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Il cane e i suoi cuccioli, l’ariete e la scimmia (P.Köln II 64): una parafrasi di Fedro?

Nel documento Maria Chiara Scappaticcio Fabellae (pagine 78-81)

Capitolo II Favole latine e frammenti di tradizione diretta della Tarda

II.2 Il cane e i suoi cuccioli, l’ariete e la scimmia (P.Köln II 64): una parafrasi di Fedro?

Frammento da un rotolo di II secolo, il P.Köln II 64 trasmette due parafrasi favolistiche, entrambe integralmente in greco, della seconda delle quali resta soltanto una linea che ne introduce i personaggi, un ariete ed una scimmia¹². Il primo testo, invece, benché mutilo della sezione iniziale, contiene buona parte della narrazione e la morale, spartita, attraverso una paragraphos, da un’ulte-riore illustrazione del messaggio veicolato dalla favoletta stessa. Il tono perso-nale della spiegazione che segue la morale – una sorta di retorica variazione sul tema dell’ingratitudine sintetizzato dalla battuta finale della favola – è espres-sione immediata della funzione pedagogica ed etica di cui questa favoletta do-veva rivestirsi in un ambiente didattico: della favola emerge il valore paradi-gmatico e di exemplum retorico¹³.

 Legras 1996, 61: «soit achevant leur cycle secondaire, soit étudiant déjà dans le cycle su-périeur».

 P.Colon. inv. 5928 = LDAB 4708; MP31995.1. Ad introdurre la seconda favola c’è un [ἄλλο]ς, forse «fórmula antólogica característica» (Fernández Delgado 2006, 37); su questa parafrasi del frammento di Colonia, accanto all’editio princeps, è opportuno ricordare le osservazioni di Legras 1996, 69–70 e Fernández Delgado 2006, 36–38. Il frammento di Colonia è anche menzionato nel commento fedriano di Solimano 2005, 164–165 n. 19 e, più recentemente, da Pugliarello 2014, 83 n. 43.

 A proposito delle ll. 9–13 del P.Köln II 64 si legge nell’editio princeps: «dem Schluß der Tierfabel folgt eine Rede in der Ich-Form, in welcher der Sprecher seine Erfahrungen denen des Hundes in der Fabel zur Seite stellt» (57), con la possibilità che l’allusione sia ad un contesto ed una situazione dichiaratamente politica (con un riferimento alla polis alla l. 10). Ad ogni modo, l’essenza retorica di queste linee emerge sia che l’uso della prima persona singolare si riconduca II.2 Il cane e i suoi cuccioli, l’ariete e la scimmia (P.Köln II 64) 69

Si è recentemente parlato di quella parafrasata, in greco, nel papiro come di una favola di Fedro, la diciannovesima del primo libro¹⁴: protagonista è un cane che, avendo affidato ai propri cuccioli la sua tana, se la vide negare quando, cresciuti e diventati robusti, chiese di riappropriarsene; di qui l’insegnamento che

‘non bisogna fare del bene ai malvagi’ (l. 8: πο]νηροὺς γὰρ εὐεργετεῖν οὐκ ἔδει). È indubbiamente insegnamento diverso da quello che, vedendo protagoniste due cagne, propone la favola fedriana, attenta piuttosto ad ammonire dalle parole carezzevoli dei disonesti: habent insidias hominis blanditiae mali (1, 19, 1)¹⁵.

La frammentarietà del P.Köln II 64 è un ovvio impedimento perché la trama della narrazione possa essere messa in parallelo, in tutti i suoi dettagli, con quella di Fedro. Allo stesso tempo, resta complesso a dimostrarsi che fonte della parafrasi sia l’auctor latino, non semplicemente perché la morale trasmessa vuole essere differente – cosa giustificabile in virtù della possibilità di flettere le favole a bisogni educativi (e sociali) specifici –, ma soprattutto perché mancano appigli testuali che ne diano conferma, a partire dal differente sesso del cane (un cane nel papiro, ed una cagna in Fedro) e dall’assenza di un avversario alieno al proprio nucleo familiare nel frammento superstite, dove, invece, emerge un contrasto generato tra padre e figli, questi ultimi ingrati verso il genitore¹⁶.

Ipotizzare, d’altro canto, che questa del P.Köln II 64 sia una parafrasi in greco della favola latina di Fedro significa immaginare che il corpus di favole metriche fedriane abbia avuto, nella pars Orientis dell’Impero, un successo tale che l’avrebbe reso oggetto dell’insegnamento di un grammaticus, contraltare al si-lenzio di Quintiliano e Seneca che insinuerebbe qualche dubbio¹⁷; ma non solo,

ad un generico ‘io’ o a un retore da identificare con un uomo politico di una città (così, sulla scia dell’editio princeps, Legras 1996, 70), sia che si immagini che il parafraste faccia parlare ancora il cane, protagonista della narrazione (è questa l’interpretazione sottesa in Solimano 2005, 165 n. 19, che, però, parla di una cagna).

 Fernández Delgado 2006, 36, dove si asserisce anche che questa di Fedro sia una favola

«derivada a su vez de otra de Esopo (480 P.)»; bisogna, però, osservare che la favola 480 della raccolta di Perry 1952 coincide con Phaedr. 1, 19 e non con una ipotetica favola esopica in greco.

 Per un’esegesi della favola fedriana e per ulteriori rinvii bibliografici ci si limita qui a rinviare a Renda 2012, 99–100.

 La sostituzione del cane e dei cagnolini alle due cagne è stata interpretata da Legras 1996, 70 come dettata dalla necessità di una nuova morale.

 Si confronti Fernández Delgado 2006, 36: «su presencia en dos papiros, de los cuales uno parece claramente escolar y el otro está en griego, demuestra que, al menos desde finales del s.

II, Fedro (…) era ya una autoridad literaria incluso en Egipto, a la que se podía acudir en busca de exempla para su utilización ya sea en clase de ‘letras latinas’ ya sea en una posible antología temática para uso de oradores griegos (…). Y esa autoridad tiene que haberse ido fraguando en el intervalo de poco más de un siglo, habida cuenta de su silenciamiento por autores como Quintiliano (…) o Séneca (…) cuando tratan de la fábula». Ad ogni modo, non sarà superfluo 70 Capitolo II Favole latine e frammenti di tradizione diretta della Tarda Antichità

perché significherebbe anche immaginare un esercizio tale per cui un discente avrebbe dovuto leggere un testo in latino, comprenderlo e parafrasarlo in greco, dimostrando una padronanza sia del latino che del greco che, per ellenofoni o latinofoni che frequentarono gli ambienti educativi orientali, non ha paralleli documentari all’altezza del II secolo.

Che la favola parafrasata nel P.Köln II 64 sia greca e ascrivibile a quell’insieme – o, forse, a quella ‘nebulosa’ – che è il corpus esopico, frutto di stratificazioni e flessioni di una tradizione della quale quella nota è soltanto un punto di approdo, è possibile in virtù del fatto che i modelli del parafraste sono evidentemente greci¹⁸, che l’insegnamento trasmesso non è distante da quello rappresentato da altre favole esopiche e che anche questa del cane e dei suoi cuccioli ingrati è riconducibile ad uno stesso nucleo di matrice cinica (e teognidea)¹⁹, che la pa-rafrasi che ha per tema l’ingratitudine è seguita da quella di un’altra favola – la favola dell’ariete e della scimmia – non altrimenti nota dalla tradizione favolistica e che non fa escludere che entrambe le parafrasi siano state derivate da un nucleo

‘esopico’ che non ha avuto ulteriore fortuna nella forma che era stata sotto gli occhi del parafraste del P.Köln II 64 (o del suo antigrafo).

Oltre quella più tarda ed evidentemente filtrata dai versi fedriani del Romulus (12), un’ulteriore versione della stessa favola viene messa sulle labbra di un uomo ligure da Pompeo Trogo nel tentativo di ammonire il nuovo re dei Galli Segobrigi, Comano, dal pericolo di Marsiglia che, cresciuta in potenza, avrebbe potuto costituire una seria minaccia per la regione provenzale. Benché le Historiae Philippicae di Trogo – conosciute attraverso la sola versione epitomata di Giustino –, mettano al centro della narrazione una cagna incinta che chiese

sottolineare che si tratta di due tradizioni e pratiche didattiche lontane per il fatto che l’inse-gnamento di Quintiliano (più che di quello di Seneca, tutt’al più precettore) era di un livello indubbiamente più elevato rispetto a quello documentato dalla favola su papiro.

 A chiudere l’argomentazione retorica della parafrasi favolistica del papiro c’è, ad esempio, una sententia teognidea: δειλοὺς δ᾽εὖ ἔρδοντι ματαιοτάτη χάρις ἐστιν (v. 105 = P.Köln II 64, ll. 12–13); si confrontino anche tutti i paralleli testuali messi in luce in sede di commento nell’editio princeps (P.Köln II 64, 60).

 Si rinvia all’analisi di Rodríguez Adrados 2003, 482–483 per ulteriori considerazioni sui legami tra le varie versioni di questa favola; è qui, infatti, che si osserva come il tema dell’abuso da parte di un malvagio e della sua ingratitudine accosta questa favola a quella esopica del contadino e del serpente «from where this fable (scil. quella nota dalla parafrasi del papiro) and others possibly derive» (483). A proposito della favola del contadino e del serpente ingrato, a sua volta, osserva Rodríguez Adrados 2003, 85: «a situation fable (with an agonal component) directed against ingrates, personified by the snake; at the same time, it touches the theme of nature, which the snake follows. These are Cinic themes, but the theme comes from Theognis and is even found in the Assyrian Ahikar (…) These is a single primary model, from which all the other ones derive, sometimes through intermediate stages that are not easy to specify».

II.2 Il cane e i suoi cuccioli, l’ariete e la scimmia (P.Köln II 64) 71

asilo ad un pastore e benché si regga l’alterco tra le due parti dei senari di Fedro, il filo rosso che attraversa la favola è piuttosto, come nella parafrasi della favola esopica del papiro, l’ingratitudine²⁰:

Subnectit et illam fabulam: canem aliquando partu gravidam locum a pastore precario pe-tisse, in quo pareret, quo obtento iterato pepe-tisse, ut sibi educare eodem in loco catulos liceret;

ad postremum adultis catulis fultam domestico praesidio proprietatem loci sibi vindicasse.

I tempi sono quelli della fondazione di Marsiglia, e, nel discorso dell’uomo ligure, la favoletta si riveste di un valore fortemente retorico e assume dichia-ratamente un’essenza paradigmatica: come la cagna gravida al pastore, così, se assecondata e supportata, Marsiglia avrebbe teso un colpo basso ai Segobrigi.

Pompeo Trogo fu un coetaneo di Fedro, e pensare che abbia attinto da lui è possibile soltanto se si immaginasse un successo immediato ed ampio di Fedro e che lo storico abbia voluto variare degli elementi narrativi rispetto al suo mo-dello. Parlare, però, di una ‘ben nota’ (se è questo il senso di illa) favola può ricondurre a qualcosa di noto o ai tempi – e negli spazi – di Pompeo Trogo, originario della stirpe dei Voconzi, nella Gallia sud-orientale, non lontano dalla colonia greca di Marsiglia, o piuttosto nell’immaginario della fonte (o di una delle fonti) di Pompeo Trogo, e, se questa fonte fu lo storico greco Timagene di Alessandria²¹, lecito è avanzare l’ipotesi che quella raccontata fosse piuttosto una favola ‘esopica’.

Questa favola faceva parte di un patrimonio culturale ed elementi portanti del suo plot vennero ripresi, plasmati e ricontestualizzati nella Roma post-au-gustea di Fedro e nella Provenza narrata da Pompeo Trogo, prima, e nel manuale di qualcuno che si esercitava nella retorica nella pars Orientis dell’Impero del II secolo, poi: espressione multiforme e sfaccettata di una stessa favola che aveva preso le sue e differenti strade.

Nel documento Maria Chiara Scappaticcio Fabellae (pagine 78-81)