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a) Il collegato lavoro e le tipizzazioni della contrattazione collettiva

Nel documento Il controllo giudiziale sui licenziamenti (pagine 138-146)

L'accertamento in sede giudiziale del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, come pure della giusta causa, è comunque reso più agevole dal fatto che i contratti collettivi provvedono usualmente ad indicare le mancanze che possono legittimare la risoluzione del rapporto di lavoro. Tuttavia già prima della riforma del 2010 Rocella faceva notare come, per giurisprudenza costante, l'elencazione nei contratti collettivi dei comportamenti che costituirebbero giusta causa o giustificato motivo di licenziamento deve considerarsi meramente esemplificativa e non vincolante per l'interprete317, cosicché

quest'ultimo resta libero di negare la sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa pur a fronte di una più restrittiva valutazione contrattuale o, all’opposto, di considerare giustificato un licenziamento causato da fatti non presi in considerazione dal contratto collettivo; ciò non toglie che le valutazioni dei contratti collettivi, pur restando sempre contestabili, abbiano un rilevante

316 Cass. 13 febbraio 2006, n. 3047, in Mass. Giur. lav., 2006, 8/9, 722 ed in Mass. Giur. lav., 2006, 11, 887, con nota di M. TATARELLI.

317 Si veda ad es., Cass. 10 dicembre 2002, n. 17562, in Dir. e prat. lav., 2003, 865;Cass. 10 agosto 2006, n. 18144, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 463. Un'ipotesi particolarmente rilevante di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, ammessa dalla giurisprudenza, è quella dello scarso rendimento del lavoratore: v., ad es., Cass., 22 gennaio 2009, n. 1632, in Dir. prat. lav., 2009, 1384. Nel pubblico impiego tale ipotesi è oggetto di riconoscimento legale espresso, unitamente ad altre per le quali (salve ulteriori ipotesi previste dai contratti collettivi) è previsto il licenziamento per giusta causa (ad es. nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio) o per giustificato motivo soggettivo (ad es. nel caso dell'assenza ingiustificata per il numero di giorni stabilito dalla previsione legale): art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001, introdotto dall'art. 69, I comma, d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150.

valore orientativo e costituiscano il primo termine di riferimento per la soluzione della singola controversia318.

La legge 4 novembre 2010, n. 183 (art. 30, III comma) ha fatto diventare norma tale principio giurisprudenziale, prevedendo che «nel valutare le motivazioni

poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi...». Si tratta di un

consolidamento dell'orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, privo quindi di una vera e propria portata innovativa, salva la possibilità per il giudice di tenere adesso conto (ancora una volta, peraltro, in termini meramente orientativi e non vincolanti) anche delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo eventualmente contenute nel contratto individuale di lavoro stipulato previo ricorso alla procedura di certificazione. In questo caso, ad ogni modo, trattandosi pur sempre di determinazioni dell'autonomia individuale, va da sé che il giudice dovrà tenerne conto con un sovrappiù di cautela.

Il Collegato Lavoro

La riforma del cd. Collegato Lavoro 2010 si può dire che si sia fatta carico, in un certo senso, di quella linea di pensiero molto diffusa tra gli imprenditori secondo cui il contratto rappresenta la massima espressione della volontà delle parti. Da tale assunto si è quindi arrivati a dedurre che il controllo del giudice deve avere confini ben precisi.

Un tale limite al sindacato giudiziale è stato individuato innanzitutto nella qualificazione che le parti hanno voluto dare al rapporto. L’articolo 30, comma II, del Collegato Lavoro 2010, stabilisce infatti che i criteri di apprezzamento, in sede di giudizio, non possono discostarsi dalla valutazione che le parti hanno espresso sui contratti in sede di certificazione319.

Quindi, in materia di licenziamento, sempre l’articolo 30 del Collegato Lavoro 2010, comma III, stabilisce che nel valutare le motivazioni poste a base del

318 M. ROCCELLA, Manuale di diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2010, 444. 319 Cass., 17 giugno 2009, n. 14054, in Dir. e Giust., 2009, 123.

licenziamento, il giudice debba tener conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ovvero nei contratti individuali di lavoro, ove stipulati con la consulenza delle commissioni di certificazione.

La formulazione finale di tale disposizione risulta più morbida rispetto a quella inizialmente pensata dal disegno di legge, secondo cui il giudice non doveva soltanto “tener conto”, bensì “fare riferimento” alle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi stipulati e nei contratti certificati320.

Quanto alle tipizzazioni delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo contenute nei contratti collettivi, è principio consolidato che il giudice, al fine di valutare la gravità di un comportamento e della ricorrenza degli estremi della giusta causa, può tener conto delle ipotesi eventualmente contenute nei contratti collettivi, ferma restando la valenza meramente esemplificativa e non tassativa di detta elencazione, dal momento che la nozione di giusta causa trova la propria fonte direttamente nella legge. In diverse pronunce321 infatti si è

stabilito il principio per cui, nel valutare la lesione del vincolo fiduciario, il giudice può prendere in considerazione le specifiche previsioni contenute nei contratti collettivi, principio ora consolidatosi con il Collegato lavoro.

È quindi evidente che nonostante le tentazioni di deregolamentare il diritto del lavoro in nome della flessibilità e della competitività normativa, il legislatore abbia comunque voluto tutelare il lavoratore (in quanto contraente debole) e quindi garantire che simili previsioni non fossero lasciate al singolo individuo ma alle organizzazioni sindacali, meglio capaci di ripristinare l’equilibrio del potere contrattuale di cui il giudice dovrà tenere conto con un sovrappiù di cautela.

320 M. TIRABOSCHI, Formulario del processo del lavoro: aggiornato alla riforma della giustizia del

lavoro di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, con la collaborazione di A. Corvino, Giuffrè editore,

Milano, 2011, 36.

Tiraboschi, ha tuttavia criticato il testo approvato dal legislatore, affermando infatti che: “non si capisce perché il giudice non possa prendere a parametro, per

la valutazione della giusta causa, anche i patti convenuti tra le parti e le tipizzazioni da esse specificate”. In definitiva, l’articolo 30, comma III, dispone

che fermo restando il controllo della veritas delle ragioni addotte dal datore nell’esercizio dei poteri datoriali, prevede l’esclusione per il giudice di valutare la bonitas e sindacare le scelte imprenditoriali che sono rimesse unicamente al titolare del potere di impresa322. La determinazione di ipotesi che le parti hanno

convenuto costituire a priori di giusta causa, fa notare Tiraboschi, potrebbe prevenire lunghi contenziosi, nei quali viene rimesso all’apprezzamento del giudice stabilire se un dato comportamento integri o meno la giusta causa di licenziamento. Si pensi ad una clausola che, in virtù della delicatezza di alcuni dati custoditi nella rete informatica aziendale, preveda come ipotesi di giusta causa l’accesso non consentito alla rete da parte del dipendente; ovvero che preveda che costituisca giusta causa di licenziamento l’utilizzo a fini personali di un telefono aziendale; oppure ancora che preveda il ricorrere della giusta causa nell’ipotesi di abbandono del posto di lavoro e di conseguenza la mancata sorveglianza sulle macchine di un’azienda323.

A tal fine la legge prevede che, nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento e le successive modificazioni, il giudice tenga conto di elementi e di parametri fissati dai contratti collettivi e dai contratti individuali certificati e, comunque, consideri le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato di lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti prima del licenziamento324.

La legge disponendo che il giudice ‘tiene conto’, non statuisce un ‘vincolo’, pur permanendo il potere del giudice. V’è tuttavia da domandarsi quale sia il vero

322 M. TIRABOSCHI, op. cit., 33.

323 Cass., 9 gennaio 2007, n. 153, in Foro it., 2007, 2, 397; Cass., 9 luglio 2007, n. 15334, in Guida

al diritto, 2007, 37, 53; Cass., 22 giugno 2009, n. 14586, in Foro it., 2009, 10, 2160.

senso del Collegato lavoro, dato che altro non fa che riprende l’orientamento giurisprudenziale in materia. Si può ritenere che se è vero che la normativa non è vincolante per il giudice allora scopo della legge è tentare di mettere sotto controllo il suo operato attraverso il suo ‘condizionamento’.

Ciò che può ritenersi effettivamente mutato è quindi l’onere in capo al giudice di motivare di più e meglio la proporzionalità del provvedimento espulsivo, sebbene l’art. 30, comma III, come anzidetto, non sia vincolante.

Dalla suddetta analisi dell’art. 30, comma III, del Collegato lavoro 2010, si può quindi osservare che l’idea di fondo che ha portato a scrivere tale normativa è contrastare le eccessive tutele talvolta poste in essere dai giudici. Da qui la volontà di restringere lo spazio di discrezionalità del giudice nel tentativo di perseguire un nuovo e diverso equilibrio, che appare tuttavia difficile raggiungere, poiché permangono comunque da tutelare i diritti individuali di tutti i lavoratori.

Il divieto di controllo delle scelte datoriali

Il Collegato lavoro contiene un altro assunto interessante. L’articolo 30 stabilisce che, con riferimento alle norme che contengono clausole generali, ivi comprese le norme in tema di esercizio dei poteri datoriali e recesso, il controllo giudiziale degli atti di esercizio dei poteri datoriali è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.

La norma sembra quindi volta ad evitare che possa essere sindacata dal magistrato l’opportunità della scelta datoriale, non avendo il giudice le competenze professionali (anche in termini di responsabilità rispetto all’assunzione da parte dell’imprenditore) del relativo rischio d’impresa.

Afferma Tiraboschi in proposito che dove si legittimi il giudicante a valutazioni nel merito o di opportunità tecnica organizzativa, qualunque norma diviene non solo alquanto incerta, ma essa stessa fonte di contenzioso, perché vincolata ad interpretazioni soggettive e comunque eccessivamente ampie e contrastanti,

assegnando al giudice un compito che non gli appartiene e che va ben oltre il controllo su frodi ed abusi, comprimendo e deprimendo il libero funzionamento del sistema di relazioni industriali325.

Non mancano tuttavia le critiche a tale impostazione. È stato infatti osservato che sebbene l’obiettivo di certezza normativa lasci trasparire una generale tendenza (già espressa nel Libro Bianco sul mercato del lavoro 2001 e poi sviluppata nel Collegato Lavoro) a garantire la certezza delle relazioni giuridiche, auspicando un’applicazione uniforme delle regole, nello stesso tempo, si diffida tuttavia del giudice del quale si vorrebbe disinnestare il potere326.

È stato inoltre anche affermato che in tale contesto le disposizioni del Collegato Lavoro appaiono tutte contraddistinte dalla enfatizzazione del potere organizzativo e gestionale dell’imprenditore, le cui scelte vengono reputate in gran parte insindacabili benché fortemente incidenti sulla condizione dei lavoratori, finendo in tal modo con il riconoscere al giudice un ruolo quasi solo notarile e formalista327.

A voler schematizzare il procedimento logico seguito dai giudici nel controllo degli atti di gestione dei rapporti di lavoro, si possono ricostruire le seguenti fasi: 1). individuazione della causale giustificativa dell’atto imprenditoriale; 2). verifica del nesso causale tra la ragione indicata e il provvedimento adottato; 3). accertamento dell’insussistenza di motivi illeciti e/o discriminatori che possono assumere peso determinante nell’operazione aziendale; 4). valutazione di sintesi sull’idoneità del provvedimento a incidere sulla posizione del lavoratore,

325 M. TIRABOSCHI, Clausole generali, onere della prova, ruolo del giudice, in La riforma dei rapporti

e delle controversie del lavoro, a cura di Proia e Tiraboschi, Giuffrè, 2011, 7 e ss..

326 O. MAZZOTTA, Diritto del lavoro: il rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 2011, 138. 327 G. FERRARO, Diritto dei contratti di lavoro, Il Mulino, Bologna, 2011, 142.

il che vuol dire valutarne la proporzionalità, la ragionevolezza, l’imparzialità, la socialità, in un’ottica di comparazione complessiva degli interessi implicati328.

Sembra quindi che la norma citata voglia privare il giudice di quest’ultimo passaggio logico, vale a dire di quello più significativo che si traduce nel valutare le scelte imprenditoriali, non solo alla stregua dei criteri di normalità tecnico- organizzativa, ma anche alla stregua dell’utilità sociale e quindi degli interessi dei lavoratori nei termini in cui trovano riconoscimento nell’ordinamento giuridico329.

Nell’esercizio di tale attività esegetica, si esprime il ruolo impegnativo della magistratura del lavoro, la quale non deve limitarsi solo ad applicare la fredda fattispecie legale, ma deve registrare costantemente la conformità delle varie manifestazioni dei poteri imprenditoriali ai parametri prefigurati dall’ordinamento e verificarne la loro compatibilità con interessi e valori330.

Su queste basi è sostanzialmente maturata la distinzione teorica, ampiamente accreditata in dottrina e giurisprudenza, tra limiti intrinseci e limiti estrinseci ai poteri imprenditoriali, là dove, nella prima categoria, sono compresi quei limiti strettamente coerenti con la necessità che l’attività di impresa si svolga in maniera corretta, equilibrata, funzionale, o altrimenti secondo buona fede e correttezza, e non venga quindi a violare alcuni diritti e valori sostanziali di equità, di giustizia sostanziale, di parità di trattamento e di non discriminazione. Non molto diversamente si esprime il sindacato giudiziario che si esercita nei confronti dei pubblici poteri e della discrezionalità amministrativa, ove sovente il controllo non viene limitato ad una mera verifica della conformità alla legislazione vigente, ma si esprime anche nella direzione di un controllo dell’accesso, dell’abuso e dello sviamento del potere.

328 Sul tema si veda R. GUASTINI, Principi di diritto e discrezionalità giudiziale, L. CABELLA PISU, L. NANNI (a cura di), op. cit., 85; PERULLI, in O. MAZZOTTA, Ragioni del licenziamento e formazione

culturale del giudice del lavoro, Torino, 2008, 62.

329 Si veda in tal senso il § introduttivo e in ogni caso: G. ZAGREBELSKY, Diritto per: principi, valori

o regole?, cit., 866; MENGONI, op. cit..

Le richiamate categorie giuridiche sono state parzialmente importate anche nel diritto privato, in particolare ai fini del controllo delle relazioni di potere che si sviluppano all’interno delle imprese nella gestione dei rapporti di lavoro, ove, a fronte di un potere imprenditoriale può essere ravvisato un interesse legittimo del lavoratore, affinché tale potere si eserciti in maniera funzionale, corretto, coerente con i principi generali dell’ordinamento giuridico; così, si è rilevato che la giurisprudenza utilizza la verifica di compatibilità dell’agire datoriale, non solo rispetto ai limiti c.d. “espliciti” posti dalle singole disposizioni, ma anche dai limiti c.d. “impliciti o interni”, la cui fonte immediata è comunemente ravvisata, appunto, nelle clausole di correttezza e buona fede (si pensi, al trasferimento, in cui il controllo dell’atto si spinge fino a verificare che il datore abbia tenuto in considerazione le condizioni personali del lavoratore, anche al fine di scegliere quale trasferire).

É chiaro quindi che se nell’art. 30, comma I, del Collegato Lavoro, si dovesse leggere un divieto di utilizzo delle clausole generali di correttezza e buona fede, una discreta parte dell’agire imprenditoriale verrebbe sottratto al controllo giudiziale e che alla disposizione dovrebbe riconoscersi davvero una portata incisiva. Il controllo di conformità a questi criteri resta, infatti, un controllo di legittimità, trovando nella fonte legale la sua affermazione.

Vero è che, nella gran parte delle volte, il giudice, che sia chiamato a controllare l’operato del datore di lavoro nell’esercizio dei suoi poteri unilaterali conformativi del rapporto, non entra nel merito delle scelte datoriali, dilatando a dismisura in modo improprio il suo sindacato, quanto, invece, dà un contenuto a concetti giuridici che hanno un carattere generico; il discorso si sposta allora sulla portata generale delle c.d. clausole generali, ed è in tal ambito più ampio che la norma dell’art. 30 cerca di limitare i poteri del giudice331.

331 F. BUFFA, Collegato lavoro e tutela giurisdizionale, in Quad. mass. civ., 2011, I, 7 e ss.; U. BECCIA,

Clausole generali e ruolo del giudice, in, Ragioni del licenziamento e formazione culturale del giudice del lavoro, a cura di O. MAZZOTTA,Torino, 2008, 5 e ss..

§ b) - Il dibattito de iure condendo in materia di giustificato

Nel documento Il controllo giudiziale sui licenziamenti (pagine 138-146)