3. I giudici e la legge
3.1 Breve ricostruzione storica del ruolo della legge e del giudice, assunto
Il diritto è una dimensione insopprimibile della storia umana, che fa i conti con i tempi che si susseguono, con gli spazi più diversi, che si manifesta quindi in modo differente a seconda dei vari scenari storici, economici e politici. Tali manifestazioni vanno interpretate ed applicate: genesi, esteriorizzazione, interpretazione e applicazione sono momenti di un processo giuridico unitario. Le più embrionali forme di esso si trovano in relazione a micro-organzzazioni sociali di indole tribale. Qui la disciplina organizzativa ha la sua fonte nell’uso ed è ancorata ad una dimensione prevalentemente orale proiettata su uno spazio ristretto; per questo non hanno avuto un’incidenza profonda nel tessuto storico.
Dall’età antica invece, inizia a costruirsi un insieme di norme ed istituti sempre più organico che alcuni studiosi identificano come “dritto dell’Oriente mediterraneo” o “diritto greco”, che tuttavia viene oscurato dall’esperienza del “diritto romano” di cui si parlerà dal V secolo a. C. al VI d. C., grazie alla quale gli eventi del mondo socio-
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economico-politico vengono letti in termini giuridici. È infatti in questa atmosfera che subentra una nuova figura, il giurista, e con essa si delinea una scienza autonoma, un metodo di approcciarsi alla realtà, si forma il pensiero giuridico. Dal II secolo a. C. al III secolo d. C., l’opera dei giuristi è volta a costruire un sistema, inteso come una struttura logica organicamente unitaria, in grado di seguire la trasformazione della città-Stato in Impero e a tradurre tale passaggio sul piano giuridico. L’analisi dei giuristi romani è proposta come scientifica, caratterizzata dalla rigorosità e dalla perfezione formale che verrà presa ad esempio anche in climi storici molto diversi. Inoltre essi erano ben inseriti e coinvolti nel tessuto politico romano e rispecchiavano, attraverso le categorie formali, la classe dirigente, quindi imperniata sul patrimonio, sull’avere, sulla proprietà e i diritti reali, sui contratti, le obbligazioni, i testamenti, i legati e le successioni. Il sapere quindi di questi peculiari scienziati del diritto, è pressoché civilistico. La rilevanza storica dell’esperienza giuridica romana è notevole, tanto che svolgerà un importante ruolo ben oltre la vita della sua civiltà.
Quando crolla l’edificio politico romano, e con esso, la sua cultura giuridica, il periodo storico successivo, il c. d. ‘primo Medioevo’, si trova a fare i conti con tali due vuoti. L’assenza dello Sato, e a maggior ragione di uno totalizzante come era quello presente nell’età precedente suddetta, comporta lo svincolarsi del diritto rispetto al potere ed il conseguente riaccostarsi ai fatti cercando di ordinarli secondo la loro natura. Il diritto si manifesta soprattutto mediante le consuetudini, si particolarizza, espressione della società frammentata, pluralistica, caratterizzata da più fonti produttrici e da più ordinamenti presenti su un medesimo territorio.
Nel ‘secondo Medioevo’, quindi dalla fine dell’undicesimo secolo in poi, permane il vuoto statuale, ma rifiorisce la dimensione culturale e
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le consuetudini vengono interpretate non più dai pratici del diritto, ma da uomini di scienza che insegnano nelle nascenti Università. La società in questa epoca, non è più quella statica e agraria caratterizzante il periodo precedente, ma inizia a crearsi una complessa struttura di relazioni commerciali per cui le consuetudini, quale fonte del diritto, non sono più sufficienti. Per fare ordine, sono necessarie norme generali che vengono poste da una scienza giuridica universitaria, dato che il legislatore ancora rimane una figura marginale. Così, da un lato, rimangono le consuetudini e gli statuti locali, i c.d. iura propria, dall’altro si forma un diritto scientifico universale, il c.d. ius commune, così chiamato proprio perché comune a tutte le terre civilizzate ed anche perché costituito dalle antiche fonti romane e dai principi e dalle regole elaborate dalla Chiesa. Questo pluralismo giuridico è possibile per l’assenza di imponenti soggetti statuali e tale scienza giuridica non è perciò coinvolta ed espressione di essi110. Questo aspetto la differenzia nettamente dal diritto romano che invece è inserito in un apparato politico potente da cui trae sicurezza per la creazione di un sistema rigoroso e rigido. Tale diversità, da cui deriva un’incertezza della disciplina giuridica, (ingestibile quando la stratificazione delle opinioni dottrinali diventa eccessiva), porta alla crisi del diritto comune ma non solo; prende piede un nuovo modo di pensare il diritto. Dal Trecento, sullo
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I giuristi si qualificano come ‘interpreti’ di fonti romane e canoniche; in realtà, nella sostanza, fanno opera creativa, partendo sì da testi autorevoli, ma avendo sempre riguardo ai bisogni della loro società, piegando quindi il testo ad essi. “A tal proposito si può parlare di visione equitativa del diritto e cioè la coscienza della mobilità dell’ordine giuridico a fronte della immobilità di un testo normativo (…) e quindi anche precisa coscienza del ribollire dei fatti sociali al di là delle forme giuridiche, esigenza di verificare quel testo nella incandescenza della vita, disponibilità a sacrificare la rigidità delle forme affinché il diritto sia ordinamento conveniente e non coartazione”. Cfr. P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Editori Laterza, Bari, 2017, p. 55.
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scenario storico, appare un nuovo soggetto politico: il Principe111. Egli diviene sempre più legislatore, conseguendone che il diritto è sempre più legislativo, si particolarizza, riferendosi ad un ambito geografico limitato ad un singolo Stato, all’interno del quale il principe controlla il fenomeno giuridico ed anzi ne fa uno strumento del suo potere: la legge prevale su ogni altra manifestazione giuridica e ciò perché il principe è l’unico valido produttore di diritto, capace di interpretare la natura delle cose e di esprimere la volontà generale. Naturalmente, tale moto, è lento ma progressivo e trova il suo culmine a fine settecento con la codificazione napoleonica in Francia; tutto il diritto viene sistemato in articoli a loro volta disposti in libri: i ‘codici’. Con tale opera si crede di poter immobilizzare il diritto in un testo autorevole, si cancella il pluralismo giuridico e si fa spazio l’assolutismo giuridico, il diritto rispecchia lo Stato e si manifesta attraverso la legge, che anche se formalmente non è l’unica fonte, lo è nella sostanza perché è al vertice della gerarchia; scienza giuridica e giudici sono estromessi dal processo creativo del diritto e anche la loro opera interpretativa viene ridotta a mera esegesi e ad espressione della volontà del legislatore. L’idea di un giudice come mera «bocca della legge»112, secondo l’espressione di Montesquieu nello “Spirito delle leggi”, nasce come pilastro della monarchia costituzionale, sostenuta con forza dai giacobini nel corso della Rivoluzione francese e successivamente consolidatasi a seguito del processo di codificazione che interessa l’Europa continentale. I codici, ed in
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Il principe medievale ha per lo più funzioni giudiziali, si pone quale “giustiziere del suo popolo”, producendo perciò poche leggi e lasciando a prassi e scienza l’ordinamento giuridico della società. Cfr. GROSSI, Prima lezione di diritto, cit., p. 57.
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“La storia ha dimostrato l’inidoneità dei suddetti tentativi di ridurre il giudice a un mero burocrate, come pure l’illusione legata al principio di completezza dell’ordinamento giuridico. Il giudice ha costantemente affermato il proprio potere- dovere di interpretare la legge, divenendo l’attore principale nel processo di formazione del diritto vivente”. Cfr. P. RESCIGNO, S. PATTI, La genesi della
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particolare quelli civili, sono pensati per fornire schemi regolamentari ad ogni rapporto sociale ed anche in funzione della realizzazione dell’unificazione del diritto, escludendo ogni fonti diversa dalla legge. Con la codificazione infatti si afferma il principio per cui il diritto è monopolio dello Stato e più nello specifico, del potere legislativo, unico detentore della facoltà di produrre norme giuridiche. In tale prospettiva, è chiaro che il ruolo del giudice non può che essere quello di mero esecutore della volontà del legislatore, dalla quale non si può discostare. Il principio di strettissima legalità, e quindi l’identificazione di ogni manifestazione giuridica con la legge, che non può essere interpretata se non rigidamente e in maniera letterale, pone dei limiti alla funzione giurisdizionale a vantaggio di quella legislativa. Ciò è giustificato per garantire i cittadini da quelli socialmente ed economicamente più forti e dagli arbitri della pubblica amministrazione; il legislatore è idealizzato e non viene concepito un suo abuso ed anzi è visto come interprete e realizzatore del bene comune. In realtà si tratta del bene dello Stato borghese.
Il positivismo giuridico presuppone la concentrazione della produzione del diritto nell’istanza legislativa. La legge, come norma generale e astratta, vale indifferentemente nei confronti di tutti i soggetti di diritto senza distinzioni. La generalità è garanzia contro un uso sregolato del potere, anche di quello legislativo; è premessa per la realizzazione del principio della separazione tra poteri; è presupposto dell’imparzialità dello Stato nei confronti delle componenti sociali e della loro uguaglianza giuridica. Connessa al carattere della generalità, è l’astrattezza delle leggi, cioè le prescrizioni di esse valgono indefinitamente nel tempo a salvaguardia della stabilità dell’ordinamento giuridico e perciò della certezza e della prevedibilità del diritto. Nel periodo liberale, l’egemonia dei principi giuridici e politici della borghesia, si esprime attraverso la legge alla quale è
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riconosciuto il primato tra tutti gli atti giuridici, comprese anche le Carte costituzionali vigenti, degradate a «flessibili» e cioè, passibili di modifica legislativa. Il monopolio politico-legislativo di suddetta classe sociale omogenea, si riverbera sulla legislazione, coerente perché espressione di una forza politica unitaria, costruita in base a principi e valori essenziali e non contestati, che sono a fondamento dell’ordinamento e che, per tali caratteri, non hanno bisogno di essere formalmente espressi in un testo giuridico. Pertanto, l’interprete, ricava essi induttivamente dalle disposizioni legislative. Ciò è a fondamento dell’interpretazione sistematica e dell’analogia, due metodi dell’interpretazione secondo i quali, anche nel caso in cui si fosse verificata una lacuna, quindi nel caso fosse mancata una disposizione per risolvere una questione giuridica, se ne individua una in coerenza col sistema. Ne deriva che oltre alla sistematicità del diritto, c’è altresì la presunzione della sua completezza. Tale concezione porta a concepire l’attività dei giuristi come semplice esegesi, pura e semplice ricerca della volontà del legislatore113.
Queste caratteristiche rispecchiano gli Stati del continente europeo, quelli c.d. di civil law, nei quali ricadono gli effetti della Rivoluzione francese, con lo statalismo giuridico e la riduzione del diritto a codificazione114.
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J. H. Kirchmann esprime il suo disprezzo per la riduzione della scienza del diritto a mero servizio della legge, affermando: «tre parole di rettifica del legislatore e intere biblioteche vanno al macero». Cfr. ZAGREBELSKY, Il diritto
mite, cit. p. 38 e 55.
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Le esperienze giuridiche fatte ricadere nella dicitura «common law», riferendosi all’Inghilterra e alle sue colonie, compresi gli attuali USA, vedono il diritto come appartenente alla classe dei giuristi, che sono gli unici che possono fissarlo, esprimerlo e gestirlo in relazione ai bisogni della società. Questi tratti sono tipicamente medievali, a maggior ragione se si considera il ruolo, affatto trascurabile, del diritto canonico e la sua dimensione equitativa, dovuto alla presenza massiccia di ecclesiastici nelle corti giudicanti fino a pieno Cinquecento. La produzione del diritto vede primeggiare il giudice quale suo applicatore e conseguentemente il ruolo della legge rimane modesto; il diritto non conosce la codificazione essendo appunto affidato al ceto giudiziale ed anzi permane la
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Tuttavia anche in Germania, si sviluppa una concezione del diritto radicalmente diversa per merito della scuola storica di Friedrich Carl von Savigny e Georg Friedrich Puchta, secondo cui “il fondamento dell’ordine giuridico non risiede nell’atto di volontà di chi detiene il potere politico, ma consiste nello sviluppo costante e organico di un popolo che trova nella dottrina giuridica, l’espressione più autentica del suo spirito e della propria identità etico-sociale”115. In tale visione, esaltato è il ruolo della scienza giuridica nella creazione dell’ordine giuridico, rispetto a quello del giudice, che in questo caso deve essere fedele ad essa, nello svolgimento della propria attività pratica, ancora concepita come esecuzione di direttive da altri determinate. Questa concezione storicistica del diritto, perde forza con la codificazione tedesca del 1990 che, come già avvenuto in Francia con il codice napoleonico, unifica l’ordinamento giuridico all’insegna della preminenza assoluta della legge. La concezione positivistica del diritto diviene perciò predominante in ambito continentale, nonostante la presenza di un movimento di segno opposto, «il diritto libero», entro cui rientrano la giurisprudenza degli interessi e quella sociologica, secondo i quali la legislazione non esaurisce il diritto poiché il giudice deve attingere necessariamente a criteri extralegali nel momento in cui interpreta la legge. Tale linea di pensiero rimane comunque marginale, poiché prevale il favore per la teoria normativistica elaborata da Hans Kelsen che fa derivare la validità dell’ordinamento, non dall’esercizio di un potere sovrano, ma da una norma ipotetica, la Grundnorm, da cui fa conseguire un’immagine pura del diritto poiché liberato da ogni contaminazione con la realtà storico-sociale: esso si riduce ad un’insieme di proposizioni linguistiche il cui significato è ricavato da procedimenti meramente
diffidenza nei confronti di una cristallizzazione ed immobilizzazione di esso. Cfr. GROSSI, Prima lezione di diritto, cit., p. 64-65.
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logici come l’analisi del linguaggio. Il giurista quindi dovrebbe limitarsi ad esplicare il contenuto della norma senza badare al contesto sociale in cui è inserita e in cui deve operare116.
L’età moderna affiora quindi nel Trecento ma già nel Novecento il suo modello di interpretazione della realtà socio giuridica e la compattezza dello Stato, si incrinano: si fanno spazio nuove collettività, la civiltà agraria, mercantile e industriale, che se prima potevano essere represse o ignorate, adesso non è più possibile e l’ordinamento giuridico borghese non è più in grado di disciplinarle. La realtà si complica e c’è sempre più coscienza di ciò117.
Inizialmente si cerca di affrontare tale scenario attraverso una maggiore attività legislativa: oltre ai codici e alle leggi generali, sono prodotte leggi particolari legate a bisogni specifici. Tuttavia tale incremento, porta confusione a livello di chiarezza e di certezza del diritto, esigenza che invece il Codice soddisfaceva. Si aggiunga poi che da un lato, quello intra-statuale, appare una fonte nuova, la Costituzione, dall’altro, quello trans-statuale, emergono norme provenienti da strutture comunitarie internazionali.
Il complesso dei principi della Costituzione rispecchia i valori della società e tratto peculiare di essa è che non vincola solo i cittadini, ma anche gli organi dello Stato, ed in primis il Parlamento che è subordinato ad essa. Si intende con ciò sostenere il primato della società rispetto ad esso. Con la formula «Stato costituzionale» infatti si vuole mettere in luce la principale novità relativa alla posizione
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L’attività del giurista qui segue un’ideale di conoscenza avalutativa e scientifica. L’opera interpretativa è confinata ai margini dell’ordinamento giuridico. Cfr. RESCIGNO, PATTI, La genesi della sentenza, cit., p. 8-11.
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È Santi Romano che percepisce lucidamente tale complessità, affermandola nel discorso inaugurale per l’anno accademico 1909/1910 dell’Università di Pisa, in cui parla di “crisi dello Stato moderno”. Nel 1917/1918 teorizza invece la pluralità degli ordinamenti giuridici, lo svincolamento del diritto dallo Stato ed il suo collegamento con la globalità del sociale. Cfr. GROSSI, Prima lezione di diritto
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della legge, subordinata alla Costituzione. Ciò comporta una profonda trasformazione anche della concezione del diritto: si moltiplicano le leggi a carattere settoriale e temporaneo (quindi altra cosa rispetto ai caratteri della generalità e astrattezza), leggi provvedimento e leggi retroattive (che poco quindi hanno a che fare con la prima proclamata prevedibilità e certezza del diritto). Tale sgretolamento dei caratteri classici della legge è dovuto al tipo di società attuale, composta da gruppi e strati sociali diversificati; da qui la creazione della legislazione di settore con la conseguente crisi del principio di generalità. Da aggiungere poi il continuo trasformarsi di tali situazioni sociali, che necessita norme giuridiche ad hoc adeguate alle esigenze che si manifestano di volta in volta, che vengono meno, e perciò sostituite, al sorgere di altre; da qui la crisi del principio di astrattezza. Infine, l’atto legislativo diviene sempre più l’esito di un processo politico nel quale sono coinvolti molti soggetti sociali particolari che in base al cambiamento dei rapporti di forza tra loro, richiedono il cambiamento e l’approvazione di nuove leggi che lo rispecchiano; tale «occasionalità» del contenuto delle disposizioni riduce la visione di esse come fattore di ordine proprio perché manifesta il disordine della società118. La Costituzione ha lo scopo di contenere tali sviluppi disomogenei e contraddittori della produzione del diritto, specchio delle pressioni sociali, orientando l’attività del legislatore e quella dei giudici, ad un insieme di valori e principi, sui quali, tra l’altro, converge un grado sufficientemente ampio di consenso sociale.
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La legge non è più espressione di una società politica al suo interno coerente ma anzi è uno strumento di confronto e di competizione sociale, atto personalizzato che persegue interessi particolari. Cfr. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 43- 45.
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Inoltre, lo statalismo di cui prima, trova un ulteriore battuta d’arresto nella seconda metà del Novecento, con lo svilupparsi di organismi sopranazionali119.
Negli ultimi anni si parla di “globalizzazione giuridica”, il monopolio statale delle fonti, baluardo della civiltà giuridica cristallizzatosi a partire dalla Rivoluzione francese dell’89, è sempre più eroso; il diritto statale è sentito come sordo, lento ed impotente rispetto alle esigenze della dimensione sociale, all’evoluzione dei costumi, allo sviluppo di nuove forme di organizzazione dell’economia e del lavoro ed infine, ma non per importanza, alla pressione, sempre più incalzante, per il riconoscimento di nuovi diritti da parte dei ceti emergenti. Il primato della legge positiva, conseguenza del predominio di un’unica classe, è avvertito come antitetico rispetto alla ricomposizione della frattura creatasi tra diritto e società.
Alla critica dell’onnipotenza della legge, subentra la valorizzazione del ruolo della giurisprudenza che, successivamente all’entrata in vigore della Costituzione, viene ripensata sino al punto da far ipotizzare ad alcuni, di poterla collocare tra le fonti di produzioni del diritto. È perciò messo in discussione l’intero sistema delle fonti di produzione di esso.