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c) Norme elastiche in materia di licenziamento

Nel documento Il controllo giudiziale sui licenziamenti (pagine 62-74)

Dai codici dell’ottocento (dal Code civil al BGB) fino alle colonne del nostro codice (del 1942) è tutto un susseguirsi di norme elastiche. Quali esempi di “clausole generali”134 si sogliono portare, la giusta causa o il giustificato motivo

da porre a base del licenziamento, la buona fede, il buon costume, la causalità, la non scarsa rilevanza dell’inadempimento, la concorrenza sleale, lo stato di necessità, ecc.. I concetti giuridici indeterminati, in sostanza, garantiscono la flessibilità dell’ordinamento giuridico, sia nel senso dell’adattabilità alle circostanze del caso concreto da decidere, sia nel senso del mantenimento di una sua attualità pur nel trascorrere del tempo.

La qualifica di norma elastica, in particolare135, non viene riferita ad «ogni

disposizione contenente un’espressione di significato non preciso o comunque tale da non poter essere interpretata con un semplice procedimento logico di sussunzione», quanto piuttosto esclusivamente a quelle norme «con cui il

133 CARINCI,DE LUCA TAMAJO,TOSI,TREU, op. cit., Torino, 2011, 326 e s..

134 Sul tema si veda M. DE CRISTOFARO, Sindacato di legittimità sull’applicazione dei “concetti

giuridici indeterminati” e decisione immediata della causa nel merito, in Foro It., 1999, parte I, c.

1912.

135 Cfr. FABIANI, Sindacato della Corte di cassazione sulle norme elastiche e giusta causa di

legislatore delega al giudice una scelta assiologica» richiamando il loro «contenuto elastico […] giudizi di valore in sede applicativa»136.

Elasticità della giusta causa

L’art. 2119 cod. civ. autorizza ciascuna delle parti a recedere per giusta causa dal contratto “qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. La giurisprudenza, dal canto suo, evitando di delineare rigidi confini in ordine alla rilevanza di comportamenti estranei alla sfera contrattuale, insiste sulla necessità di una valutazione complessiva ed in concreto delle singole fattispecie. Ai fini della sussistenza della giusta causa – si sostiene – che non è sufficiente una valutazione in astratto, ma occorre verificare se – tenuto conto della natura e qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, delle mansioni espletate, del particolare grado di fiducia connesso alla struttura dell’impresa o alla qualifica rivestita nonché della intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo – la mancanza commessa, per le sue modalità soggettive e oggettive, si riveli talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto137. In questo giudizio valutativo

trova applicazione un criterio di sussidiarietà, per effetto del quale il recesso per giusta causa viene legittimato soltanto nelle ipotesi in cui il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o le minori sanzioni disciplinari risultino inadeguate138. Ne consegue che il giudizio circa la gravità delle infrazioni

136 Afferma la Suprema Corte che “l’art. 2119 c.c., tipica "norma elastica" contenente la nozione di "giusta causa" del licenziamento, la cui operatività in concreta deve necessariamente rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale (a cominciare dai principi costituzionali) e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (Cass. 04 dicembre 2002, n. 17208, in Giust. civ. Mass., 2002, 2116).

137 Cass., 7 gennaio 2003, n. 28, in Giust. civ. Mass., 2003, 12; Cass., 27 settembre 2002, n. 14041, in Giust. civ. Mass., 2002, 1740; Cass., 24 giugno 2000, n. 8631, in Giust. civ. Mass., 2000, 1397; Cass., 23 giugno 2000, n. 8568, in Giust. civ. Mass., 2000, 1388; Cass., 2 giugno 2000, n. 7394, in

Giust. civ. Mass., 2000, 1205; Cass., 14 luglio 1989, n. 3330, in Giust. civ. Mass., 1989, fasc. 7; Cass.,

22 ottobre 1993, n. 10503, in Giust. civ. Mass., 1993, 1501; A conferma dell’elasticità del concetto di giusta causa Cass., 25 maggio 1995, n. 5742, in Giust. civ. Mass., 1995, 1062, confrontata con Cass. 25 maggio 1995, n. 5753, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 153 ss..

138 Cass. 27 gennaio 2004, n. 1475, in Giust. civ. Mass., 2004, 1; Cass., 23 giugno 1998, n. 6216, in

commesse dal lavoratore subordinato e la loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento implica un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, la cui valutazione è incensurabile in Cassazione se priva di errori logici o giuridici139.

La giusta causa ed i comportamenti ‘esterni’ al rapporto

Parte della dottrina140 e della giurisprudenza141 ravvisa la giusta causa non

soltanto in un gravissimo inadempimento degli obblighi contrattuali, ma anche in qualsiasi altra circostanza o situazione esterna al rapporto di lavoro, verificatasi nella sfera del lavoratore ed idonea a ledere il vincolo di fiducia tra le parti e perciò ad impedire la prosecuzione del rapporto.

Da altri la giusta causa viene identificata esclusivamente con un vistoso inadempimento degli obblighi contrattuali, imputabile a colpa o dolo del prestatore, a nulla rilevando fatti ‘esterni’ al rapporto ed in particolare comportamenti che rientrano nella vita privata del dipendente o che attengono ai rapporti personali con il datore di lavoro.

La prima tesi viene tra l’altro supportata con argomenti testuali. Un primo argomento è che l’art. 9 della legge sull’impiego privato (R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825) – antesignano dell’art. 2119 cod. civ. – alludeva ad una ‘mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto’, mentre il codice civile del 1942, pur ripetendo l’antica formula, ha sostituito il termine ‘mancanza’ con quello più ampio e neutro di ‘causa’: il passaggio dalla mera ‘mancanza’ – che evoca in maniera esaustiva il concetto di inadempimento – alla generica nozione di ‘causa’, accrediterebbe appunto l’attuale maggiore ampiezza delle ragioni legittimanti il licenziamento in tronco. Analogamente si argomenta a contrario dall’art. 3 della L. n. 604/1966 che – a

139 Cass., 22 giugno 2009, n. 14586, in Giust. civ. Mass., 2009, 6, 959.

140 F.SANTORO PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, 13. ed., Napoli, E. Jovene, 1961, 192 e s.. 141 Cass. 19 dicembre 2000, n. 15919, in Giust. civ. Mass., 2000, 2618; Cass. 7 novembre 2000, n. 14466, in Giust. civ. Mass., 2000, 2269; Cass. 4 settembre 1999, n. 9354, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, 346.

differenza della definizione di giusta causa contenuta nell’art. 2119 cod. civ. – fa espressamente riferimento all’ ‘inadempimento’ contrattuale per individuare il ‘giustificato motivo soggettivo’.

In effetti, almeno in determinate ipotesi, fatti o comportamenti apparentemente estranei alla sfera contrattuale e magari attinenti alla vita privata del lavoratore possono compromettere l’elemento fiduciario e quindi essere invocati ai fini della ricorrenza della giusta causa142.

Basti pensare alla guardia giurata che viene sorpresa a rubare al di fuori del rapporto di lavoro, o alla lavoratrice, addetta ad un supermercato, condannata per il reato di furto commesso dalla medesima in altro supermercato143 o al

cassiere di banca che commette un reato contro il patrimonio (ad es. appropriazione indebita) in danno di terzi ovvero che sia imputato di consumo di spaccio di droga144. A ben vedere, però, in questi ed in altri consimili casi il

fatto o comportamento ‘esterno’ ha rilievo in quanto finisce con l’incidere sulla aspettativa e sulla probabilità di un esatto adempimento, per il futuro, della obbligazione lavorativa. Non basta, dunque, che sia pregiudicato un generico rapporto fiduciario o che sia messa in discussione la compatibilità personale tra datore e prestatore di lavoro, ma occorre che venga meno la fiducia nella puntualità dei successivi adempimenti, elemento generalmente rilevante in tutti i contratti di durata (v. ad es. l’art. 1564 cod. civ. sulla risoluzione del contratto di somministrazione). Poiché quindi la ‘dipendenza’ del lavoratore non comporta un vincolo che investe l’intera persona del prestatore, questi non può essere sanzionato per circostanze estranee all’adempimento contrattuale e magari attinenti alla sfera personale o alla vita privata (visto anche il generale divieto di cui all’art. 8 St. lav.), salvo che tali circostanze non si ripercuotano sulla aspettativa di adempimento e salvo che, per la natura della prestazione (si pensi ad es. a coloro che identificano e promuovono l’immagine dell’impresa),

142 Cass., 14 luglio 2001, n. 9590, in Notiziario giur. lav., 2001, 798.

143 Cass., 22 ottobre 1993, n. 10505, in Arch. civ., 1994, 292; Cass. 3 ottobre 1988, n. 5321, in

Orient. giur. lav., 1988, 1071.

entrino nella causa o nell’oggetto del contratto attitudini anche soggettive e personali del lavoratore ovvero un certo grado di compatibilità personale. Per ricordare, a conferma di quanto detto, una fattispecie che ha frequentemente interessato la giurisprudenza, le ingiurie o le offese profferite dal lavoratore nei confronti del datore o di suoi rappresentanti hanno rilievo soltanto sul piano penale e non sul versante del rapporto di lavoro, se attengano solo alla sfera dei rapporti civili e sociali. Se, invece, per le circostanze in cui le offese sono profferite in azienda, innanzi a compagni di lavoro, in risposta ad un ordine impartito, ecc., v’è motivo di ritenere che esse implichino altresì un rifiuto attuale o potenziale di adempiere le direttive datoriali ovvero il venire meno, anche solo potenziale, di un atteggiamento disciplinato sul piano dello svolgimento del rapporto di lavoro. Un simile comportamento irriguardoso assume rilevanza ai fini della fiducia nel puntuale adempimento degli obblighi lavorativi145.

L’interpretazione della legge in connessione alle particolarità del caso concreto

L’analisi giurisprudenziale riportata dimostra che la giusta causa ed il giustificato motivo rappresentano parametri certamente elastici e malleabili. Tuttavia, afferma Nogler, grazie al modo in cui sono enunciati e al contesto sistematico (dogmatico) in cui devono essere inseriti, essi non possono, ed invero non vengono, intesi alla stregua di pure formule procedurali che rinviano al giudice il bilanciamento in concreto degli interessi contrapposti146.

Malgrado le sempre più ricorrenti denunce sull’incertezza giuridica provocata dai mutevoli orientamenti giurisprudenziali – segno di una cultura giuridica che stenta ancora a ragionare, anche dal punto di vista dei vincoli per lo meno argomentativi, nei termini del diritto vivente – si assite ad un trend che qualifica

145 Cass., 24 maggio 2001, n. 7091, in Mass. giur. lav., 2001, 792.

146 M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1991, 58; M.T. CARINCI, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato: ragioni tecniche,

organizzative, produttive (e sostitutive) come limite a poteri e libertà del datore di lavoro, Padova,

le «causali» di licenziamento come clausole generali. A tale scopo è, in realtà, sufficiente il ricorso – nella nostra ipotesi più appropriato – al concetto di norma elastica. In sostanza, si postula l’esistenza di «specificazioni del parametro normativo», si attribuisce loro una natura giuridica e si conclude nel senso che possono essere utilizzate come parametro dell’error in iudicando147.

Ragionando in tal modo, si parte dall’inconfessato presupposto che le «specificazioni del parametro normativo» o gli «standards valutativi esistenti nella realtà sociale»148 siano esterni ed indipendenti dalla disposizione

legislativa presa in considerazione (art. 2119 c.c.), che assume al più la funzione di rendere possibile un bilanciamento giudiziale di principi (costituzionali)149.

Ad es., nel caso di specie giudicato da Cass. n. 3645/1999150, il giudice di merito,

nel valutare legittimo il licenziamento di un impiegato di banca per l’uso di sostanze stupefacenti, aveva dato, secondo la Cassazione, erroneamente la prevalenza all’interesse datoriale all’espulsione del lavoratore dall’ambiente di lavoro (art. 41 Cost.), omettendo di prendere in considerazione la «specificazione del parametro normativo» costituita dal rispetto del diritto del lavoratore a reinserirsi nell’ambiente stesso (art. 4 Cost.). Ma allo stesso risultato della censurabilità della sentenza di merito si poteva giungere mantenendosi nell’ambito delle possibilità interpretative del criterio di bilanciamento contenuto nell’art. 2119 c.c.e, quindi, rispettivamente: (a) se si riteneva di dover prender le mosse dal classico richiamo alla fiducia, si poteva chiarire che quest’ultima riguarda solo i fatti rilevanti ai fini dell’idoneità professionale del lavoratore; (b) se, invece, come dovrebbe essere, si prescinde dalla fiducia, si poteva porre la questione dal punto di vista della

147 Cass., 21 novembre 2000 n. 15004, in Notiziario giur. Lav., 2001, 213. 148 Cass., 18 gennaio 1999 n. 434, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 441.

149 nel senso del bilanciamento tra gli artt. 4 e 41: Cost. Cass., 02 novembre 2005 n. 21213, in

Giust. civ. Mass., 2005, 10; Cass., 04 dicembre 2002 n. 17208, in Giust. civ. Mass., 2002, 2116.

puntualizzazione interpretativa del notevolissimo151, oppure, secondo un’altra

variabile, del solo notevole152, inadempimento degli obblighi contrattuali del

lavoratore. Il ragionamento avrebbe potuto continuare specificando, da un lato, che il lavorare non ha un obbligo di mantenere nella vita privata una condotta rispondente ad un certo standard di moralità (e tanto meno quella imposta dal datore di lavoro) e, dall’altro, che obblighi di protezione ulteriori rispetto a quelli regolati dall’art. 2105 c.c. possono nascere solo in connessione ad ipotesi particolari di lavoro.

La Cassazione scopre, in realtà, il dato (innegabile alla luce della nota teoria del circolo ermeneutico di Gadamer) che l’interpretazione della legge necessita di essere condotta in connessione alle particolarità del caso concreto153. Sicché già

in sede interpretativa vi è spesso la necessità di entrare nel merito del caso di specie, peraltro al sol fine di puntualizzare la fattispecie legislativa ovvero di individuare il criterio o la regola di giudizio (per usare il linguaggio della Cassazione: «i canoni generali e astratti»).

Ciò comporta – prosegue Noegler – l’opportunità di ridisegnare l’ambito del sindacato di legittimità a scapito di quello di incensurabilità del giudizio di merito che si riferisce alla riconduzione del caso nell’ambito della regola (astratta) di giudizio. Ma tutto ciò non determina la necessità di partire sempre dal presupposto che la norma di riferimento assegni «un notevole ambito di discrezionalità» al giudice154 rimuovendo il vincolo di legge che riguarda, non

151 G. PERA, La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, Cedam, 1980, 63; FERGOLA, La teoria del

recesso e il rapporto di lavoro, Milano, A. Giuffrè, 1985, 309.

152 M. NAPOLI, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, F. Angeli, 1980, 141 e ss..

153 Cfr. Cass., 15 aprile 2005 n. 7838, in Giust. civ. Mass., 2005, 4, secondo cui la soluzione del singolo caso partecipa al processo interpretativo «nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma».

154 Cass., 02 novembre 2005 n. 21213, in Giust. civ. Mass., 2005, 10, secondo cui “Nell'esprimere il

giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica, il giudice di merito compie un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile della disposizione che il legislatore ha voluto tale onde adeguarla ad un determinato contesto storico”; sulla qualificazione come norma elastica v. anche,

solo l’enunciato linguistico della disposizione, ma anche il controllo sistematico imposto dal principio kantiano di universalizzazione («l’esigenza di giustizia, che vuole un trattamento uguale dei casi oggettivamente uguali»), il quale impone che la soluzione valutativa ipotizzata passi al vaglio della dimostrazione della capacità, pur in presenza della regola considerata, di tenere insieme tutto il complesso sistematico155. Il senso d’arbitrio, evocato dalle stesse belle formule

della «civiltà del lavoro» o della «coscienza generale», conclude Noegler, è proprio figlio della manchevole analisi dogmatica degli ambiti di riferimento dei dati normativi che viene avallata con il criticabile uso troppo disinvolto del concetto di clausola generale156.

Standard valutativi della realtà sociale e principi generali: il diritto vivente

In Italia, il dibattito sulle clausole generali ha conosciuto stagioni di straordinario approfondimento negli anni sessanta e, più di recente, alla fine degli anni novanta157.

Nell’ultimo decennio, l’asse dell’attenzione si è spostata dal diritto interno al diritto comunitario a causa del consolidarsi di una pluralità di ordinamenti e di sistemi (da quello comunitario al sistema Cedu) che si intrecciano e si sovrappongono con i sistemi nazionali. Il pluralismo delle fonti (anche di origine non statuale) ed il pluralismo culturale e sociale che è sotteso alle norme elastiche ha sempre suscitato dei timori (sotto il profilo della gerarchia delle fonti). Da qui la necessità di porre al centro della riflessione il tema del controllo sulla argomentazione giuridica.

Il sindacato giudiziale conduce a censurare le valutazioni tecniche che appaiono senz’altro inattendibili, attraverso un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica del provvedimento datoriale.

155 Cfr. LUIGI MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica: saggi, Milano, Giuffrè, 1996, 33. 156 L. NOGLER, op. cit., 2007, 593 ss..

157 P. RESCIGNO, Le clausole generali: dalle codificazioni moderne alla prassi giurisprudenziale, in L. CABELLA PISU, L. NANNI (a cura di), op. cit., Cedam, Padova, 1998, 29.

La prima, è certamente una funzione di limite. In sistemi a costituzione rigida (come la nostra) c’è un limite alla possibilità di assumere nell’ordinamento giuridico ciò che è ritenuto socialmente tipico: il dato non deve confliggere con i principi, in primo luogo con quelli di natura costituzionale158.

Il problema si pone, però, quando due principi, di rango costituzionale, entrano in conflitto fra di loro (si pensi alla libertà d’impresa, tutelata dall’art. 41 Cost., con l’interesse del lavoratore, tutelato dall’art. 4 Cost.). In questi casi, com’è noto, occorre effettuare un bilanciamento tra i principi istituendo tra i due principi in conflitto una gerarchia assiologica mobile159. Una gerarchia

assiologica «consiste nell’accordare ad uno dei due principi confliggenti un maggior peso, ossia un maggior valore, rispetto all’altro; […] in questo contesto bilanciare non significa contemperare, conciliare […]. Il bilanciamento consiste piuttosto nel sacrificare o scartare un principio, applicando l’altro».

Molto si è scritto per esempio sul limite evocato dal II comma del’art. 41 Cost. che in passato veniva richiamato anche per imporre ‘la condizione minima di legittimità’160. Superata questa impostazione con il riconoscimento che il limite

in parola è riferito al solo legislatore161, si assiste a null’altro che ad

un’applicazione dei principi della ragionevolezza e della proporzionalità che, invero, non richiederebbero neppure di essere esplicitamente richiamati. Nell’elenco dei limiti di cui al II comma dell’art 41 Cost., dopo l’utilità sociale,

158 Sul tema si veda S. RODOTÀ, La tecnica legislativa per clausole generali in Italia, in L. CABELLA PISU, L. NANNI (a cura di), op. cit., 39.

159 Si veda in tal senso: Cass., 04 dicembre 2002, n. 17208, che nel valutare la legittimità di un licenziamento comminato per giusta causa afferma: “…il giudice di merito non può trascurare i

principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell'interesse del lavoratore, protetto dall'art. 4 Cost., con quello dell'impresa datrice di lavoro, tutelato dall'art. 41 Cost., bilanciamento che, anche nel caso presente, si compendia nel criterio - dettato dall'art. 2106 c.c. - della "proporzionalità" della sanzione disciplinare all'infrazione contestata”.

160 Quale limite immediatamente operativo nei confronti dei poteri datoriali: U. NATOLI, Limiti

costituzionali dell'autonomia privata nel rapporto di lavoro, Camerino, Centro stampa Universita

di Camerino, 1982, 97 e ss..

161 MANCINI, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, Milano, A. Giuffrè, 1962-1965, 234 ss.; D’ANTONA, op. cit., 1979. 72-73.

viene richiamata la ‘sicurezza’ che viene tradizionalmente intesa come tutela dell’integrità fisica.

Infine vengono in considerazione la ‘libertà’ e la ‘dignità umana’ che a differenza degli altri due termini impongono la previsione legislativa di una serie di limiti dettati dal coinvolgimento della personalità umana nella vicenda del licenziamento162.

Una gerarchia mobile, d’altro lato, «è una relazione di valore instabile, mutevole, che vale per il caso concreto, ma che potrebbe invertirsi in relazione ad un caso concreto diverso. […]. Ne consegue che il conflitto non è risolto stabilmente, una volta per tutte, facendo senz’altro prevalere uno dei due principi confliggenti sull’altro; ogni soluzione del conflitto vale solo per il caso concreto, e resta pertanto imprevedibile la soluzione dello stesso conflitto in casi futuri»163.

Precisazioni che inducono a prendere atto che il richiamo ai principi non assicura, di per sé, l’uniformità delle decisioni o, addirittura, la certezza del diritto. Ma il riferimento ai principi opera, anche, in modo diverso; quale supporto all’attività integrativa del giudice di merito. La Suprema Corte, fin dal 1998164, ha elaborato, infatti, una serie di principi (in tema di giusta causa) che

devono servire da guida per l’operatore di diritto. In particolare, la Corte ha chiarito che: nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica:

162 L. NOGLER, op. cit., 2007, 593 ss..

163 Sul tema si veda R. GUASTINI, Principi di diritto e discrezionalità giudiziale, L. CABELLA PISU, L. NANNI (a cura di), op. cit., 85.

164 Cass., 22 ottobre 1998, n. 10514, in Giust. civ. Mass., 1998, 2156 e Cass., 18 gennaio 1999, n. 434, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 441, secondo cui “I giudizi di valore compiuti ai fini della

qualificazione di un comportamento ai sensi di norme "elastiche" che indichino solo parametri generali presuppongono da parte del giudice un'attività di integrazione giuridica della norma, a cui viene data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico - sociale. Ne consegue la censurabilità in cassazione di tali giudizi quando gli stessi si pongano in contrasto con i principi dell'ordinamento (espressi dalla giurisdizione di legittimità) e quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale - riassumibili nella nozione di civiltà del lavoro, riguardo alla disciplina del lavoro subordinato - che concorrono con detti principi a comporre il

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