L’ANTROPOLOGO, IL CAMPO E LE SUE STORIE
2.2. Vivere il campo: un rapporto dialettico, uno scarto irriducibile
Alcuni aspetti importanti che hanno condizionato l’etnografia sui minatori, tra cui la decisione di lavorare sia sottoterra che a cielo aperto, il fatto di presentarmi come antropologo e allo steso tempo come manodopera gratuita, le difficoltà di comprendere il senso della ricerca da parte dei compagni di miniera, il malessere dell’abitudine, lo scarto tra il mio orizzonte di lavoro «a tempo determinato» e la realtà di coloro che continuativamente rischiano di non vedere più la luce del sole, sono solo alcune delle questioni che hanno dato vita a una serie di interrogativi che meritano di essere esplorati, mettendo a tema l’esperienza etnografica e facendola dialogare con la teoria metodologica.
Scosso dalla lettura di Writing Cultures (1986), inserito teoricamente nel filone post-modernista, in cui il significato di «etnografia» rimanda a un complesso processo di costruzione del campo e di negoziazione dello stesso con i soggetti a cui ci avviciniamo, intendo il spazio etnografico in cui si muove il ricercatore come «finzione nel senso di qualcosa di fatto, fabbricato» (Fabietti, 1999). È vero che nella prima tradizione antropologica i testi hanno eliminato dal discorso le modalità di costruzione di questo spazio, le modalità di interazione con i soggetti di studio (Malighetti & Molinari, 2016) e l’autorità dell’antropologo-autore (Geertz, 1988; Harstrup, 1992), rendendo opache le modalità del processo conoscitivo. Dal punto di vista metodologico, ritengo opportuno partire dall’insegnamento che ci proviene dall’ermeneutica (Gadamer, 1965; Heidegger, 1927; Ricoeur, 1977), dall’epistemologia, dalle scienze cognitive e in parte dalla stessa antropologia -attraverso i suoi vari approcci critici postcoloniali, subalterni, postmoderni (Asad, 1973; Behar, 1996; Bourdieu, 2003; Clifford, 1983; Clifford & Marcus, 1986; Geertz, 1973; Said, 1978; Spivak, 2010; Wittgenstein, 1967)- i quali hanno dimostrato che l’immedesimazione totale è inattuabile nella pratica, mettendo ancora una volta in luce «l’intrinseca asimmetria» (Malighetti, 2004) e radicando la consapevolezza del ricercatore di non poter essere uno-di-loro (Carlotti, 2017). D’accordo con Trencher (1998: 126), questa asserzione sembra essere più un commento sull’impossibilità dell’empatia totale generalizzabile alla condizione umana, piuttosto che peculiare alla disciplina antropologica.
Nella pratica etnografica, il rapporto instaurato sul campo deve necessariamente prevedere il processo di costruzione di un ambiente comunicativo e dialogico con gli interlocutori (Tarabusi in Urbinati, 2008). Nel mio caso, ho trovato conferma di questo modo di vivere e di co-costituire il
campo, partendo dalle etnografie di Piasere (2002) e Long (1992). Nel lavoro di quest’ultimo, prende piede l’idea che «una buona etnografia, deve ripudiare l’idea di un osservatore distaccato e oggettivo; all’opposto essa implica il trattamento dettagliato dei mondi della vita del ricercatore che oltrepassano il mero momento di studio» (Long in Urbinati, 2008: 26).
Non limitarsi ai soli dati del proprio lavoro, ma porre sé stessi se non al centro, come parte integrante del processo di conoscenza antropologica (Borutti, 1999: 41), significa mettere in atto un processo di negoziazione tra le posizioni del ricercatore e quelle degli interlocutori, entrambe frutto dei rispettivi orizzonti di genere, d’età, di tratti della personalità, delle idiosincrasie, dello status sociale e delle posizioni politiche (Crapanzano, 1980; Fabietti, 1998; Rabinow, 1977; Rosaldo, 1993).
Quanto detto finora, cerca di chiarire come il presente lavoro, a differenza delle monografie di epoca classica -in cui il posizionamento dell’accademico veniva dato una volta per tutte e il campo d’azione presentato come auto evidente e non problematico- sia invece il risultato di una continua opera di «bricolage intellettuale» (Malighetti, 2004), in cui verranno messe a critica le processualità, i cortocircuiti, le negoziazioni e gli inciampi, autentici motori della conoscenza antropologica. Volendo mostrare al lettore i punti di partenza, le soste, le criticità incontrate durante il percorso ho cercato di rifuggire quella che è stata definita da Berreman (1962) «la congiura del silenzio», intesa come omissione delle tecniche di raccolta dei dati sul campo, cercando contestualmente di rendere al lettore i passaggi cruciali dell’esperienza etnografica.
Mettere a tema il proprio lavoro, interrogandone i dilemmi etici, politici e morali che porta con sé, oltre che uno sforzo analitico riflessivo all’interno del moto ermeneutico conoscitivo (Clifford, 1988), mi è apparsa una necessità di onestà intellettuale in grado di fare emergere i limiti oggettivi e soggettivi della ricerca stessa.
Lo sguardo del ricercatore sul campo non è mai solo: proiettatosi «fuori dalla tenda», incontra altri sguardi e il suo orecchio s’inserisce in flussi discorsivi multipli e stratificati (Carlotti, 2017). Se è vero che molti di quegli sguardi, atti e discorsi possono prescindere dalla sua presenza, non si può ignorare che buona parte sono indotti proprio dal suo essere lì, in quanto egli e le sue pratiche sono fatti oggetto di discorso altrui (ibid.). Siamo estranei, stranieri e le implicazioni delle nostre azioni come antropologi hanno dunque importanti conseguenze sul nostro essere nel campo (Bourgois, 2002).
Secondo alcuni colleghi dell’Università di Zenica, proprio il fatto che fossi straniero tra i minatori mi avrebbe di fatto «aperto delle porte che a noi locali sarebbero state senz’altro precluse... il fatto che sei italiano, crea come una barriera e permette di aprirsi ma con una distanza di sicurezza per loro... cosa che con noi non sarebbe mai stata possibile» (Džananović, C.P., 20/09/2018). L’esteriorità e la novità della figura del ricercatore forestiero avrebbe in questo caso favorito l’accesso al campo, piuttosto che esserne fonte di limitazione.
Fuori dalla zona franca del sé, «gettato nel mondo» del proprio campo d’indagine209, l’etnografo avanza per tentativi, prove, errori, gaffe, imbarazzi, ritrovandosi non di rado (questo è vero almeno nel mio caso) a dover prendere decisioni importanti nel giro di pochi, velocissimi attimi, rimandando l’analisi delle conseguenze delle proprie azioni a un secondo momento (Behar, 1996). Dovendo fare i conti con l’alterità e un tessuto sociale a lui estraneo, all’interno di realtà estremamente complesse quali sono per definizione le società umane, anche uno dei padri della disciplina cercò di ottenere dai propri maestri una bussola con cui potersi orientare dignitosamente sul campo... con scarsi risultati.
Alla ricerca di indicazioni sulle regole etiche da seguire una volta giunto a destinazione, Edward Evan Evans-Pritchard in appendice al suo Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (1937), riporta alcuni consigli fornitigli da alcuni dei più importanti etnografi dell’epoca:
L’intelligente antropologo austro-americano Paul Radin ha sostenuto che nessuno sa bene come procedere nel lavoro sul campo. Forse dovremmo accontentarci di questo tipo di risposta [...]. Chiesi consigli a Westermark. Tutto ciò che ottenni fu: «Non conversare con un informatore per più di venti minuti, perché a quel punto se non sei stufo tu, lo sarà lui». Consiglio molto valido anche se insufficiente. Ho cercato istruzioni da Huddon, uno fra gli uomini più importanti della ricerca sul campo. Mi disse che era tutto piuttosto semplice: bisognava comportarsi come un gentiluomo. Anche questo era un ottimo consiglio. Il mio maestro, Seligman mi suggerì di [...] tenermi lontano dalle donne [...]. Infine, chiesi a Malinowski e mi sentii rispondere che non avrei dovuto fare l’idiota
[E. E. Evans-Pritchard 1937: 285]
Nel caso del progetto dottorale in esame, l’aspetto etico e l’esplicitazione delle processualità che hanno portato alla stesura del manoscritto diventano tanto più cruciali quanto spinose trattandosi di una ricerca che è venuta modellandosi in un contesto lavorativo illegale.
Nell’arco dell’etnografia inoltre, sono emerse dalle testimonianze e dalle storie di vita, criticità e abusi legate ai diritti dei lavoratori all’interno del più grande gruppo siderurgico mondiale, l’ArcelorMittal, al sistema di corruzione endemico negli apparati istituzionali e, in generale, una profonda insofferenza nei confronti dell’assetto partitocratico nazionalmente tripartito che dovrebbe guidare il Paese. Queste situazioni politicamente ed eticamente «scottanti», così come il soggetto principale di studio, ossia le comunità di minatori informali di carbone, pongono inevitabilmente alcuni interrogativi fondamentali per il ricercatore, che si riflettono in maniera più o meno diretta sui suoi interlocutori e nondimeno sull’istituzione universitaria che rappresenta, sia in patria che in loco.
Affascinato dalle etnografie di Sherry B. Ortner, Sheper-Huges, Gupta & Ferguson, di Bourgois (in particolare della sua monografia sugli spacciatori di crack dell’East Harlem e dai suoi scritti metodologici), vorrei in questa sede porre l’accento sulle questioni etico-morali che hanno accompagnato la mia permanenza in BiH, mettendole in relazione con le cornici teoretiche in cui si è mosso il filone critico della ricerca antropologica in contesti abitativi, lavorativi e giuridici ambigui e marginali, dove liceità e illegalità si mescolano fino a confondersi (Staid & Aime, 2017). Concentrandomi su alcune questioni chiave che hanno investito la ricerca in oggetto, vorrei quindi sottoporre al lettore le difficoltà, le problematiche, le ripercussioni e in generale le antilogie che si manifestano quando si parla del posizionamento dell’antropologo in ambienti illegali (Piasere, 2002; Spivak, 2010).
Nel saggio Confronting Anthropological Ethics: Ethnographic Lessons from Central America (1990) Bourgois, analizzando le implicazioni morali e politiche delle sue ricerche nel continente americano, invita a riflettere sui limiti stessi di alcuni dilemmi etici che circondano il metodo antropologico e, nello specifico, a ragionare sulle modalità che sono andate consolidandosi nella pratica etnografica:
Ci preoccupiamo se i nostri soggetti di ricerca abbiano veramente acconsentito in modo «informato» al nostro studio; meditiamo sull'onestà della nostra presentazione di sé; condanniamo la distorsione nell'economia locale causata dalle risorse che vi iniettiamo
sotto forma di doni o salari; [...] esaminiamo le nostre emozioni introspettivamente per osservare i riflessi dell'etnocentrismo; [...] ci sentiamo in colpa per violare la privacy dei nostri informatori [...]; non scattiamo fotografie indiscriminatamente e non registriamo senza previa autorizzazione; [...] infine ci preoccupiamo di non compromettere l'accesso di futuri colleghi al nostro campo di ricerca con le nostre azioni e pubblicazioni
[Bourgois, 1990: 44-45]
Secondo l’autore, le maglie dell’etica antropologica, oltre ad essere arbitrariamente disegnate in modo troppo ristretto, possono essere soggette a interpretazioni estremamente rigide e ipocrite, il che le pone in decisa incompatibilità con lo sforzo analitico e investigativo di alcuni contesti permeati da conflitti, disuguaglianze di potere, situazioni di illegalità diffusa (Trencher, 1998). Una tensione di fondo sembra aleggiare sulla pratica antropologica nel suo insieme, imponendo una seria riflessione: dobbiamo cercare di instaurare relazioni a lungo termine, basate sulla fiducia, vivere e lavorare nel luogo di ricerca, diventare intimamente coinvolti con le persone che studiamo ma allo stesso modo conciliare alcuni importanti aspetti etici, non violando i canoni della ricerca, basati sulla privacy, sul consenso informato, su liberatorie da distribuire per la diffusione di immagini e registrazioni dei nostri interlocutori (Bourgois, 1990).
Quale sarebbe, dunque, il modo più adeguato per assottigliare lo scarto tra me e l’altro, nel particolare contesto etnografico tra i minatori informali di carbone di Zenica?
In quanto ricercatore straniero in un contesto extra-legale, fu chiaro fin dal principio che la mia presenza avrebbe potuto causare problemi e complicare seriamente la già precaria situazione dei lavoratori della collina, per i quali l’estrazione di carbone rappresenta sovente l’unica entrata all’interno del nucleo famigliare.
A posteriori, una decisione chiave nell’economia della ricerca è stata quella di accettare senza riserve di scendere nelle jame, ossia nelle miniere sotterranee. In generale, dividendomi tra lavori di setacciamento all’aperto e carico delle vasche da bagno u rupu (nel buco), è andata crescendo quella fiducia necessaria a guadagnare un pieno accesso al campo e all’intimità dei discorsi e dell’atmosfera underground che altrimenti non avrei avuto modo di esperire.
Da parte mia non v’è stato posto per una eccessiva preoccupazione legata alla mia incolumità fisica o legale: ciò è dipeso in gran parte dalla travolgente quotidianità, dalla routine, dall’abitudine che immagino molti antropologi impegnati in un terreno di ricerca prolungata abbiano provato e che
contribuisce, nel tempo, a rendere assolutamente «normali» cose altrimenti extra-ordinarie (Malinowski, 1922).
Per quanto riguarda «l’autorità antropologica», processualmente è andata dunque legittimandosi nel fare un lavoro-con-loro. La sveglia alle 5.15, il tragitto di un’ora e un quarto a piedi210 (a seconda delle condizioni climatiche) per raggiungere le miniere, il respirare polvere di carbone, la spalla destra escoriata dai carichi da 50 kg da trasportare sul camion, il lavorare coi piedi immersi nel fango e i geloni dovuti al ghiaccio penetrante dell’inverno: queste ho ritenuto essere le modalità più adatte per costruire quell’autorità che, pur «nella complessa asimmetria» (Malighetti, 2003: 143), potessero portare a quella cosiddetta «impregnazione» intesa come dispositivo metodologico cardine della pratica etnografica (Piasere, 2002).
L’esperienza al limite, in un contesto estrattivo non regolamentato ha rappresentato per il ricercatore un periodo relativamente limitato di vita (un anno) ed è inserita in un più ampio di lavoro triennale orientato alla tesi finale. Per molti minatori tuttavia, le disumane condizioni di lavoro in miniera costituiscono una prospettiva di lungo termine e pertanto rappresentano una quotidianità necessaria in relazione al mantenimento di sé e della propria famiglia. È quindi inevitabile che gli orizzonti dell’antropologo e dei rudari (minatori), per quanto se ne ricerchi la «fusione» (Geertz, 1987), siano destinati a viaggiare su binari paralleli.
La pratica dell’impregnazione mi ha consentito di stringere amicizie, visitare le famiglie dei minatori, incontrare le loro mogli, figli, fratelli, conoscenti, sentire la loro versione dei fatti riguardo a questo logorante lavoro, frequentare eventi religiosi, feste, matrimoni in cui sono stato presentato semplicemente per quello che ero: «Un italiano, che fa ricerca per l’Università sulle miniere della Brdo... on je naš, teško radi k’o nas od ekipe... samo džaba! (lui è uno di noi, lavora duro come noi della squadra... però gratis!)» (Z., C.P., 21/05/2019).
Durante tutto l’arco dell’anno, oltre che nel villaggio di Gradišće, dove è situata la collina metallifera, ho trascorso parte del tempo nel tessuto urbano della città, entrando in relazione con professori, politici locali, sindacati, ministri, studenti, ex lavoratori e lavoratrici della ŽZ,
210 Da Busto Arsizio (VA), dove risiedo, ho raggiunto Zenica con il bus, mezzo privilegiato per gli spostamenti nella penisola balcanica dove il trasporto pubblico e privato via terra risulta estremamente efficiente e capillare. Il sogno di comprarmi una Golf 2, auto molto comune e considerata indistruttibile, è andato infrangendosi per via dei costi e le difficoltà di re-immatricolazione in Italia. Così, per tutto l’anno mi sono mosso solamente a piedi, in autobus, con taxi illegali o a bordo di camion per il trasporto di carbone. Di ritorno dalle miniere al «Dom», quasi sempre ho utilizzato l’intramontabile autostop.
partecipando a riunioni istituzionali e a qualche lezione in Università. Questa serie di attività si sono concentrate, come dimostrano le date di registrazioni dei colloqui, nei mesi estivi (prevalentemente da giugno ad agosto 2019), quando la maggior parte delle attività estrattive subiscono una brusca frenata per via del calo della domanda di carbone per riscaldamento da parte dei privati.
La mia idea di antropologia mi ha portato a privilegiare un approccio informale anche nel caso degli incontri più istituzionali utilizzando solo raramente un canovaccio già prestabilito in partenza. Nessuna intervista strutturata211 dunque. Ritengo che la «profondità» che spesso segue nella nostra disciplina la parola «intervista» possa essere perseguita anche (e forse maggiormente) attraverso la creazione di un rapporto continuativo con l’interlocutore piuttosto che attraverso una serie di domande ben assestate ma «one shot».
Questione di punti di vista, credo...
Taccuino in mano e registratore all’occorrenza, con professori, ministri, Presidenti di sindacato e operai si è quasi sempre iniziato a discorrere dell’ultima partita del Čelik, delle bellezze della BiH, delle sue donne212 dell’immancabile meteo, di piccole inezie che sono il modo in cui rompere il ghiaccio, stemperare l’emozione e gettare le basi per una relazione che possa in un secondo momento andare a toccare le corde dell’argomento oggetto d’indagine.
Vale la pensa sottolineare che questo tipo di incontri, con la presenza di registratore e taccuino, non è stato lontanamente immaginabile sulla collina, durante le ore di lavoro in miniera. Lì, tutto veniva rimandato alla memoria e all’esperienza diretta, riportate freneticamente la sera, una volta rincasato nel tepore dell’orfanotrofio «Dom Porodica», consapevole delle inevitabili mancanze che questo avrebbe comportato. Per evitare fraintendimenti, nel taccuino utilizzato in miniera riportavo solamente le bitne riječi, le parole importanti che fanno parte del vocabolario tecnico estrattivo, facendomi aiutare dagli stessi minatore nella trascrizione che, per quanto superflua nella maggior parte dei casi, dava loro cognizione di ciò che andavo appuntando nella loro lingua. Questa strategia
211 Su novantasette incontri registrati con i più svariati personaggi, solo tre hanno presentato una traccia-guida preparata in precedenza: con il Sig. D. membro del Comitato nazionale anticorruzione, con la Ministra Šabanović, la quale ha declinato le mie domande a «un tempo in cui potrà rispondermi» in quanto insediatasi da soli tre mesi dal nostro incontro, e con il Presidente del Sindacato dei metalmeccanici del Cantone e Vicepresidente della stessa categoria a livello federale, Kenan Mujkanović.
212 Gli interlocutori con cui ho interagito, ad eccezione della Ministra del Lavoro del Cantone Amra Šabanović, di una impiegata dell’Ufficio di collocamento e delle madri, mogli o figlie dei minatori, sono stati in larghissima maggioranza di genere maschile.
credo sia stata premiamente e, sopratutto nelle tre miniere in cui ho trascorso la maggior parte dei mesi di lavoro, col tempo ha reso il taccuino una sorta di comico feticcio da estrarre quando venivano utilizzate espressioni gergali e circosctitte al mondo minerario e delle zone rurali, in maniera tale da alleggerire la pressione e la (giustificata) preoccupazione per ciò che andavo scrivendo sul campo.
Per quanto riguarda l’aspetto più propriamente giuridico-legale, lungi dall’essere disonesto nell’esposizione degli obiettivi di ricerca alle autorità bosniache, ho sottoposto all’Ufficio del Lavoro per stranieri del Ministero della Sicurezza la richiesta di un permesso di soggiorno per studenti, della durata di un anno, per svolgere un progetto di Dottorato di carattere antropologico avente i seguenti temi principali: «La transizione all’economia capitalista a seguito della privatizzazione della Željezara Zenica; l’indagine di forme alternative di sussistenza nel nuovo deregolamentato modello di produzione neoliberista; l’approfondimento di nuove prospettive lavorative nel contesto post-bellico, post-socialista, post-industriale della città di Zenica e dintorni»213.
Se nel villaggio e sulla collina il proposito di avvicinarmi alle figure dei minatori privati per il lavoro accademico (a cui sarebbe seguita una pubblicazione) era ovviamente esplicitato, totale riserbo ho ritenuto di dover mantenere sull’argomento specifico degli estrattori illegali ad autorità, media e conoscenti per via del timore delle ripercussioni che questo avrebbe potuto avere sull’incolumità dei minatori stessi e delle loro famiglie.
Mio malgrado, la volontà di mantenere un basso profilo è andata scontrandosi fin da subito con un’inaspettata mediatizzazione della figura di ricercatore, primo PhD Student straniero iscritto all’Università di Zenica. La riservatezza auspicata è stata messa a dura prova, in maniera del tutto imponderabile, da dirette televisive, interviste radiofoniche, articoli di giornale e su portali di informazione, da incontri pubblici su temi legati alla politica e nazionalismo e dalla partecipazione (nel giugno 2019) a un documentario di Al Jazeera sul passato e il presente industriale della città. Questa serie di eventi ha causato in me un grande stress e in certi periodi (in particolare nel febbraio e nel luglio 2019) una sorta di burnout, in cui mi sono sentito ingabbiato da un lato da un’improvvisa quanto imbarazzante e relativa popolarità dovuta alle sortite mediatiche e agli incontri pubblici cui sono stato invitato a partecipare come relatore, dall’altro dal fatto di mettere
a repentaglio la fiducia costruita con mesi di lavoro fianco a fianco con i minatori sulla collina, dovuta al timore che la mia presenza in città portasse in qualche modo le autorità a perseguire con più incisività le ben note attività estrattive abusive.
In particolare, a seconda del contesto in cui mi trovassi, la mia reputazione oscillava tra due estremi, entrambi ricchi di implicazioni teoriche e pratiche: sulla collina ero inizialmente considerato una spia (probabilmente qualcuno lo penserà ancora adesso); in città all’interno di un’arena mediatica fatta di giornali, televisioni, Università e circoli culturali ero più spesso definito «un’autorità internazionale, esperto di BiH e delle questioni del popolo bosniaco», come recitava il volantino