Uno degli elementi caratterizzanti l’esperienza giuridica del nostro tempo è la sua progressiva giurisdizionalizzazione e cioè l’utilizzo delle norme in funzione della cd. «legalità del caso». La regola non è più colta nella sua prescrittività ma viene guardata in base all’esperienza che è mutevole52.
Secondo l’aspetto della legalità, i fatti sottoposti ai giudici devono essere risolti in conformità a norme generali (che quindi si applicano a classi di casi) ed esse devono essere uniformemente impiegate in tutte le circostanze che ricadono nel loro campo di applicazione, senza eccezioni. I giudici perciò devono attuare il diritto e non violarlo; se risolvessero il problema giuridico in modo difforme da ciò che la norma prescrive loro, ciò costituirebbe non solo violazione di essa, che non è applicata, ma anche del principio di uguaglianza, espressamente previsto nella nostra Costituzione53, secondo cui i casi
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Si parla di “abuso del diritto” riferendosi a quello strumento offerto all’operatore pratico del diritto per introdurre un correttivo «equitativo» in un sistema costituito da enunciati formalmente posti. Esso diviene un mezzo attraverso cui l’interprete, e quindi il giudice per primo, che pur prendendo le mosse ab initio dal diritto posto, si libera dal vincolo di seguire un senso definitivo dato all’enunciato per assegnarne uno tratto da indici non individuati a priori e magari non sempre omogenei. Questo è uno dei connotati essenziali dell’esperienza giuridica odierna, di un diritto che difficilmente si esaurisce nella formalità di un enunciato e che fa i conti con la specificità del caso. Cfr. N. LIPARI, Questione Giustizia 4/2016,
Ancora sull’abuso del diritto, Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, p.
34. 53
L’art. 3 della Cost. enuncia il principio di uguaglianza formale al primo comma e quello sostanziale al secondo; il primo deve essere inteso come uguale soggezione di tutti al diritto, ciò comportando per il legislatore di operare senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche etc. per evitare discriminazioni (è
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eguali devono essere risolti allo stesso modo. Invece, secondo la dottrina dell’equità, i giudici devono sì applicare le norme generali ma devono altresì tener conto delle peculiari circostanze del singolo caso concreto e ricercare per ogni questione a loro sottoposta, la soluzione “giusta” (la giustizia del caso concreto appunto)54.
L’orientamento anti-positivista dell’ermeneutica giuridica di tipo gademariano afferma, sulla base della centralità assegnata al caso concreto oggetto di giudizio, il ruolo creativo della giurisdizione. Hans Georg Gadamer riprende la tesi di Aristotele sull’equità intesa come «giustizia del caso concreto» contrapposta all’inflessibilità della legge, sostenendo che se nel caso sottoposto al giudice si prescinde dall’esattezza rigorosa della legge, è perché facendo altrimenti non sarebbe giusto. Tale scollamento dalla legge si verifica nelle situazioni particolari sottoposte al giudizio quando l’interprete la applica e dà luogo ad una concretizzazione di essa, perfezionandola. Aristotele esprime tale aspetto quando dice che l’epieikeia (equità) è la correzione della legge55; la concepisce come un rimedio all’astrattezza di essa. Nell’Etica Nicomachea la definisce come «un correttivo del giusto legale» la cui natura mira a colmare la legge quando è insufficiente a causa del suo esprimersi in «universale».
opinione diffusa che tale elenco non sia esaustivo nel senso che vi possano essere violazioni anche al di fuori di quei casi). Il secondo comma impegna lo Stato a creare le condizioni di uguaglianza sostanziale tra i cittadini, e perciò è volto a rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale che impediscono la partecipazione dell’individuo nella vita del Paese provvedendo quindi a singoli casi per eliminare eventuali svantaggi.
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In base a ciò è spesso scartata l’interpretazione letterale ogniqualvolta che, a causa della peculiarità della controversia, l’applicazione stretta della legge avrebbe conseguenze che al giudice appaiono ingiuste. Gli interpreti secondo questa concezione, sono tenuti a privilegiare lo scopo della norma piuttosto che la lettera; lo spirito della legge prevale poiché ogni norma giuridica viene trattata come “defettibile” e quindi soggetta ad eccezioni implicite non identificabili fino al momento dell’applicazione a casi concreti. Cfr. GUASTINI, Nuovi studi
sull’interpretazione, cit., p. 44-48.
55
H. G. Gadamer, Verità e metodo (1960). Cfr. L. FERRAJOLI, Questione Giustizia 4/2016, Contro la giurisprudenza creativa, p. 18.
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Quando essa si esprime in generale, ma in concreto avviene un fatto che non rientra in tale fattispecie prevista, allora è equo emendare il legislatore; per questo l’equità sarebbe un mezzo di completamento della giustizia legale56.
Tale approccio è ripreso da Gadamer che trova l’interpretazione «un perfezionamento creativo della legge» volta a «concretizzarla» poiché essa avendo carattere generale non può contenere tutta la realtà pratica. In questo senso essa è manchevole ma non perché imperfetta in se stessa, bensì per la complessità sociale che deve regolare57. Anche questo aspetto esalta la dimensione integrativo-creatrice della giurisprudenza la quale però, non può mai affrancarsi dalla necessità di fondare le proprie decisioni su una base legale; se così non facesse, diverrebbe un fattore irrazionale e di disordine nel tessuto sociale, antitetico al quadro istituzionale dello Stato di diritto in cui si iscrive. Il compito del giudice, o di qualsiasi altro interprete della legge, consiste oggi e a maggior ragione, nel testare i limiti di elasticità dettati dalla regola posta dal legislatore, comprendere lo spazio interpretativo di volta in volta offerto dall’ordinamento, e motivare le
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Aristotele è il primo a porsi il problema dell’interpretazione della legge ed a cogliere le due facce del diritto, quella tecnica, la certezza, e quella etica, la morale. Nell’Etica Nicomachea, opera morale, constata l’insufficienza della legge dato il suo carattere rigido e astratto e suggerisce come correttivo di tali difetti, l’equità. Tuttavia, in un’opera politica, la Politica appunto, pur riaffermando che la costituzione migliore non è quella conforme alle regole scritte e alle leggi proprio per la generalità di esse, asserisce che è meglio che siano esse sovrane perché scevre dall’elemento passionale e irrazionale: “chi cerca il giusto cerca l’imparziale, e l’imparziale è la legge, sicché è necessario che essa abbia validità generale, e che i magistrati e il governo la applichino poi a singoli casi”. Ciò significa che, sul piano morale, l’attenersi alla legge è insufficiente e causa ingiustizia ma che sul piano politico essa è necessaria proprio per evitare l’ingiustizia. Anche se l’ideale sarebbe che il diritto non agisse come norma rigida, generale ed astratta ma gli uomini, quindi cittadini, governanti e giudici, lo applicassero spontaneamente, per convinzione morale o per quel civismo che essi potrebbero possedere se fossero politicamente educati, maturi e se si sapessero disciplinare da soli. Cfr. G. FASSÒ, Scritti di filosofia del diritto, Il giudice e
l’adeguamento del diritto, Giuffré, Milano, 1984, p. 1009-1010.
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H. GADAMER, Verità e metodo p. 370. Cfr. FERRAJOLI, Contro una
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scelte compiute in modo da favorire il formarsi di indirizzi giurisprudenziali coerenti58.
Di tutt’altro avviso è Ferrajoli che ritiene tale concezione
dell’applicazione equitativa della legge al caso concreto,
un’operazione non intra, ma extra, ultra o addirittura contra-legem. Egli anzi trova la forma generale e astratta delle norme capace di tener conto sia della centralità del caso concreto, sia della soggezione del giudice soltanto alla legge59. Egli distingue due tipi di argomentazione: quella interpretativa e quella equitativa. La prima ha ad oggetto la legge, o meglio le regole d’uso delle parole della lingua legale utilizzate in funzione normativa; è relativa quindi al significato delle norme da cui dipende la verità delle qualificazioni giuridiche. La seconda invece ha per oggetto i connotati peculiari, ritenuti rilevanti, che rendono il fatto giudicato diverso dagli altri, pur denominabili anche nel linguaggio giudiziario, con i medesimi appellativi della lingua legale. Il giudice infatti pone i nomina iuris dalla legge previsti quando, per i fatti sottoposti al suo giudizio, ritenga siano presenti i connotati essenziali della fattispecie astratta e generale; egli però deve altresì identificare, comprendere e conseguentemente valutare, gli aspetti specifici e singolari che di
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In ciò consiste, secondo Renato Rordorf, la funzione della moderna nomofilachia che quindi non è conservazione statica di orientamenti tradizionali, bensì capacità di governare l’evoluzione giurisprudenziale in funzione dei mutamenti sempre più accelerati della società e delle esigenze del sistema giuridico che essa esprime. Cfr. R. RORDORF, Questione Giustizia 4/2016, Editoriale, p. 5.
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Ferrajoli prende ad esempio una sentenza penale di condanna per il reato di furto, termine della lingua legale che è definito in astratto dalla legge ed utilizzato nel linguaggio giudiziario per indicare tutti i fatti che presentano gli elementi costitutivi del furto insiti nella definizione. Il giudice non giudica il furto in astratto ma quelli che accadono nella vita reale che, al di là dei loro elementi essenziali che li fanno ricondurre ad una determinata qualificazione giuridica, sono diversi l’uno dall’altro. Nel giudizio i connotati e le circostanze particolari che presenta ciascuno di essi, devono essere comprese e valutate, pur se non previsti nelle norme. È in tale comprensione che l’autore ristruttura una comunque inevitabile dimensione equitativa del giudizio che necessita di una argomentazione diversa e ulteriore rispetto a quella interpretativa. Cfr. FERRAJOLI, Contro una giurisprudenza
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volta in volta sussistono e non possono essere previsti da nessuna norma60.
I significati degli enunciati normativi, e più in generale quelli di qualunque lingua, sono quelli che si affermano nel tempo, che si consolidano e che si trasformano in base all’insieme delle loro applicazioni e quindi alle loro argomentazioni interpretative ed equitative, in riferimento a casi diversi.
Per tali motivi, secondo l’autore non ha senso contrapporre legalità ed equità: quest’ultima è una dimensione insopprimibile e fisiologica del giudizio e non consiste in un perfezionamento creativo della prima. Analizzando i provvedimenti del Tribunale dei Minorenni di Torino e quelli della Corte di Appello61, è evidente quanto essi inizialmente facciano considerazioni meramente giuridiche, richiamando profili prettamente formali legati alla legge, ma è altresì indiscutibile che essi parallelamente abbiano riguardo alla bambina in sé ed ai suoi interessi. Si può dire perciò che, nel caso di specie, gli elementi della legalità e della equità siano stati contemperati ed anzi, secondo le argomentazioni che verranno riportate qui di seguito, i giudici hanno espresso le loro decisioni apparentemente solo seguendo la legge prevista, ma è proprio in base ad essa che, a loro modo di vedere, tutelano in primis la bambina, guardando quindi anche alla giustizia del caso in sé.
Nel primo provvedimento del 7 novembre 1988, i giudici del Tribunale di Torino sezione minorenni, per prima cosa ricostruiscono analiticamente i fatti al punto 1: i coniugi Giubergia ottengono da
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Ferrajoli porta l’esempio del furto di un diamante e quello di una mela: entrambi presentano gli elementi costitutivi con cui la legge denota il reato, ma chiaramente sono diversi i connotati singolari dei due fatti.
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Le decisioni dei giudici torinesi riportate di seguito, sono state riprese in modo parzialmente completo in “Questione giustizia”, sommario n. 2, 1989, pag. 419- 434; nella versione originale ed integrale su “ASPE” (agenzia di stampa su disagio, pace e ambiente) n. 11, 4 maggio 1989, Torino.
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suddetto Tribunale regolare decreto di idoneità all’adozione internazionale e conseguentemente si recano nelle Filippine nei mesi di luglio-agosto 1985, periodo in cui ottengono in adozione un bambino; tornati in Italia viene deliberato l’affidamento pre-adottivo e perfezionato nell’autunno 1986. Tuttavia nel gennaio 1988 il suddetto Tribunale viene informato immediatamente dai servizi sociali territoriali che gli stessi coniugi hanno con loro anche un’altra bambina filippina, per la quale peraltro, non è stata avviata alcuna pratica di adozione. Così i Giubergia vengono convocati ma non si presentano, quindi richiamati e in quell’occasione sentiti dal giudice il 29 gennaio 1988. Il signor Giubergia racconta che la minore Serena è sua figlia, frutto di una relazione extraconiugale che egli ha avuto durante il primo viaggio nelle Filippine per recarsi dal figlio adottivo Nasario; egli sa della sua nascita dalla madre attraverso delle telefonate e non va subito a prenderla per impossibilità economica. Si reca da lei solo nel gennaio 1988, un anno e mezzo dopo la nascita della bambina, dato che la madre non può più prendersene cura. Nel febbraio 1988 il dichiaratosi padre presenta domanda per inserire Serena nell’ambito della propria famiglia ai sensi dell’art 252, II c., c.c.62. Date tali circostanze, a seguito anche del parere del pubblico ministero, il Tribunale ritiene esservi dubbi sulla veridicità del riconoscimento e apre un procedimento ai sensi dell’art. 74 della legge 184/198363. Viene perciò disposta una perizia ematologica il 24
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L’art. 252 c.c. al secondo comma riporta: “L’eventuale inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima di uno dei genitori può essere autorizzato dal giudice qualora ciò non sia contrario all’interesse del minore (…)”.
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L’art. 74 della l. 184/1983 così recitava: “1. Gli ufficiali di stato civile trasmettono immediatamente al competente Tribunale per i minorenni comunicazione, sottoscritta dal dichiarante, dell’avvenuto riconoscimento da parte di persona coniugata di un figlio naturale non riconosciuto dall’altro genitore. Il tribunale dispone di opportune indagini per accertare la veridicità del riconoscimento.
2. Nel caso vi siano fondati motivi per ritenere che ricorrano gli estremi dell’impugnazione del riconoscimento il Tribunale per i minorenni assume, anche
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marzo 1988 che viene reclamata ma confermata dalla Corte d’appello il 3 maggio 1988. Il 27 giugno 1988 il Tribunale fissa ulteriore esame del DNA al quale il signor Giubergia ancora non si presenta e rispetto al quale il suo avvocato, nel dismettere il mandato, chiede un rinvio. Il nuovo avvocato eccepisce che il Tribunale non può disporre indagini ai sensi dell’art 74 della predetta legge, essendo la minore, figlia riconosciuta da ambedue i genitori e deduce dei testi. Il Tribunale supera le eccezioni e fissa la perizia di nuovo il 19 luglio 1988 ma il tentativo di avere la presenza del signor Giubergia rimane vano: il consulente tecnico rimette gli atti al giudice e il pubblico ministero chiede che venga respinta la domanda di inserimento di Serena nella famiglia.
Riassunti così i fatti, al punto 2 i giudici espongono le considerazioni giuridiche che guidano la loro decisione: per prima cosa affrontano il problema della veridicità del riconoscimento poiché da un lato, non ha senso autorizzare l’ingresso nella famiglia legittima ai sensi dell’art. 252 c.c. di chi non è figlio naturale del richiedente; dall’altro, viene presa in considerazione tutta la più recente legislazione che mira a scoprire fin dal principio i casi di falsi riconoscimento, soprattutto se volti ad aggirare le norme sulla adozione, al fine di stroncare il fenomeno del mercato dei bambini ed assicurare la corrispondenza tra rapporto giuridico di filiazione e realtà naturalistica del rapporto, quindi la corrispondenza tra forma e sostanza, al di là del riferimento, ormai superato, a presunzioni assolute64.
d’ufficio, i provvedimenti di cui all’art. 264 secondo comma del codice civile”. Cfr. FIASCHETTI, CROCE, HASSAN, Un bambino da scoprire, cit., p. 144. 64
Sono intervenuti mutamenti profondi nella nozione sociologica di famiglia ed in particolare l’avere figli è sempre meno considerato essere una benedizione divina e tende a divenire il risultato di una scelta consapevole. Parallelamente emerge la consapevolezza che la filiazione è un dato biologico ma anche affettivo e che non sempre le due situazioni coincidono. Si è affermato un nuovo assetto della struttura
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Inoltre, secondo l’art. 74 della legge 184/198365, il Tribunale minorile ha il potere-dovere di svolgere indagini sulla veridicità del riconoscimento e tale potere non è limitato al caso in cui il minore non sia riconosciuto dall’altro genitore (ipotesi per la quale gli ufficiali dello stato civile ai sensi del comma I del suddetto articolo, hanno l’obbligo di segnalarla automaticamente al Tribunale) ma può disporre indagini per il solo fatto di avere dubbi al riguardo. Ciò si evince dal secondo comma del citato articolo seguendo un’interpretazione analogica dello stesso: la situazione del riconoscimento fatto da entrambi i genitori ma abbandonato dall’uno e ceduto al secondo (e in questo caso anche al coniuge di lui), è identica a quella in cui viene effettuato da uno solo; perciò l’applicazione di conseguenze processuali differenti sarebbe ingiustificata e altresì incostituzionale per violazione del principio di eguaglianza.
Date tali premesse, segue la conclusione su questo primo aspetto analizzato da parte del Tribunale che conclude che il riconoscimento di Serena effettuato da Giubergia Francesco è sicuramente falso per i seguenti motivi:
a)è davvero impensabile che il signor Giubergia, valutato attentamente nel corso della procedura internazionale come marito e futuro padre adottivo, abbia avuto una relazione con la donna
familiare e del rapporto di filiazione: il minore è diventato sempre più soggetto di diritti e il concetto di “famiglia degli affetti” ha affiancato quello di “famiglia di sangue” con la conseguenza che c’è assoluta coincidenza giuridica tra filiazione biologica e filiazione adottiva, sì che i genitori adottivi sono tali allo stesso titolo di quelli naturali. Cfr. L. PEPINO, Questione giustizia, sommario n. 2, 1989, p. 434- 440.
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Tale articolo cerca di porre un argine al fenomeno del riconoscimento utilizzato strumentalmente per l’adozione di bambini abbandonati: la coppia che voleva realizzare questa sorta di «adozione» si accorda con la madre biologica in modo che il figlio fosse riconosciuto come nato da una relazione extraconiugale del marito; dopodiché la madre naturale deve dichiarare di voler restare ignota e questo consente il successivo inserimento del bambino nella famiglia di colui che lo aveva riconosciuto. Cfr. L. PEPINO, Questione giustizia, cit., 440-444.
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filippina proprio nei giorni in cui, con la moglie, era là per prendere in adozione il loro primo bimbo;
b) è impensabile che, se relazione c’è stata, sia stata tale da far sì che la donna filippina abbia conservato il numero telefonico del signor Giubergia. Appare inverosimile che in pochi giorni la donna si sia legata così stabilmente ad uno sconosciuto straniero, presente in quel luogo con la moglie per adottare un figlio; o c’è un piano di programmazione di una futura nascita oppure il mantenimento del legame è assurdo;
c) se la madre naturale non può tenere la figlia, quindi chiama il padre naturale (il signor Giubergia), il Tribunale si chiede perché egli aspetta fino a gennaio del 1988, un anno e mezzo dopo la nascita, per andarla a prendere, e conseguentemente si domanda per quale motivo ha permesso che la propria figlia, desiderata dato che poi l’ha presa con sé, rimanesse così tanto tempo negli istituti del luogo;
d) il signor Giubergia aspetta la perfezione della prima adozione per poi andare a prendere Serena e questo per averne una seconda ma con una scorciatoia, il falso riconoscimento appunto, probabilmente dato il timore che il Tribunale non concedesse, come succede talvolta, l’idoneità per una seconda adozione;
e) la cattiva coscienza e la paura del signor Giubergia sono provate anche dal fatto che egli chiede l’inserimento di Serena nella famiglia legittima solo nel febbraio 1988 e dopo esser stato convocato dal giudice, altrimenti non lo avrebbe mai fatto; successivamente tenta di prender tempo, sollevando eccezioni varie, per creare una situazione che divenisse col passare dei mesi, dal punto di vista umano, irreversibile;
f) la prova decisiva è il rifiuto di sottoporsi alla perizia ematologica: egli è libero di farlo e il Tribunale però si ritiene altrettanto libero di trarre da tale comportamento la conseguenza che se egli ha preso tale
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decisione è per evitarne l’espletamento che porterebbe all’emergere di un risultato non in linea con la dichiarata paternità naturale.
All’ultimo punto (il terzo) del provvedimento, il Tribunale conclude: a) ai sensi dell’art. 252 del codice civile, non va autorizzato l’ingresso di Serena nella famiglia legittima di Giubergia Francesco; poiché la minore già si trova lì, deve essere allontanata;
b) ai sensi dell’art. 74 della legge 184/1983, va nominato un curatore per l’impugnazione, nella dovuta sede, del falso riconoscimento; c) Serena, abbandonata dalla madre, che l’ha ceduta al preteso padre senza più assolutamente occuparsene, è altresì priva di figura paterna conosciuta (dato che il signor Giubergia non è quello biologico), perciò ella si trova priva di assistenza materiale e morale da parte dei suoi genitori e parenti naturali. Legalmente lo ha ma il Tribunale nega che rimanga con lui in applicazione proprio degli articoli 252 del codice civile e dell’art. 74 della legge 184/1983, pertanto deve aprirsi