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La caccia nella concezione umanistica: una «similitudine di guerra»

Nel documento Per un bestiario dell'Orlando Furioso (pagine 75-77)

7. La venatio nel Furioso

7.2 La caccia nella concezione umanistica: una «similitudine di guerra»

Bisognerà ancora una volta ripartire dal Cinegetico (I,18) da cui prendono avvio tutte le dissertazioni sulla caccia tra Quattro e il Cinquecento:

«Io consiglio dunque ai giovani di non disprezzare la caccia né le altre pratiche di educazione: è in virtù di queste che si acquisisce valore nelle arti belliche e nelle altre attività da cui non può non provenire l’ eccellenza nel pensiero, nella parola, nell’ azione».203

Proprio la «concezione senofontea della caccia come preparazione alla guerra»,204 diventerà il fulcro del dibattito intellettuale volto a determinare «quale debba essere la sua parte nella vita del gentiluomo e dell’uomo di potere».205

201 Si ascrivono in questa categoria di similitudini anche due serie di comparazioni venatorie che

descrivono la caccia al lupo condotta con i cani e i cacciatori (XVIII, 92; XXXVII, 95; ed. 1532); si tratta di due possibili riferimenti alla pratica della louvetier riferita non ai guerrieri ma ad alcuni personaggi vili. Per il testo e il commento delle ottave rimandiamo alla voce lupo (par. “I canidi a confronto”).

La

202 Emblematica, a questo proposito, risulterà la disamina di alcune similitudini o metafore

relative alla figura del lupo (cfr. voce lupo, par. “L’animale politico”).

203 Cfr. Senofonte, La Caccia…cit., pp. 45-7.

204 Cfr. G. Barberi Squarotti, Selvaggia dilettanza…cit., p. 57. Tale concezione, ricorda Barberi

Squarotti, è espressa in modo ancor più articolato in un'altra opera del trattatista greco, la

Ciropedia, anch’essa di grande fortuna in età umanistico – rinascimentale (cfr. ivi, p. 59). 205

Ivi, p.57. Legati alla questione senofontea del valore pedagogico della caccia o di carattere

puramente trattatistico sono le numerose opere di argomento venatorio che proliferarono per tutto il Cinquecento in Italia e all’estero, a testimonianza della centralità della caccia nella vita e negli ambienti culturali ed intellettuali dell’epoca (si vedano, ad esempio, La Venerie, di Guyllaume Twiti (sec. XIV); Libro delle cacce a cavallo, di Don Juan I de Aviz (1411-1433); De canibus et

venatione libellus, di Michelangelo Biondo (1544); Trattato della caccia, di Domenico

Boccamazza (1548); Quattro libri della caccia, di Tito Giovanni Scandianese (1561); La Caccia, di Jacques de Fouillaux (1561); De Canibus Britannicis, di John Kay (1570); Alcone, di Girolamo

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questione, inserita nella più ampia riflessione sulla virtù e la vita di corte,206 fu discussa da molti intellettuali e letterati del tempo come Alberti, Lorenzo de’ Medici, Castiglione, Machiavelli, Aretino e altri, «con lo scopo evidente di […] trasformare quello che era considerato essenzialmente uno svago in una disciplina con dignità conforme al sistema delle virtù civili di matrice classica che costituivano il fondamento dell’etica umanistica e rinascimentale».207 Così, nel libro I del Cortegiano, Castiglione elabora la celebre immagine della caccia come «similitudine di guerra». Sulla base dell’enunciato senofonteo egli considera l’attività venatoria come un esercizio utile alla formazione dell’uomo di corte, come una prova di «strenuità virile» e «piacer da gran signori», che ha una certa somiglianza con la guerra.208 La linea celebrativa della caccia come pratica militare inaugurata da Castiglione fu accolta da molti autori nel nostro Rinascimento, tuttavia, essa appare rovesciata nel pensiero di altri intellettuali del tempo. Si profila, dunque, all’interno dello stesso dibattito sulla caccia una prospettiva dicotomica che si fa veicolo di idee contrapposte. Nel Principe, XVIII, «la caccia, simulacro della guerra, appartiene al versante bestiale e violento dell’apprendistato, in una visione che esclude qualsiasi esercizio della virtù».209 La resistenza machiavelliana alla concezione senofontea e cortigiana che unisce virtuosamente caccia e guerra verrà ribadita, «su un piano più specificamente pragmatico», nell’Arte della guerra.210 Ma già Lorenzo de’ Medici nel primo libro delle Selve condannava la caccia come «degenerazione di una società perfetta», negazione di ogni impulso per il progresso.211 Un giudizio negativo verrà, in

seguito, sentenziato anche da Aretino nel Ragionamento delle Corti.212

Si inseriscono nel vivo di questedisquisizioni intorno al tema della venatio alcune significative battute di caccia del Furioso che, svolte entro gli spazi della natura selvaggia, delimitano una netta opposizione con il mondo della civiltà, richiamando «un’idea di brutalità primordiale e violenza disumana»,213

Fracastoro (1577); L’Evagria, di Bernardino Pino (1584); La caccia, di Erasmo da Valvassore (1591). Per questa casistica, cfr. ivi, pp. 56- 99; C. Spila, Caccia, in Dizionario dei temi

letterari…p.336.

che nulla ha a che vedere con la pratica e l’esercizio della virtù gentilizie e cavalleresche. È il caso, come ricorda G. Barberi Squarotti, della caccia mostruosa dell’Orco di

206

Cfr. ibidem.

207 G. Barberi Squarotti, Selvaggia dilettanza…cit., p. 59. 208 Ivi, pp. 59-60.

209 Cfr. C. Spila, Caccia, in Dizionario dei temi letterari…cit., p. 336. Ricordiamo che fu Dante,

per primo, a definire la caccia come una «selvaggia dilettanza» nel celebre sonetto Sonar

bracchetti (Rime, 15), dove la pratica primitiva della caccia, risulta «in contrasto con la

“leggiadria” dell’ animo che prova amore», cfr. G. Barberi Squarotti, Selvaggia dilettanza…cit., pp. 28-9. Anche Thomas More, nella Utopia (1516) condanna la caccia, «in quanto manifestazione di ferocia gratuita e bestiale» (cfr. C. Spila, Caccia, in Dizionario dei temi letterari…cit., p. 336).

210 Cfr. ivi, p. 73. 211 Cfr. ivi, pp. 67-8. 212 Cfr. ivi, p. 76. 213 Cfr. ivi, p. 52.

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Norandino (XVII,31) che, nutrendosi di prede umane, finisce per confinare l’attività venatoria entro un orizzonte di bestialità e efferatezza. Tuttavia, se si escludono i casi di caccia bestiale,214 è possibile rinvenire nel Furioso, proprio nel contesto della similitudine del canto nono, oggetto della nostra analisi,215 una certa contiguità con il pensiero senofonteo e degli umanisti che affermano il valore positivo della caccia come forma diapprendistato edonistico dell’attività di guerra, entro cui si può misurare il valore e l’ardire di un cavaliere. Ciò avviene nell’ambito della celebre ed anacronistica polemica espressa nello stesso canto nono, contro l’ invenzione del «ferro bugio» sostituito alle armi tradizionali nella pratica di guerra e nell’ apprendistato guerresco della caccia.

Nel documento Per un bestiario dell'Orlando Furioso (pagine 75-77)