La magistratura ha acquisito, negli ultimi decenni, una
“legittimazione sociale”, che si sovrappone a quella propria di essa, “formale”. C’è chi parla addirittura di “legittimazione democratica”, benché non sia un’istituzione elettiva151. Essa si trova, in misura crescente, a dover rispondere ai bisogni di riconoscimento delle soggettività e dei loro diritti che emergono nelle società contemporanee. Prendendo atto della nuova funzione, sempre più in progressione, del potere giurisdizionale, ma anche tenendo ben
presente che lo Stato «democratico» non può divenire
«giurisdizionale», e che anzi deve recuperare i suoi spazi di autonomia, bisognerebbe ristrutturare un equilibrio tra i poteri in modo da far sì che i giudici possano svolgere quell’attività di “sensore sociale”, che per alcuni gli è connaturale. Tuttavia, ciò che si agita nella società (nel caso qui trattato relativo alle relazioni familiari, ma pensiamo anche ai temi di bioetica), colto dalla magistratura, deve anche trovare una definizione nel dibattito politico e poi nella legislazione, evitando una totale compensazione giudiziaria.
Di due tipi di legittimazione della magistratura, parla anche Pier Luigi Zanchetta, che contrappone quella istituzionale152, e quindi della
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Proprio l’indipendenza della giurisdizione dal circuito della rappresentanza è sembrata immunizzarla dalla crisi di essa. Cfr. G. PRETEROSSI, Questione Giustizia 4/2016, La magistratura di fronte alle derive post-democratiche, p. 77. 152
Nella Costituzione italiana i principi fondanti la legittimazione della magistratura sono: la soggezione soltanto alla legge (art. 101), e la nomina per concorso (art. 106). Come principi serventi troviamo: l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere, garantiti dal Consiglio superiore della magistratura (art. 104), e la garanzia di inamovibilità (art. 107). La nomina per concorso dovrebbe
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soggezione del giudice soltanto ala legge, a quella democratica appunto. La prima, irrinunciabile, dovrebbe accompagnarsi ad una, mai conquistata in modo stabile e definitivo, che ricerchi la consonanza, non con il popolo attuale e contingente153, bensì con quello eterno considerato dalla Costituzione154. Il magistrato nell’agire e nel decidere, non si muove in base ad un input di una, più o meno qualificata, opinione pubblica. Deve vivere una consonanza con la Repubblica, ad un tempo con le altre istituzioni, ad un tempo con i cittadini: i giudici sono silenti ma né isolati né sordi: le critiche a loro volte offrono loro quel senso comune sul quale si fonda l’accettazione del loro operato.
Il problema sta nel carattere proprio dello iusdicere, che non può agire in base al principio cardine presente in ogni democrazia, cioè quello della maggioranza. La legittimità del giudizio risiede nelle garanzie dell’imparziale accertamento dei fatti affidata ad un organo che difende il cd. «popolo eterno», cioè quello che trova la sua ragion d’essere nei principi della Costituzione, dal «popolo attuale», quello
rispondere a due finalità: una di tipo sociologico, per cui la magistratura è aperta ai cittadini di ogni ceto e classe, così rappresentando ogni settore della società; l’altra, di natura tecnico-culturale, per la quale diventa giudice chi sa il diritto, conosce le leggi e sa come applicarle. Cfr. P. L. ZANCHETTA, Questione Giustizia 4/2016,
La legittimazione e il suo doppio (magistrati e consonanza con la Repubblica), p.
82-83. 153
Zanchetta critica ciò che è constatato da alcuni a proposito della legittimazione delle decisioni dei magistrati a livello sociologico. Ad esempio cita A. Pizzorno che, riferendosi ai procedimenti tipo “Mani pulite”, afferma : «la magistratura italiana ha agito tenendo conto di quanto avveniva nella sfera pubblica e ha potuto svolgere il suo compito soprattutto grazie all’appoggio che vi ha trovato; insomma, coscientemente o meno, ha agito “fiutando l’aria”, mettendosi in sintonia con l’opinione pubblica». Ciò è inaccettabile nel merito poiché è inadeguato a stabilire una regola, cioè un principio non occasionale e non fondato sull’osservanza di un fenomeno giudiziario. Cfr. ZANCHETTA, La legittimazione e il suo doppio
(magistrati e consonanza con la Repubblica), cit., p. 87.
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A tale proposito è citata una massima di S. Mannuzzu: «quella che conta di più è la consonanza, l’accordo fondamentale, del giudice con la Repubblica. Qualcosa che è ben più della lealtà e della fedeltà al giuramento prestato: un’adesione ad un insieme di principi non vaghi, incarnati nella storia, una scelta di merito».Cfr. ZANCHETTA, La legittimazione e il suo doppio (magistrati e consonanza con la
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delle maggioranze volubili ed occasionali. Fondamento legittimante della giurisdizione è la professionalità: il sapere il diritto da parte dei giudici dovrebbe rendere democraticamente accettabili le decisioni155. Chiarito che il proprium del giudice è (o quantomeno, dovrebbe essere), la sua posizione di terzietà nel risolvere un caso particolare, attraverso la sua azione rivolta al passato156, il problema sorge, nelle società sviluppate, quando si trova a confrontarsi con dei problemi del tutto nuovi e allora deve prendere in considerazione l’ordinamento in generale per orientare il suo operato e il suo potere discrezionale. Il diritto legislativo è impotente a regolare tutti i casi della vita e nel momento in cui si affrontano valori configgenti e tematiche delicate, necessita una legislazione leggera ed elastica.
L’opinione pubblica può avere un ruolo nel controllo del potere affinché esso sia legittimo, atteggiandosi come resistenza alle possibili oppressioni provenienti dai poteri pubblici nel caso in cui mettano in discussione le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione. In questo senso tale reazione appare legittima e giustificata ma resta il problema relativo alla consapevolezza e alla qualità delle informazioni cui i soggetti facenti parte la società, possono accedere; pertanto sarebbe necessario che l’ordinamento giuridico realizzasse metodi di documentazione che riducano modi di vedere manipolati o basati sulla fantasia, e favorisse un’opinione comune documentata ed obiettiva. La correttezza dell’interpretazione giudiziaria finalizzata alla risoluzione di un caso pratico, dipende soprattutto dalla possibilità di poter giustificare la decisione giudiziaria all’esterno; infatti la motivazione delle decisioni dei
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Critiche recenti non mettono in dubbio la professionalità della magistratura, quanto l’utilizzo che viene fatto di essa, in modo distorto e non al servizio della giustizia ma della lotta politica. Cfr. ZANCHETTA, La legittimazione e il suo
doppio (magistrati e consonanza con la Repubblica), cit., p. 83.
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In questo si differenzia dalla attività del politico, che è rivolta al futuro, ha carattere generale, ed è portatrice di determinati interessi.
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giudici serve anche a ciò poiché spiega l’iter argomentativo seguito da essi che li ha portati a seguire determinate norme in relazione ad uno specifico caso da decidere. Inoltre si pone come limite alla libertà interpretativa. Il c.d., e già citato, «diritto vivente», è valido in quanto sia argomentato come interpretazione plausibilmente accettabile del diritto vigente di produzione legislativa. Esso non può essere prodotto dal legislatore, e viceversa, il diritto positivo non può essere posto dal giudice.
Ammettiamo che l’opinione pubblica, rilevi come controllo esterno sulle decisioni dei giudici, come fa il magistrato a conoscere gli orientamenti della società su una o l’altra opzione valoriale in campo? Se egli non è più bocca della legge, ma partecipa oggi più che in passato, alla creazione del diritto, aumenta il bisogno di un controllo sociale sul suo operato. Una interpretazione giudiziaria che si trovi in contrasto con i valori sociali dominanti, mina alla fiducia indispensabile che l’opinione pubblica deve avere nell’imparzialità del potere giudiziario: «è l’opinione pubblica, in fondo, a rendere effettive le sentenze; una giurisprudenza non dura se non incontra consenso157».
Come è più volte sottolineato in questo scritto, il caso Giubergia suscita polemiche accese e appassionate, sollevando molte proteste contro l’operato dei giudici minorili torinesi. Per la verità, non si può parlare solo di proteste poiché, anche se sono state più clamorose, ai magistrati, sezione per i minorenni di Torino, sono pervenute anche espressioni di consenso e solidarietà per le loro difficili scelte.
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È necessario che quando le norme si prestano a diverse interpretazioni plausibili e legittime, e perciò la scelta dipende da opzioni valoriali, è auspicabile uno sforzo di sincerità da parte del giudice, e che enunci i valori in campo qualunque sia la sua scelta. Ciò rende l’attività giurisdizionale più trasparente, nell’interesse sì della collettività, ma anche dei giudici stessi. Cfr. LAMORGESE, L’interpretazione
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“Si può ben dire che l’Italia si è spaccata in due; e tale spaccatura ha portato in primo piano, accanto al caso umano, i problemi legati alla legge 4 maggio 1983 n. 184.158159”.
Il dibattito e il confronto sono sempre una realtà positiva; tuttavia in questo caso emerge che spesso coloro che esprimono la loro opinione non conoscono il reale pensiero dei giudici, non avendo letto la motivazione dei loro provvedimenti. Questi infatti, sono documenti di non agevole lettura, specialmente quando si tratta di spiegare vicende complesse come quella di Serena Cruz. Tuttavia i magistrati hanno sempre il dovere di spiegare il perché delle loro decisioni: per questo anche la Corte (non soltanto il Tribunale) spiega ulteriormente la vicenda, illustrandola tappa per tappa e dando conto dei suoi sviluppi più recenti, anche perché i ricorsi dei Giubergia rimettono in discussione molte delle questioni già esaminate in precedenza.
L’immaginario collettivo è colpito dal fatto che una bimba sia tolta ad una famiglia in cui vive da 14 mesi, dalle modalità di allontanamento e altresì dal fatto che la piccola ha trascorso un periodo in comunità alloggio; invero la Corte, nel provvedimento del 14 marzo 1989, chiede uno sforzo da parte di tutti affinché Serena vivesse l’inevitabile passaggio dalla famiglia Giubergia alla famiglia affidataria senza essere pubblicizzata, coinvolta in clamori e trasformata in simbolo. L’invito non viene accolto ed anzi l’allontanamento viene trasformato in spettacolo: l’immagine di Serena viene esibita insistentemente, il distacco si svolge sotto gli obiettivi di telecamere e macchine fotografiche e la caccia al luogo in
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Espressioni riprese dal punto 1 del provvedimento della Corte d’Appello di Torino, sezione per i minorenni, del 18 aprile 1989. Cfr. GRUPPO ABELE, ASPE n. 11 del 4 maggio 1989, cit., p. 23.
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La vicenda “Serena Cruz” mette inoltre in evidenza l’inadeguatezza, secondo alcuni, della legge 184/ 1983 e delle modalità dell’intervento giudiziario. Tant’è che poi la modifica è avvenuta con la legge 476/1998 e successivamente con la l. 149/2001. Da ultimo con la l. 173/2015 (19 ottobre) relativa al “diritto alla continuità dei rapporti affettivi dei minori in affido familiare”.
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cui è trasferita diviene frenetica. L’auspicio della Corte di realizzare una separazione morbida e graduale è perciò irrealizzabile; così infatti si rivolge a coloro che non lo hanno permesso:
“Sotto l’occhio delle telecamere e degli altri mezzi di comunicazione sociale, nel clima di diffusa emotività, come sarebbe stato possibile attuare l’auspicio di trovare, con l’ausilio degli operatori sociali e di tutti coloro che hanno a cuore il bene della bambina, modalità idonee a consentire, quanto più possibile, l’attenuazione di traumi? […]
Come avrebbe potuto evitarsi la soluzione-ponte della comunità?160”.
Gli inserimenti di minori in famiglie affidatarie non sono fatti meccanici ma sono eventi personali molto delicati che richiedono un contesto intessuto di discrezione e di privatezza.
Al punto 13, punto finale dell’ultimo provvedimento della Corte d’Appello di Torino, (18.04.1989), essa conclude respingendo le istanze del ricorso reclamo dei Giubergia dell’11.04.1989, formulando un auspicio per Serena, essendo le decisioni dei giudici condivisibili o meno:
“Si rispetti, da parte di tutti, il diritto di Serena alla riservatezza, il suo diritto a vivere indisturbata, il suo diritto ad essere una bambina come le altre. Questo rispetto potrà essere un nuovo modo di voler bene a Serena. E’ augurabile che tutto quanto di positivo c’è nel grande potenziale di solidarietà che questo «caso» ha suscitato riesca ad esprimersi in quella nuova direzione e possa tradursi altresì in una viva sensibilizzazione ai problemi del mondo minorile e in un concreto impegno nel campo delle adozioni, degli affidamenti, del disagio giovanile”.
Se questi sono i termini del problema, ci si interroga sul perché decisioni opinabili, come tutte le pronunce giudiziarie, ma certamente
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Si tratta del punto 7 del provvedimento della Corte di Appello di Torino, sezione per i minorenni, del 18.04.1989. Cfr. GRUPPO ABELE, ASPE n. 11 del 4 maggio 1989, cit., p. 25-26.
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corrette sotto il profilo formale e razionali sotto quello sostanziale, abbiano provocato non un legittimo e proficuo dibattito, ma una sorta di “terremoto emotivo”161. L’emotività infatti, oltre che un valore, è anche un prezioso strumento di conoscenza e di interpretazione dei fatti, analogamente alla ragione, ma come quest’ultima non è garanzia di verità. Nel caso di specie è agevole constatare come per il carattere ed il livello dell’informazione, sono emerse solo le emozioni “facili” e non anche quelle “difficili”, profonde. La vera questione quindi, non sta nell’ondata emotiva ma nel tipo di informazione e nel clima culturale che l’hanno favorita e alimentata: ad esso concorre in primo luogo, una notevole crescita della cultura, della sensibilità e dell’attenzione alla “questione minorile”, che hanno reso meno tollerabili, di quanto accadesse in passato, eventuali violenze sui minori, da chiunque commesse (compresi perciò Tribunali e istituzioni in genere).
In secondo luogo, emerge la crisi della cultura delle regole, progressivamente sostituita da quella del caso singolo162.
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Suddetti commenti relativi alla vicenda sono stati ripresi dall’analisi di essa fatta da Livio Pepino in Questione Giustizia. Cfr. Questione Giustizia, Sommario n. 2, 1989, p. 449-458.
162
Norberto Bobbio è qui citato da Pepino in uno dei suoi interventi sul caso : «È un fatto che la gente è stata molto poco colpita dal modo illecito con cui la bambina è stata presa e, al contrario, in modo che a me è parso sorprendente ed era certo imprevedibile, molto colpita dal modo perfettamente legittimo, conforme alla legge, con cui è stata tolta. Una delle ragioni che può aver contribuito a creare questo impressionante divario tra il sentimento popolare e l’opera dei giudici ritengo si debba andare a cercare nella facilità con cui si adatta al fatto compiuto chi ha scarsa sensibilità per il valore del diritto, e nella solidarietà che si forma tra tutti coloro che hanno un ugual interesse alla sua violazione. Il fatto, una volta compiuto, diventa esso stesso diritto, e ad un certo punto è accolto come se fosse un diritto più diritto del diritto vero e proprio. Penso al fenomeno dell’abusivismo edilizio, e alle pretese, in taluni casi persino organizzate, degli abusivi contro chi volva far rispettare i piani urbanistici. Una volta che le case sono state costruite e ci sono, e servono allo scopo cui deve servire una casa, non importa se la loro costruzione sia stata fatta contro le leggi; sarebbe dissennato, si dice, abbatterle. E poi siamo proprio sicuri, si insiste, che le leggi violate fossero giuste?». (cit. “Giustizia nelle adozioni”). Cfr. Questione Giustizia, Sommario 2, 1989, p. 453.
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In terzo luogo, vi è l’insofferenza sempre più diffusa verso ogni forma di controllo pubblico: si tratta della tendenza alla “deregulation” che assume nel caso specifico i tratti di un ennesimo “fai da te”. Con riferimento alle adozioni e alle procedure relative ad esse, ci si chiede se sia ragionevole attribuire a giudici, psicologi o assistenti sociali, la responsabilità di una tale scelta.
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CONCLUSIONI
“Nello Stato costituzionale contemporaneo l’argomentazione
giuridica si presenta spesso nella forma di un’argomentazione morale; questo perché lo Stato costituzionale codifica espressamente, tramite la sua Costituzione, alcuni contenuti morali: diritti fondamentali, ideali di giustizia, valori. In molti casi, il ricorso a forme di argomentazione morale da parte dell’interprete è inevitabile in
particolare nell’interpretazione di clausole costituzionali
indeterminate e connotate in senso valutativo, e nel bilanciamento tra diritti e principi in conflitto. In altre parole […], in una cultura giuridica neocostituzionalista, sembra verificarsi una radicale connessione «interpretativa» tra diritto e morale. Questo però non comporta necessariamente che il giudice, o più in generale l’interprete, […] si trasformi in un sapiente che soppesa torti e ragioni, considerazioni, fattori, costi e benefici, e infine raggiunge la migliore decisione, la decisione ragionevole, «all-thingsconsidered», senza alcuna guida da parte del diritto positivo163”.
Il ragionamento giuridico implica una dimensione valutativa, dei giudizi di valore, delle opzioni etico-politiche ma rimane comunque ancorato al diritto positivo e a considerazioni legate alla cultura giuridica che è satura di diritti; ne deriva che ognuno di essi trova una potenziale limitazione in altri, essendo impensabile che uno possa
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Per ragionamento morale, l’autore di ‘Diritti e interpretazione’, intende “ricerca di un equilibrio riflessivo a partire da casi paradigmatici”. Quello giuridico, rinvia sì a forme di ragionamento morale, ma ha comunque delle implicazioni propriamente giuridiche, assenti nel primo: il peso dei precedenti (anche se nel nostro ordinamento non vige il principio del precedente vincolante, le Corti tendono a stabilizzare le risposte come contrappeso per la natura casistica del diritto per principi); il vincolo delle tecniche argomentative accreditate nella cultura giuridica presente in quel momento; il ruolo dei fattori istituzionali; la tendenza del diritto a proceduralizzare tutte le decisioni. Questi fattori hanno la funzione di stabilizzare il significato, facendo si che il ragionamento giuridico sia meno particolaristico. Cfr. PINO, Diritti e interpretazione, cit., p. 211-212.
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essere assoluto. Il campo di applicazione è infinito e indeterminabile a priori; per questo ogni volta, dalle operazioni di bilanciamento164, dalle valutazioni comparative di interessi contrapposti, difficilmente si possono avere i medesimi risultati al variare delle circostanze. Zagrebelsky alla fine del suo “diritto mite”, parla di «ragionevolezza» alludendo ad un particolare atteggiamento da parte di chi opera giuridicamente, secondo il quale devono «adattare qualcuno rispetto a qualcosa o qualcun altro», sì da evitare conflitti attraverso soluzioni che soddisfino tutti nella maggior misura consentita dalle circostanze165. Il compito della giurisprudenza consiste nella categorizzazione dei fatti alla luce dei principi che essi fanno emergere, e nella ricerca della regola da applicare, rispondente alle necessità del caso. Tale attività è tutt’altro che separata dalle esigenze di giustizia sostanziale, anzi ne è orientata e ciò determina l’introduzione inevitabile del concetto di «equità» nella vita del diritto166. In realtà la funzione giurisdizionale è sempre ancorata alla visione del diritto come coincidente con la volontà statale espressa nella legge, quindi intesa in modo del tutto indipendente dall’esigenza di adeguatezza ai casi sui quali deve decidere. La «soggezione del giudice soltanto alla legge» è un principio della tradizione liberale che viene riproposto nella nostra Costituzione che esprime l’idea del servizio passivo del giudice rispetto alla volontà del legislatore, quando invece il diritto oggi non può essere limitato solo a ciò. Sicuramente la magistratura ha una grande responsabilità nei
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La bilancia infatti, è uno dei più antichi simboli della giustizia. 165
«Ragionevole, anche nel linguaggio comune, è colui che si rende conto della necessità, in vista della coesistenza, di addivenire a composizioni in cui vi sia posto non per una sola, ma per tante ragioni». Cfr. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 203.
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Tale concetto caratterizza l’insieme del diritto ed è conseguenza della costituzionalizzazione dei diritti e dei principi di giustizia e della parallela fine dell’onnipotenza della legge. Pertanto il suo fondamento non è giusnaturalistico. Cfr. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 205.
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confronti della vita del diritto ed è garante della necessaria coesistenza tra le sue componenti: legge, diritti e giustizia167.
167
Da superare è la concezione del positivismo giuridico dello Stato liberale che riduce la giustizia alla legge, perché nega l’esistenza di strati del diritto che siano diversi dalla volontà espressa nella legge; conseguentemente la giustizia è quella che la legge riconosce come tale. La distinzione nel caso poteva valere sul piano etico, non su quello giuridico. Questo cambia con la odierna democrazia pluralista poiché la giustizia diviene una tematica da affrontare non come una questione pre- giuridica ma anzi, interna al diritto. In Costituzione, ciascuna delle parti in causa, inserisce principi che corrispondono alle proprie aspirazioni di giustizia perciò essi sono a pieno titolo nel campo giuridico. Il contenuto della legge non è ad essi vincolato, anche perché essi non sono univoci, ma esso esprime le combinazioni possibili alle quali si può addivenire. Tali principi pongono dei limiti a tale contenuto. Cfr. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 127-129
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BIBLIOGRAFIA
Libri di testo
ANDREOLI V., Il caso Serena Cruz. Un’adozione interrotta, Editori riuniti, Roma, 1994.
CATTABENI G., Un figlio venuto da lontano. Adozione e affido, Edizioni San Paolo, Milano, 2005.
CHICOINE J. F., GERMAIN P., LEMIEUX J., Genitori adottivi e