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Il metodo Ørberg è ormai diffuso in numerose scuole italiane, sostenuto dalla «grande passione», che talora si trasforma in un «atteggiamento quasi ‘messianico’» (Balbo 2007, 73) dei docenti, che ne sottolineano alcuni “vantaggi” in termini di efficacia, rispetto al MGT, su cui è ancora impostata la maggioranza dei corsi di latino e greco in uso nelle scuole italiane:

- la lingua è fin da subito percepita come organismo vivo e non come sistema di regole rigide e astratte;

- lo studio della lingua offre la possibilità di conoscere meglio la civiltà romana;

- la lettura estensiva di alcuni autori, seppur in forma adattata, permette la conoscenza di testi che normalmente non si studiano durante il biennio;

- l’insegnamento della grammatica è “essenziale”, graduale e strettamente funzionale alla lettura e alla comprensione dei testi latini;

- l’atteggiamento dei discenti in classe è euristico, partecipativo e collaborativo;

- la comprensione non diventa soggetta alla traduzione, che è invece un’abilità tenuta distinta: il principio informatore è “comprendere” la lingua antica, attraverso di essa, senza la mediazione della lingua madre;

- l’apprendimento segue un processo induttivo: il lessico si apprende in situazione con l’ausilio di immagini “parlanti” e carte geografiche; l’apprendimento grammaticale parte dal contesto, che illustra funzioni e permette di ricavare regole dall’uso vivo, per poi generalizzarle e sistematizzarle; - gli esercizi sono vari e favoriscono un’assimilazione più profonda e automatizzata di fenomeni

morfologici e strutture sintattiche.

Secondo Zanetti (2008, 466), per gli studenti istruiti mediante il MIC in latino, «il profitto risulta mediamente più alto che con il MGT, per buona parte del I volume. Poi si attesta su valori simili, ma favorisce un’adesione meno scolastica alla lingua e un apprezzamento per i valori culturali e linguistici (non meramente grammaticali) della disciplina».

1.6. Obiezioni al MIC

Non mancano naturalmente critiche e riserve formulate rispetto all’adozione del MIC nell’insegnamento scolastico in Italia, fra cui le principali possono essere sintetizzate così come segue (Zanetti 2008, 466).

Una prima obiezione riguarda l’uso di testi “artificiali”, in particolare all’inizio e la asserita “inautenticità” della lingua rispetto a quella dei testi d’autore. Si può rispondere che il lessico è comunque selezionato su base frequenziale, i contesti sono verosimili e l’obiettivo è proprio di poter introdurre in modo precoce testi autentici. Mentre si constata che neppure nei manuali correnti vengono forniti testi “autentici” in quanto non esistono testi propedeutici graduati, ma frasi inventate o adattate, o comunque eterogenee per contenuto ed epoca, selezionate solo in funzione dei fatti grammaticali.

Una seconda obiezione si appunta sul tentativo di adoperare, in particolare, il latino come lingua comunicativa, bollata come operazione antistorica e contraria alle indicazioni ministeriali che prevedono solo abilità ricettive. Ma l’utilizzo attivo è solo un mezzo per assimilare le strutture, forme e lessico; le domande e le risposte in latino sono sempre collegate al testo della lezione e monitorano la capacità di comprensione, il riconoscimento delle marche morfologiche e la fissazione delle forme linguistiche.

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Una terza obiezione riguarda il disinteresse verso le microlingue e le lingue specialistiche, mentre le lezioni, impostate su settori della vita quotidiana, offrono una visione indifferenziata del latino a livello spazio-temporale.

Una quarta obiezione si riferisce al rapporto con il curriculum scolastico, che prevede il completamento della trattazione linguistica entro il biennio, tempo che non consente di svolgere, per esempio, 35 e 21 capitoli rispettivamente dei due volumi di Lingua latina, che d’altra parte non ammettono tagli o omissioni, data la calibrata gradualità della materia. Ma sarebbe possibile superare tale ostacolo con la verticalizzazione della cattedra terminando il corso al terzo anno.

Una quinta obiezione riguarda proprio la marginalizzazione, dell’attività traduttiva, in funzione sia di esercizio sia di verifica, in contrasto con le direttive ministeriali e con le convizioni di molti docenti che attribuiscono specificamente alla traduzione una funzione formativa sul piano cognitivo (formulazioni di ipotesi, ricerca di soluzioni efficaci e così via) e ai fini del potenziamento della competenza nella lingua di arrivo. Ma i sostenitori del MIC rilevano che gli studenti dimostrano diffuse carenze grammaticali e metalinguistiche nella lingua italiana che rallentano la fase di fissazione della regola e ciò è un ulteriore ostacolo allo sviluppo dell’abilità traduttiva che non è imputabile al metodo in sé e per sé.

Una sesta obiezione, al MIC è la difficoltà che crea ai fini della valutazione del profitto scolastico degli studenti, con il rischio che il docente non possa non verificare con adeguata attendibilità le competenze, quando i testi delle verifiche non si differenziano dai capitula e predominano comportamenti non rielaborativi, ma mnemonici, che non possa accertare in modo sufficiente la comprensione mediante dialoghi, esercizi e rielaborazione personale, che non possa valutare il grado di comprensione della polisemia di un termine o delle sfumature sinonimiche facendo affidamento solo sulla comprensione testuale intuitiva.

Un’ulteriore obiezione potrebbe riguardare il mancato aggiornamento scientifico della descrizione grammaticale, che rimane sostanzialmente quella della tradizione scolastica, senza confrontarsi con le acquisizioni della linguistica contemporanea168.

Per terminare questo sintetico quadro delle critiche maggiori al MIC e in particolare al corso di Ørberg, Balbo (2007, 73) osserva che «una delle difficoltà più grandi riguarda la continuità didattica e la congruità del metodo con i programmi ministeriali: l’insegnamento effettuato con questo sistema funziona bene soltanto se nel passaggio fra biennio e triennio non vi è uno stacco troppo forte fra le impostazioni dei docenti e se si chiede agli allievi di non seguire in maniera pedissequa quanto stabilito dai programmi, ma di ragionare soprattutto per competenze interpretative del testo e non per conoscenze grammaticali astratte».

Infine è stato osservato che il confronto fra il corso latino di Ørberg e il parallelo corso di greco, Athénaze, si risolve a vantaggio del secondo perché questo pone gli allievi in una attitudine di maggior rigore e attenzione analitica al testo, essendo il corso «costruito con una sequenza di difficoltà meglio graduata e con richieste subito più impegnative», tanto che, nelle classi che adottano entrambi questi corsi, «il livello di profitto è mediamente più alto che in latino» (Zanetti 2008, 468).

168 Questa obiezione finale non compare nella sintesi di Zanetti 2008, è stata formulata da Renato Oniga come comunicazione personale.

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Dal punto di vista della glottodidattica delle lingue moderne

2.1. Concetto e utilità di un “metodo”

I primi studiosi di linguistica applicata, come Henry Sweet (1845-1912), Otto Jespersen (1860-1943) e Harold Palmer (1877-1949), incominciarono a cercare di migliorare le modalità dell’insegnamento delle lingue moderne in base alla riflessione e alle teorie linguistiche che andavano elaborando: la riflessione sulle modalità con cui le lingue vengano apprese e con cui la conoscenza sia rappresentata e organizzata nella memoria andavano di pari passo con la ideazione di programmi di insegnamento, corsi e materiali pedagogici. C’è evidentemente un rapporto, di volta in volta da definire, tra proposte didattiche, che possono consistere in un set di procedure per l’insegnamento e sottesa teoria, se non filosofia della linguaggio.

Ripercorrendo la storia dell’insegnamento delle lingue, già scritta più volte (cfr. Kelly 19762) , ci si può rendere conto che «teorie oggi sventolate come l’ultimo frutto della invenzione didattica erano già state formulate o realizzate in tempi antichissimi, non solo secoli fa, ma parecchi anni fa» (Titone 1987, 5).

Nell’ambito dell’insegnamento delle lingue straniere moderne, ci sono sempre «nuovi scatti e partenze» (Widdowson 1992, 5), tanto che si è parlato di un’ «ossessione lunga un secolo» (con riferimento in particolare al periodo 1890-1980) della ricerca del metodo migliore (Stern 1985, 251).

In questa sede, ai fini della nostra ricerca, non importa seguire la completa storia dei metodi glottodidattici che, come è stato scritto, sarebbe come seguire «il vento che sposta le dune di sabbia» (Marckwardts 1972, 5), ma piuttosto illustrare brevemente il concetto stesso di metodo glottodidattico, cosa che è stato oggetto di riflessione da parte degli studiosi occupatisi dell’insegnamento delle lingue moderne, ma che non compare, invece, negli studio di didattica delle lingue classiche169.

Negli anni Settanta il concetto di metodo stesso come insieme di prassi standardizzate vene criticato e fu proprio il dibattito metodologico per le lingue moderne a spostarsi, in quel tempo, dall’insegnamento all’apprendimento, nella convinzione che, conoscendo in maniera più dettagliata i meccanismi con cui la mente umana apprende una L2, sarebbe stato possibile migliorare, di conseguenza, le strategie, le tecniche, l’approccio dell’insegnamento linguistico all’insegna dell’efficacia (Howatt 1984, 284).

Nasceva così, dalla Linguistica Applicata, un campo di studi che ora viene chiamato Second Language Acquisition (d’ora in poi SLA) (Long 1983; Lightbrown 1985; Schulz 1991).

Grazie allo sviluppo della ricerca SLA, gli insegnanti hanno sentito meno il bisogno di aderire a un metodo glottodidattico precostituito, avvalendosi non solo della propria esperienza sul campo, ma anche di pubblicazioni e di riviste specializzate sulla glottodidattica e di saggi di divulgazione scientifica (Nunan 1991, 228).

169 Negli ultimi anni, l’interesse per la didattica delle lingue classiche ha aperto nuovi orizzonti per una riconsiderazione degli orientamenti teorici e pratici dell’insegnamento, cristallizzati da una consolidata tradizione. Eppure, continua ad aggirarsi «un fantasma per le università italiane», cioè «il fantasma della didattica» (Rocca 2006, 309) e permane ancora «la distanza spesso notevole tra la ricerca accademica e la didattica» (Berrettoni 2010, 9). La nutrita bibliografia sulla didattica delle lingue classiche può essere paradossalmente interpretata anche come un segnale di salute non buona della disciplina (Cova 1999, 56), e spesso i titolari degli insegnamenti universitari di didattica «devono ancora combattere contro pregiudizi inveterati» (Favini 2008, 45). La riflessione sulla preparazione linguistica in latino degli studenti liceali in ingresso nella facoltà di lettere (Tixi 2010 e 2011), ma l’istituzione delle Scuole di Specializzazioni per l’Insegnamento nelle Scuole Secondarie (Strati 2005 e 2009; Balbo-Cecchin 2008), e la loro recente sostituzione con i Tirocini Formativi Attivi (Magni 2013), sebbene abbia prodotto qualche confusione normativa, testimonia però se non altro una rinnovata attenzione per la didattica, anche delle lingue classiche

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Prabhu (1990) ha più recentemente riesaminato la questione di quale sia il miglior metodo di insegnamento, argometando differenti metodi sono migliori a seconda dei differenti contesti di insegnamento; che tutti i metodi sono parzialmente veri o validi; che la nozione di metodo buono e cattivo è di per sé fuorviante. La sua interpretazione del termine metodo in maniera globale sia una serie di attività da eseguire in classe sia una teoria, un’opinione, o una concezione personale che informa queste attività, poggia sul senso di “plausibilità” del docente, cioè sull’esistenza di una riflessione consapevole su come l’apprendimento avvenga e come l’insegnamento abbia effetto (Prabhu 1990, 172-173).

Secondo Prabhu la condizione del senso di plausibilità del docente è essenziale per la gestione didattica del rapporto con la classe, in quanto lo sforzo degli specialisti di ricercare il miglior metodo e, se ritengano di averlo trovato, di rimpiazzare altri metodi, è un obiettivo irrealizzabile nel processo, anzi può essere fuorviante laddove porti a ritenere la natura dell’insegnamento come una serie di procedure che possono di per sé portare la garanzia dei risultati nell’apprendimento. Se, dunque, il metodo varia in base ai contesti di insegnamento, non si può, secondo Prabhu, fornire alcuna indicazione per l’identificazione del metodo migliore in sé e per sé170.

La divaricazione tra teoria di un metodo e applicazione di un metodo era già stata evidenziata da Mackey (1965, 138-139), tanto che l’autonomia del docente può essere definita la possibilità della teorizzazione basata sulla propria pratica (Larsen-Freeman 1991, 269), all’insegna del pragmatismo didattico fondato su determinate informazioni e su una conoscenza critica (Widdowson 1990, 30).

Più recentemente da Kumaravadivelu (1994, 2006) è stato definito il concetto di “post-metodo” come una serie di fattori che conducono a ripensare il rapporto tra teorici e praticanti di un metodo, grazie al quale i secondi possono costruire teorie della pratica orientate sulla classe: il post-metodo è, soprattutto, la ricerca di un’alternativa al metodo piuttosto che un metodo alternativo.

Se negli anni Settanta si prendeva coscienza dell’ “illusione” del metodo (Debyser 1973), a partire dagli anni Novanta, in un certo senso, è stata decretata dagli studiosi la “morte” del metodo stesso (Puren 1994; Serra Borneto 1998; Barker 2001).

2.2. La concettualizzazione del metodo

Il concetto di “metodo” per l’insegnamento di una L2 trovò un importante tentativo di chiarificazione teorica nella proposta del linguista applicato americano, Edward Anthony nel 1963, il quale distinse tre livelli di concettualizzazione e organizzazione in un rapporto gerarchico (Anthony 1963, 63-7):

L’approccio, che consiste in una serie di assunti riguardanti la natura dell’insegnamento e dell’apprendimento del linguaggio.

1) Il metodo, ossia il piano generale del modo e dell’ordine con cui viene presentato il materiale linguistico da apprendere, che non deve, almeno in linea teorica, contraddire l’approccio scelto; il metodo è, dunque, procedurale, mentre l’approccio assiomatico.

2) La tecnica infine è ciò che realmente avviene in classe come forma di espedienti e stratagemma.

170 In conclusione scrive Prahbu (1990, 174-175): «A method is seen simply as a highly developed and highly articulated sense of plausibility, with a certain power to influence other specialists' or teachers' perceptions. Perhaps the best method varies from one teacher to another, but only in the sense that it is best for each teacher to operate with his or her own sense of plausibility at any given time. There may be some truth to each method, but only in so far as each method may operate as one or another teacher's sense of plausibility, promoting the most learning that can be promoted by that teacher. The search for an inherently best method should perhaps give way to a search for ways in which teachers' and specialists' pedagogic perceptions can most widely interact with one another, so that teaching can become most widely and maximally real».

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La proposta di Anthony ha avuto grande fortuna negli studi sul concetto di metodo degli anni successivi, in quanto ha il vantaggio della semplicità e dell’esaustività, presentando in modo chiaro la distinzione del rapporto tra principi teorici e pratiche che ne derivano, ma tralasciando la questione essenziale del concetto teorico di metodo e di altri non meno importanti riflessioni come il ruolo dei materiali pedagogici, il passaggio dall’approccio al metodo e la relazione tra metodo e tecnica.

Richards e Rodgers (20012), riprendendo la concettualizzazione di Anthony, ne offrono un approfondimento e una riformulazione.

Richards e Rodgers, ponendo l’approccio e il metodo sotto la denominazione di design, essi specificano ulteriormente tale livello nei sui elementi costitutivi: obiettivi, sillabo, contenuti e ruolo dell’insegnante.

Il concetto di tecnica di Anthony viene ampliato da Richards e Rodgers in termini di procedura. In questo quadro, il metodo è teoricamente relazionato a un approccio, organizzativamente determinato da un design, e praticamente realizzato in una procedura (TABELLA171 1).

Approccio. Nel concetto di approccio e di metodo glottodidattico, gli aspetti linguistici e psicolinguistici possono essere divisi in tre principali visioni.

La prima, che è la più comune, è la visione strutturale della lingua, per cui la lingua è un insieme di elementi strutturalmente relazionati per la codificazione del significato. L’obiettivo dell’insegnamento è l’apprendimento di questi elementi che sono generalmente definiti come unità fonologiche (fonemi), grammaticali (complementi, frasi) con le relative operazioni grammaticali (trasformazione) e items lessicali (congiunzioni). Esempio di questa visione è il metodo glottodidattico dell’audiolinguismo (di cui brevemente daremo conto più avanti).

La seconda visione è quella funzionale per cui la lingua è un mezzo per l’espressione del significato, caratteristico dei metodi diretti o comunicativi dell’insegnamento della lingua, organizzato sulla specificazione di funzioni piuttosto che sulle strutture grammaticali.

La terza visione della lingua è interazionale e vede la lingua come un mezzo per la realizzazione di relazioni interpersonali e per l’esecuzione di relazioni sociali tra individui.

Ci sono metodi glottodidattici che si basano su specifiche teorie della natura della lingua, come abbiamo indicato prima, e ci sono anche metodi che derivano, invece, principalmente dalla teoria dell’apprendimento della lingua.

Una teoria dell’apprendimento che sta alla base di un approccio o di un metodo glottodidattico deve rispondere a due domande:

1. Quali sono i processi psicolinguistici e cognitivi coinvolti nell’apprendimento della lingua?

2. Quali sono le condizioni che devono essere soddisfatte perché questi processi dell’apprendimento siano attivati?

Mentre le teorie dell’apprendimento sono associate a un metodo e, a livello di approccio, possono enfatizzare una o l’altra dimensione come la formazione di abitudini, l’induzione, l’inferenza, la verifica delle ipotesi, invece le teorie orientate al processo sono costruite su processi dell’apprendimento generalizzati. Le teorie orientate alle condizioni che sono necessarie perché avvenga l’acquisizione mettono l’accento sulla natura e sul contesto fisico in cui l’apprendimento della lingua deve avvenire. Esempio di questo è il Modello del Monitor di Stephen D. Krashen (su cui si tornerà sotto) su cui un metodo (Approccio naturale) è stato elaborato. La teoria del Monitor si rivolge sia alla dimensione del processo sia alla dimensione della condizione dell’apprendimento.

Esempio dell’unione di una teoria linguistica (strutturalismo) e di una teoria dell’apprendimento (comportamentismo) è il metodo glottodidattico dell’audiolinguismo.

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Design. Per far sì che un approccio conduca a un metodo glottodidattico, è necessario sviluppare un design di un sistema formativo: il design è il livello dell’analisi del metodo in cui vengono chiariti (TABELLA 2):

1) quali siano gli obiettivi del metodo;

2) come i contenuti della lingua siano selezionati e organizzati all’interno del metodo, cioè il sillabo incorporato all’interno del metodo;

3) i tipi di attività dell’apprendimento e le attività dell’insegnamento che il metodo ingloba; 4) i ruoli dell’apprendente;

5) il ruolo dei materiali pedagogici.

Procedura. La procedura è l’ultimo livello di concettualizzazione all’interno del metodo e indica le reali tecniche, pratiche e comportamenti adottati nell’insegnamento della lingua secondo un particolare metodo. La procedura è perciò la descrizione di come un metodo realizzi il suo approccio e il suo design nell’operato in classe: è possibile, ad esempio, vedere la tipologia di attività di insegnamento come conseguenza degli assunti teorici del metodo sulla lingua e sull’apprendimento della lingua; e si può osservare come queste attività siano integrate nelle lezioni e usate come base per l’insegnamento e l’apprendimento.

A livello di procedura ci sono tre sottolivelli in cui si esplica un metodo:

1) l’uso di attività di insegnamento (drills, dialoghi, gap-filling ecc.) per presentare nuove aspetti della lingua e chiarire alcune strutture-obiettivo;

2) i modi in cui attività specifiche dell’insegnamento vengono usate per la pratica della lingua; 3) le procedure e le tecniche impiegate per il feedback.

2.3. Metodologie glottodidattiche: un breve profilo.

Se un qualsiasi studio dei metodi risulta caratterizzarsi, secondo un’immagine evocativa (Celce-Murcia 1980, 2-13), come un “pendolo” che si muove, nel corso dei secoli l’insegnamento della L2 si è polarizzato secondo un andamento variegato, tortuoso e alternato fra momenti di “formalismo” e momenti di “attivismo”: rispettivamente momenti in cui si favorisce l’apprendimento attraverso le regole, in quanto si considera la grammatica l’asse portante nella spiegazione e riflessione in classe, e momenti in cui nell’apprendimento si privilegia la pratica, poiché, sulla base della convinzione che imparare una L2 sia “uguale” a imparare una L1, si cerca di proporre in classe le condizioni della lingua madre.

Come rileva Freddi (1994, 162), «essendo la lingua un enigma ed essendo l’uomo l’ancor più straordinario enigma esistente in natura, il succedersi dei metodi glottodidattici nella storia è da considerarsi come una sequenza di tentativi di penetrare nel cuore di questi enigmi raggiungendo lo scopo di insegnare-apprendere le lingue in modo soddisfacente. La pluralità di metodi e di approcci avutasi nel tempo è un risvolto della pluralità di aspetti con cui la lingua si presenta all’occhio dello studioso e della varietà di condizioni in cui essa è insegnata».

In ogni approccio e metodo è possibile identificare salde convinzioni a problemi che possono essere ricondotti alle seguenti questioni essenziali: come descrivere una lingua, che cosa significa conoscere una lingua e dunque che cosa comporta l’apprendimento/insegnamento di una L2; quali sono i meccanismi linguistici, psicologici e sociali che un locutore deve possedere per prendere parte attiva nelle interazioni comunicative; quali situazioni o pratiche didattiche favoriscono l’apprendimento linguistico, quale ruolo viene svolto dal docente e quale dal discente.

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In base alle risposte a siffatte questioni, è possibile suddividere approcci e metodi in tre grandi orientamenti: linguistico, umanistico-psicologico, comunicativo.

Agli antipodi della concezione del fenomeno linguistico sono l’orientamento linguistico e l’orientamento comunicativo: il primo lo considera come sistema di regole e strutture, il secondo