come la voleva Ferlinghetti, è una poesia primitiva, orale: va a capo quando il poeta si ferma a riprende fiato, e le parole che usa sono solo quelle che sa, quelle che ascolta e ripete, quasi con rigore documentario, come chi, prima dell'avvento della scrittura, cantava a memoria storie imparate in precedenza:

The new American poetry [...] is a kind of new-old Zen Lunacy poetry, writing whatever comes into your head as it comes, poetry returned to its origin, in the bardic child, truly ORAL as Ferling said, instead of gray faced Academic quibbling. [...] These new pure poets confess forth for the sheer joy of confession. They are CHILDREN. They are also childlike graybeard Homers singing in the streets. They SING, they SWING.50

48 A. Ginsberg, Le migliori menti della mia generazione. Lezioni sulla Beat Generation, Il Saggiatore, Milano, 2019, pp. 65-66.

49 Ivi, pag. 378.

50 J. Kerouac, The Origins of Joy in Poetry. Chicago Review, vol. 12, no. 1, 1958, pp. 3–3. JSTOR, www.jstor.org/stable/25293417.

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Capitolo 2

I Beat e la musica: dalla prosodia bop di Jack Kerouac ai blues di Allen Ginsberg

«Je me suis trouvé un jour obsédé par un rythme...»

(Paul Valery)

«Quando la musica cambia le mura della città tremano»

(Platone)

2.1 Poesia delle origini: la lirica

In chiusura dell'ultimo capitolo, abbiamo accennato al ruolo giocato dal jazz, in particolare dal bebop, nella definizione dello stile di vita bohemien e non convenzionale degli autori della Beat Generation e del loro stesso modo di scrivere. Per capire come si traduceva all'atto pratico questo tentativo di assimilare nella scrittura i motivi e le tecniche del jazz, non ci limiteremo a considerare l'influenza del bebop sulla letteratura americana degli anni '50, ma approfondiremo il legame dei Beat con la musica del loro tempo con uno sguardo alle origini del rapporto tra musica e poesia.

Musica e poesia oggi sono due arti che viaggiano su binari paralleli che solo talvolta si sovrappongono; nell'antichità non esisteva una vera distinzione tra esecuzione parlata e canto, e si era soliti accompagnare la declamazione con uno strumento a corda (lýra, mάgadis, kítharis, bάrbitos, phórminx) o a fiato (άulo). La poesia «si identificava con un particolare modo di intonazione del racconto»1, ed era l'aspetto prosodico o musicale, ovvero quello che definisce la melodia e il ritmo, a determinare la scelta delle parole, e non viceversa. La poesia lirica, quella che Angelo de Gubernatis definiva la forma più alata della poesia2, deve il suo nome alla lira, lo strumento a corda con il quale spesso si accompagnavano gli aedi: «si deve nella lirica sentire sempre il suono della lira ed il tripudio della danza, ossia l'espressione deve essere musicale e sollevarsi con tanta leggerezza ed agilità da parer quasi aerea»3. Per gli antichi la lirica è la poesia cantata; poteva essere monodica o corale a seconda che il canto fosse per voce solista o per un coro di voci intonate all'unisono, e spesso era accompagnata da uno strumento che seguiva fedelmente la linea melodica del canto. L'elegia e il giambo,

1 A. Cabianca, Poesia e musica dall'antichità ai giorni nostri, scaricabile dal link www.senecio.it.

2 A. De Gubernatis, Storia della poesia lirica, Editore Ulrico Hoepli, Milano, 1883, Proemio.

3 Ibid.

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