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Bugari o l’orgoglio di essere seljak

L’ANTROPOLOGO, IL CAMPO E LE SUE STORIE

2.4. Bugari o l’orgoglio di essere seljak

Antropologo: «Sto facendo ricerca a Gradišće, sulla collina sopra alla discarica Rača...»

Dado (Fotoreporter): «Sai come li chiamiamo noi? Bugari... e non in senso buono, anche se nessuno sa perché...».

Šerifa (Laureanda in Scienze della Comunicazione): «Ma dove è questo posto? Ah, lassù in collina... oddio quelli sono seljaci,239 vivono come Neanderthal!».

Benjamin (Guida turistica): «Noooo... attento a non diventare un seljak anche tu... sai che quelli dei villaggi sono seljačina240... quando vengono in città li riconosci subito».

Nermin (Bibliotecario): «Hai già imparato a parlare come loro241? Non starai diventando uno dei

Bugari anche tu?».

Queste sono solo alcune espressioni, sicuramente non le più accese e colorite, della reazione di amici e conoscenti della città, alla notizia dell’indagine antropologica sulle colline di Gradišće, presso Zenica.

Da qualsiasi prospettiva la si guardi, essere un «seljak» (abitante di villaggio, contadino) significa rappresentare una categoria divisiva. Nel corso di questo paragrafo, partendo da un’analisi etimologica del termine Bugari (bulgari) affibbiato agli abitanti di Gradišće, cercherò di approfondire alcuni tratti caratteristici (trasformatisi spesso in vere e proprie fratture) tra «građani» e «seljaci» (cittadini e rurali), tra abitanti di Zenica e di Gradišće, con l’obiettivo di mettere in luce punti di vista differenti, che non si possono risolvere nella banale (seppur utile) dicotomia tra grad e selo (città e villaggi; cfr. Rumiz, 2011).

Una scritta in vernice rossa campeggia sopra un garage, a distanza di poche centinaia di metri dalla piazzetta di Gradišće: «B U G A R I» recita, riprendendo l’appellativo dispregiativo con cui gli abitanti di Zenica sono soliti definire gli abitanti del villaggio (fig. 18). Leggere questa scritta mi ha portato a riflettere sulla discrasia narrata tra la percezione che gli stessi gradišćani hanno di loro

239 Abitanti dei villaggi. Al singolare seljak, spesso utilizzato in senso dispregiativo come sinonimo di individuo, retrogrado e arrogante.

240 Villani, primitivi, rozzi nel senso più dispregiativo del termine. A volte seljačina e seljak sono utilizzati come sinonimi in senso negativo. Mentre però seljak può avere anche una connotazione di valore neutro, seljačina esprime concetti fortemente denigratori.

stessi e la visione opposta e poco benevola che altri, siano essi abitanti di Zenica o dei villaggi vicini, hanno di costoro.

Stereotipicamente associati a comportamenti riottosi e violenti, indomabili attaccabrighe, amanti dell’alcool e delle donne, inclini a una vita dissoluta condotta a cavallo tra legalità e illegalità, l’essere considerati Bugari prende le mosse da una concezione popolare secondo cui l’uomo bulgaro sarebbe depositario di questo tipo di caratteristiche lontane dalla «civiltà». Questo cliché è andato rafforzandosi durante la Guerra Fredda quando la Bulgaria, nell’orbita URSS, veniva considerata il vicino Balcanico «povero e arretrato rispetto al relativo benessere Jugoslavo» (Prof. Šabanović, C.P., 02/03/2019). L’aggettivo sostantivante «Bugari» è entrato nel linguaggio pubblico e utilizzato come aggettivo denigratorio (soprattutto in Serbia), proprio in riferimento a una situazione di povertà, di criminalità diffusa e di temperamento fuori dalle righe (Gudić, 2017)242.

Secondo Kasim e Suad, gradišćani alla soglia della sessantina, la genesi dell’appellativo:

Viene dalla kafana (bar/locale) «Grill» [oggi «Dani», N.d.A.] che sta giù a Tetovo243... quante bevute, quante serate, quanti casini... quelli di Tetovo noi li chiamavamo Žabare (mangia-rane), come a voi italiani, perché hanno il canale che passa vicino e c’erano tante rane... loro allora ci hanno iniziati a chiamare Bugari perché abbiamo un po’ il sangue zigano sai, siamo sempre in gruppo, un po’ siamo grezzi (sirovni)... quando ci ritrovavamo nei bar facciamo casino... daj mi pivo e ooopa dernek! (dammi una birra e via con la festa!). Molto spesso succedevano risse per via dell’alcool sai... (ridendo senza rancore) per questo nostro modo di fare, sempre al limite, ci chiamano così... e adesso per tutti siamo Bugari [Kasim e Suad, R., 16/03/2019]

Durante il lavoro in miniera, è capitato di lavorare con squadre dei villaggi limitrofi a Gradišće e ascoltare le loro ragioni riguardo alla diffusione di questo termine squalificante. Il ritratto che ne è uscito, seppur poco lusinghiero, è indicativo di una comunità forte e coesa:

I Bugari sono così... li chiamiamo Bugari perché gli piace bere, sono prevarant (bugiardi, imbroglioni), arrivano in 15, 20 e iniziano a bere, fare casino, se tocchi uno, subito arrivano parenti, cugini o vicini... sono pericolosi e ignoranti... quello è il loro problema, la maggior

242 https://www.quora.com/What-do-the-Balkan-nations-think-of-each-other-What-are-the-stereotype 243 Villaggio confinante.

parte ha fatto solo la osnovna škola (le elementari)... molti hanno perso tutto con alcol, macchine, ville, droga, puttane... non credevano che il ferro della Rača dopo un po’ finisse! [Said, abitante di Lokvine, 5 km da Gradišće, C.P., 05/02/2019]

I Bugari sono Bugari... maleducati e nepismeni (analfabeti), 7 su 10 sono stronzi insopportabili... è con loro che ho avuto i problemi quando avevo il bar... venivano tutti in compagnia, bevevano e poi facevano casini (belaj) e c’erano sempre risse, botte... spendevano tutto in cazzate... è per colpa loro che ho chiuso il bar, era diventato impossibile lavorare... ogni sera doveva venire la Polizia e alla fine ho dovuto chiudere! Bastardi

Bugari!

[RZ. [1965], Minatore, ex titolare di una kafana (locale, bar) nel villaggio di Pojske, C.P., 28/11/2018]

Queste e molte altre storie, popolano l’immaginario collettivo di diverse generazioni, in particolare di coloro che, tra gli inizi degli anni Duemila e la metà degli anni ‘10, arricchitisi con il ferro disponevano di grandi quantità di denaro, «investito» solitamente nel divertimento. Non sorprende che, in momenti di arricchimento vertiginoso tramite metodi informali, gli «estrattori artigianali [...] spendano la maggior parte dei loro guadagni per alcool e droghe. Costoro spiegano il loro comportamento per “avere la forza di continuare a fare questo duro lavoro”» (Van de Camp, 2016: 276).

Un personaggio notevole, decisamente fuori dalle righe che fu tra i primi a lanciarsi nel business dell’estrazione meccanizzata del ferro nella discarica Rača, durante una interminabile serata tra carne alla griglia e rakija šljiva (acquavite alla prugna) descrisse in questo modo le montagne di soldi usciti dalle tasche dei Bugari in quegli anni:

I soldi che ho visto io e gli altri come me che lavoravano a Rača estraendo ferro, mia madre e mio padre insieme non li hanno mai visti in tutta la loro vita... mai... ti parlo senza esagerare di 5, 6 milioni di KM che ho speso in 5 anni... non mi sono fatto mancare niente, tre case, auto nuove, donne, piscina, viaggi... che dovevo fare? 14 anni al Biro (Ufficio di collocamento) senza mai una chiamata... lo Stato non si è mai posto il problema di come facevo a dar da mangiare ai miei figli, quindi mi sono detto... lavora finché ce n’è, spendi finché ce n’è... e io ho speso tutto!

L’appellativo con cui sono riconosciuti a Zenica gli abitanti di Gradišće, secondo l’attuale Presidente della Comunità Locale, Mustafa Hinović [1988] eletto nel marzo 2018, rappresenta un retaggio del passato che, nonostante oggi venga scardinato in parte dall’innalzamento del livello d’istruzione, in alcuni casi (anche numerosi) ha finito per imprimere nei giovani del villaggio un atteggiamento da riprodurre al fine di mantenere viva quella tensione anti-sistemica, strettamente comunitaria e foriera di una paventata specificità:

Il fatto di essere chiamati Bugari viene da voci malevoli, da alcuni casi di cronaca che sono accaduti nel passato... atteggiamenti che vengono poi generalizzati all’intera comunità... ci portiamo dietro lo stereotipo di criminali e persone cattive ma ora non è più così... oggi è diverso, la gente va fuori a studiare e si laurea! Non tutti sono bravi è normale... certi ragazzi prendono strade sbagliate... quando c’è stata l’espansione dell’estrazione del ferro alla discarica [fino al 2015, N.d.A.], si guadagnava molto bene... così, alcuni nostri giovani sono finiti nella strada sbagliata (scuotendo la testa)... hanno visto nella discarica il loro futuro per 90, 100 KM al giorno (45, 50 €) hanno lasciato la scuola, il lavoro... a loro giustificazione bisogna dire che, se avessero lavorato in una privatna firma (azienda privata), non avrebbero visto mai quei soldi!

[Mustafa Hinović, Presidente della MZ Gradišće, R., 22/06/2019]

Per la gente del villaggio, l’essere Bugari sembra mettere in luce dei caratteri polivalenti, oscillanti tra l’orgoglio di rappresentare un soggetto monolitico, unito, temuto, e l’essere portatori di valori rurali tradizionali, di un senso di sacrificio fuori dal comune e di una dedizione al lavoro difficilmente riscontrabile in città. Allo stesso tempo il pregiudizio negativo degli abitanti della città o di coloro che hanno lasciato il villaggio per trasferirsi altrove, alimentano quella retorica oppositiva che ha come unico effetto quello di rafforzare in misura ancora maggiore l’adesione a valori e norme che ricadono al di fuori dei confini di liceità, producendo quel fenomeno conosciuto come «profezia che si autoadempie» (Merton, 1971).

L’idea di possedere una mentalità del tutto unica e peculiare pervade i discorsi sia na Brdo (sulla collina, tra i minatori) che nel villaggio, diventando così una sorta di tropo transgenerazionale. Per MO., 24 anni, finito u jamu (in miniera sotterranea) subito dopo il diploma tecnico-industriale, l’essere considerato un Bugar è motivo d’orgoglio perché:

Ci viene portato più rispetto quando siamo in città, ci guardano in modo diverso non so come dirti... tutti dicono che è così quando arriviamo noi Bugari... in città ci andiamo per le pitčke (volg. per ragazze), per la festa... per il resto è meglio lavorare da Bugari qui sulla collina, piuttosto che da robovi (schiavi) in città!

(Guardandosi negli occhi coi colleghi ER. e SDM., scoppiando in una fragorosa risata alla

mia domanda se non avessero mai pensato di fare qualche lavoro in regola, come il cameriere, che in città è una professione molto ricercata) Ahahah Luka non dire cazzate!

Ma sei serio? Ma ci vedi a noi a fare i camerieri in città? Dalle miniere al ristorante a servire la gente?!? Mai nella vita!

[MO., Minatore, C.P., 27/02/2019]

L’essere considerato Bugar si traduce per Senad Bašić, Consigliere Comunale di Zenica in quota al SDA, nell’essere un «poseban narod» (popolo speciale) in quanto «portatori di una mentalità specifica di Gradišće, di noi Bugari... non ci spaventa nessuno, non abbiamo timore di dire niente a nessuno... soprattutto di dire la verità anche quando è scomoda e pericolosa» (R., 14/04/2019). Se l’idea di comunità coesa, solidale, aperta e leale nei rapporti di vicinato è esaltata da più parti, è pur vero che, come in tutte le comunità, non mancano le criticità e i conflitti.

Se per Hinović, Presidente della MZ «a Gradišće la gente è più coesa e si aiuta l’un l’altro e le relazioni umane sono migliori che altrove», per un veterano di Guerra che ha abbandonato il paese per lavoro, i Bugari sono:

Dei veri seljaci, sanno solo lamentarsi e parlare male... siamo stati bravi soldati durante la Guerra, ma... cosa fare in tempo di pace? C’è gente a Gradišće che non si è adattata alla pace e cerca sempre colpevoli dei propri fallimenti... allora spettegoliamo e diciamo falsità... sì... solo pettegolezzi e bugie nel villaggio... sai che qui sono girati tanti soldi, milioni... facevano la bella vita... ma quando finisce tutto? Allora la colpa è di chi ha studiato, dei politici, del SDA, dello Stato, cerchiamo sempre un colpevole (battendosi

violentemente la mano sulla fronte in segno di disperazione)... la verità è che la maggior

parte della gente è nepismen (analfabeta), non ha finito nemmeno le elementari... l’ignoranza è il problema di Gradišće

La discrasie tra le diverse anime e le differenti percezioni del sé che si ritrovano all’interno del villaggio, sembrano conciliarsi su un tema specifico, che è in fondo il filo conduttore di tutto il progetto di ricerca e che permea la vita nel villaggio: il lavoro.

È proprio intorno a questo tema cardinale e all’attitudine al sacrificio, che nell’etnografia affiorano prepotentemente profonde linee di frattura (sia immaginate che reali) tra città e villaggio.

Seduti in uno dei bar centrali della čaršija (centro storico), all’ombra del kineski zid, la «muraglia cinese» di grattacieli che protegge il centro città, sorseggiando lentamente un caffè con Safet P. laureato in lingua e letteratura turca all’Università di Istanbul -disoccupato da più di due anni-, discutiamo animatamente sui valori che dovrebbero guidare l’individuo nella vita: «Non basta solamente lavorare e mangiare, l’uomo ha bisogno di curare la sua anima, il suo spirito, il suo corpo, i suoi interessi... non possiamo pensare che gente nel nostro Paese lavori così [come minatori abusivi, N.d.A.]... sono eroi, d’accordo, ma devono trovare la loro umanità, devono essere tutelati e difesi, non solo considerate bestie impiegate per lavorare». Da parte di Safet, uno splendido esempio di quella che viene chiamata «čaršijska filozofija» (lett. filosofia della città; modo di intendere le cose da parte dell’abitante della città), intrisa di umanesimo e di sentimenti alti che sembra però impattare frontalmente con la stessa idea di vita che smuove gli abitanti del villaggio, guidandoli nelle loro scelte lavorative.

I giovani minatori illegali di Gradišće, rivendicando orgogliosamente il proprio sforzo e il proprio sacrificio in un’attività altamente deleteria e pericolosa, rimarcano le differenze tra attitudine e disposizione all’ingrata fatica a cui si adattano sulla collina, in antitesi all’indolenza e alla querimonia attribuite ai pigri costumi della gioventù urbana. Il disprezzo da parte dei Bugari dei giovani della città, impegnati -a detta loro- «a sprecare il loro tempo e i soldi di famiglia nei bar della čaršija» [ZK. [1996], C.P., 29/01/2019], li pone in una condizione di superiorità, in quanto: «Solo uno che fa fatica come noi può parlare e lamentarsi... uno che sta seduto al bar e che nemmeno sa cosa vuol dire fare un lavoro duro come il minatore, non può lamentarsi... e fidati che Zenica è pieno di gente così... di ragazzi della nostra età che non lavorano perché non cercano, non hanno voglia di fare niente... che si fottano tutti!» [Ibid.].

Allo stesso modo è senz’altro vero che l’accesso al mondo del lavoro nero sulla collina metallifera si è sviluppato in maniera esclusivista, chiusa, limitata all’ambiente familiare, amicale o del

con la vicinanza alle risorse naturali e all’intreccio di politica, religione, deregolamentazione e assenza di presenza statale.

L’idea di lavoro nell’economia morale del villaggio è centrale; elemento cardine della «seljačka

menalitet» (mentalità rurale/contadina)244 secondo la quale: «Tutti i seliaci sanno fare tutto... quando sei nei campi o sulla montagna e ti capita che si rompe qualcosa devi saperlo aggiustare senza chiamare qualcuno... è la nostra arte di arrangiarsi (da se snalazi) da soli, imparare guardando i più vecchi e adattarsi alle varie situazioni senza lamentarsi troppo e inutilmente... samo radi! (lavora e basta!)» (Ređo, ex-pastore ed ex-minatore abusivo, C.P., 22/01/2019).

Secondo Muharem Okan l’etica del lavoro per i seljaci è addirittura qualcosa di costitutivo di una presunta «essenza biologica», che li rende «geneticamente lavoratori perché, come vedi tutti i giorni anche tu, la gente qui lavora come nessuno al mondo! Mi, narod (noi, popolo) amiamo lavorare... l’uomo è uomo perché lavora» (C.P., 05/05/2019)

Arte di sapersi arrangiare, creatività, poliedricità, spirito di adattamento sono le parole d’ordine che governano l’esistenza dei lavoratori in questo specifico contesto rurale, spaziando dall’occuparsi dei campi alla meccanica, dall’allevare le bestie a estrarre ferro, dal tagliare i boschi ai lavori edili fai-da-te. Ancor più cruciale rispetto a questo aspetto, è la consapevolezza della centralità e dell’esaltazione delle variegate competenze (multi-skill diremmo oggi) apprese nel corso della vita al villaggio:

Davvero noi bosanci (bosniaci) riusciamo a inventare modi per fare certi lavori, per andare avanti facendoci le cose da noi... questa cosa l’non ho vista da altre parti... molti europei credono che questo sia un modo solo per sopravvivere ma hvala Bogu (grazie a Dio) qualcosa ti resta, ti rimane in tasca... oggi faccio una gettata, domani vado a fare fieno, dopodomani raccolgo la verdura, al mattino vado in miniera... facciamo tutto! Ma le nuove generazioni non sono così... biježi od lopate k’o đavo od Krsta (scappano dalla vanga come il diavolo da Cristo)... solo smartphone e feisbuk (facebook)

[Z., abitante del villaggio di Obrenovci, C.P., 22/07/2019]

Una volta presentate queste caratteristiche, apparirà meno sorprendente come, secondo il Prof. Džananović, sarebbero proprio i seljaci (abitanti del villaggio) a «incarnare il “vero uomo bosniaco”, quello che fa da sé, che sa fare tutto in qualche modo, anche in nero o illegalmente, e 244 In parte giustapposta alla čaršijska filozofija.

che porta avanti le proprie ragioni fino a mettersi di traverso rispetto all’ordine costituito, in una sorta di continuità con gli Hajduci245 che dai villaggi combattevano lo Stato di diritto» (C.P., 20/09/2018).

Nella definizione dell’autorevole Hrvatski jezični portal (portale di lingua croata) il selo (villaggio) si configura come «un insediamento di base dove la gente vive occupandosi prevalentemente della coltivazione della terra e di altre risorse naturali» (2020).

Nel corso del secolo appena trascorso, l’universo di significati legati al concetto di selo e seljak è andato via via mutando, in un contesto che ha vissuto un fortissimo processo di urbanizzazione a partire dagli anni ’50 del Novecento (Džananović, 2017). Se il rapporto tra abitanti dei villaggi (seljaci) e abitanti delle città nella Jugoslavija socialista fu fondante (Bringa, 1997: 87), esso contribuì a diffondere una concezione rigidamente imbrigliata in categorie dicotomiche tese a definire la popolazione «in base ai termini kulturni e nekulturni ovverosia coloro che hanno cultura e quelli che non l’hanno. [...] Essere l’uno o l’altro si riferisce a un’idea più ampia di antagonismo sociologico e antropologico che vede contrapposte città e villaggi, gente che ha studiato (školovanje) e gente che non l’ha fatto (nepismeni e polupismeni), poveri e ricchi, Occidente progredito e Balcani arretrati» (ibid.: 73).

Dal punto di vista degli abitanti della città, coloro che vivono nel selo sarebbero i rappresentanti di valori premoderni, superati, portatori di un atteggiamento incivile e irrispettoso delle norme della città, poveri e precari, in bilico tra lavoro saltuario nei campi, disoccupazione e mansioni ingrate (Bringa, 1995). Una sorta di sub-umanizzazione della popolazione rurale. Nel gergo, il corrispettivo insultante di nekulturan è infatti seljaćina (stessa radice di selo), villano, incivile, maleducato. Allo stesso modo, il termine seljak (contadino, abitante del selo) a seconda dei contesti e in particolar modo in città, viene utilizzato in tono insultante, incarnando quell’insieme di atteggiamenti arroganti, irrispettosi e lontani dalle presunte «buone maniere» urbane. Al fine di rimarcare la differenza tra abitanti del centro e abitanti dei villaggi, nel linguaggio comune vengono usate due espressioni differenti per indicare se un individuo viene dall’urbe: «Sam iz Zenice», rispetto a un seljak zeničano proveniente dalle zone rurali. In questo caso si è soliti dire: «Sam od

Zenice».

Analizzando alcuni fattori di carattere strutturale, sia il Prof. L. sia il Prof. Kukić, Rettore dell’Università di Zenica, si ritrovano concordi nel rintracciare la genesi dell’impianto oppositivo tra città e villaggi in una prospettiva storico-ecologica di più ampio respiro:

Mi sembra doveroso dire proprio a un antropologo che la città ha le sue regole che la fanno funzionare: in città si vive fianco a fianco gli uni con gli altri, devi essere tollerante, è la

gradska kultura (cultura della città)... nel villaggio non sei così vicino... il tuo komšija

(vicino di casa) è magari a 30, 50, 100 metri... lì puoi fare quello che vuoi. In città no! [Prof. Kukić, R., 21/06/2019]

Un detto popolare dice: «Možeš istjerati seljaka iz sela, ali selo iz seljaka nikad» (puoi scacciare il contadino dal villaggio, ma il villaggio dal contadino mai)... il contadino non è pronto al mutamento, non accetta le regole della città... qui l’immondizia si porta nei contenitori mentre è raro che nei villaggi ci siano, perché devi pagare per il servizio e loro non ne vogliono sapere... così buttano i rifiuti nel bosco (facendo un gesto leggero con la

mano come a gettare qualcosa), un po’ distante da dove si vive... ma quello che dà più

fastidio alle persone urbane è che la legge, le logiche del villaggio sono arrivate in città insieme ai seljaci che sono giunti qui [i rifugiati dei villaggi a maggioranza musulmana durante la Guerra, N.d.A.]... prima i lavoratori, i proletari non pensavano come un seljak! Si lavorava insieme, non era importante la nazionalità o la religione mentre per i seljaci che lavorano isolati nei campi, queste cose hanno molta rilevanza... e questo è preoccupante! [Prof. L., R., 22/11/2018]

Viene quindi sottolineata da più fronti la potenza della cosiddetta mentalità del villaggio (seljačka

mentalitet) impostasi in città a partire dalla rivoluzione demografica che ha seguito la pulizia etnica,

portando, secondo autorevoli testimonianze:

A perdere l’urbanità di questa città, visto che le norme e le tradizioni religiose hanno preso ormai il sopravvento... il Ramazan, il cannone, i grandi Iftar gratuiti per la città... questo non è più carattere urbano (iniziando ad arrossire mentre schiaccia una sigaretta ancora a

metà), questa è una vera e propria imposizione della ruralna kultura (cultura rurale)