PARTE I. WELFARE, EDUCAZIONE, LAVORO: COSTRUIRE UN DIALOGO PER
CAPITOLO 2. WELFARE ED EDUCAZIONE: DAL TRADE-OFF ALL’INTEGRAZIONE PER
2.3. Capitale umano e skills al centro della strategia di social investment
La prospettiva dell’investimento sociale, con la sua enfasi sul ridisegno e superamento dei confini tra politiche attive e passive, promozione e compensazione, fornisce una prospettiva analitica che consente di inscrivere lo studio di educazione e sistemi di istruzione all’interno dell’analisi comparata del welfare (Busemeyer & Nikolai, 2010). L’investimento pubblico nel sistema di istruzione e formazione favorisce infatti al contempo crescita economica e coesione sociale: di conseguenza, politiche sociali ed educative devono essere considerate entrambe parte di un’unica strategia di welfare e di una concezione dei diritti sociali finalizzata in primo luogo all’aumento della partecipazione al mercato del lavoro (Giddens, 1998; Nikolai e West, 2012). Rispetto agli strumenti di policy tradizionali, l’investimento in capitale umano consiste nel disegno di politiche orientate al futuro, prevenendo l’impatto negativo dei rischi sociali sulle vite individuali. Lo stato sociale riveste un ruolo decisivo nell’intervenire sulle nuove forme di disuguaglianze sociali ed economiche: questa formulazione comporta l’inscrizione delle politiche educative e formative all’interno della più ampia categoria delle politiche sociali (Nelson & Stephens, 2009).
L’investimento sociale si propone di sostenere l’individuo rispetto ai nuovi (o mutati) rischi sociali derivanti dalle trasformazioni economiche e demografiche richiamate nel capitolo precedente. Ragionando in termini di formazione e capitale umano, queste trasformazioni alterano la domanda di competenze (skills) richieste dai mercati del lavoro nelle economie postindustriali. A causa della globalizzazione e liberalizzazione dei capitali, molti lavori scarsamente qualificati sono stati trasferiti all’estero, favorendo l’espansione di industrie e lavori altamente qualificati. Nella stessa direzione va il cambiamento tecnologico e il suo procedere continuo, che comporta l’aumento dell’intensità di skills, ovvero dell’applicazione di competenze nel processo produttivo, tendenza che accresce i ritorni
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economici di qualifiche ed educazione. La terziarizzazione e l’espansione dei servizi sono invece accompagnati da dinamiche contraddittorie. Il capitalismo dell’età dell’oro assorbiva masse di lavoratori low-skilled nelle linee produttive di beni di massa per cui c’era un’enorme domanda di lavoro scarsamente qualificato. Questi lavori tendono a sparire, rimpiazzati principalmente da lavori nel settore dei servizi. Tuttavia, da un lato la terziarizzazione favorisce i detentori di capitale umano e sociale, ma dall’altro porta anche con sé momenti e rischi di stagnazione della domanda di lavoro a causa della bassa produttività (o della minor incidenza di grandi guadagni di produttività rispetto al lavoro industriale). Detto in altri termini, nel momento in cui i servizi diventano i protagonisti del sistema economico, gli strati della popolazione che hanno acquisito conoscenza e relative competenze godono di maggiori privilegi ma contemporaneamente ampie aree di attività rientrano nel settore dei servizi classificabili come ad alta intensità di lavoro e scarsa intensità di competenze. Questi low-end
service jobs a bassa produttività sono fondamentali per l’occupazione nelle società postindustriali ma
sono affetti da un problema di “cost-disease” (Esping-Andersen, 1998). Sembra quindi profilarsi un rischio comune inevitabile: l’aumento delle disuguaglianze. Negli anni ‘80-’90 questa tendenza valeva sia per i paesi con welfare state più sviluppati, che difficilmente consentivano la costituzione di un vasto settore di lavoratori scarsamente qualificati e poco pagati (come ad esempio la Germania); sia per paesi con welfare state residuale e forte liberalizzazione del mercato del lavoro (USA). In entrambi i casi, queste dinamiche creano un gruppo di perdenti ai “margini” del mercato del lavoro, le cui condizioni sono aggravate dalla concorrenza esercitata sui lavori scarsamente qualificati dai paesi in via di sviluppo (l’effetto Terzo Mondo: abbassamento del costo del lavoro e pressione per l’abbassamento dei salati nei paesi sviluppati): si tratta di chi ha un basso livello di competenze, sia che sia disoccupato, sia che sia un lavoratore scarsamente qualificato. La vulnerabilità dei low skilled è quindi alla base del postindustrial employment problem (OECD, 1994; Bonoli & Mouline, 2012), ovvero il rischio di precarietà e disoccupazione per individui e lavoratori scarsamente qualificati, che si traduce in minori tassi di crescita economica e crescenti disuguaglianze.
In questo contesto, sebbene le competenze cognitive e sociali acquisite durante i primi anni all’interno del sistema di istruzione siano cruciali per l’uguaglianza di opportunità e per gli esiti educativi successivi (Esping-Andersen et al., 2002), le competenze acquisite durante la scolarizzazione obbligatoria non sono sufficienti a garantire un’occupazione stabile per tutta la carriera. Ne deriva la necessità di supportare e investire in educazione e bisogni formativi, affinché gli individui possano proteggersi dai rischi derivanti dall’essere scarsamente qualificati. Nell’attuale learning economy (Lundvall & Lorenz, 2012) che premia le competenze nell’ottica di una partecipazione qualitativa al mercato del lavoro, una strategia di investimento sociale deve quindi attribuire priorità a politiche che influiscono sull’acquisizione di skills: politiche educative (dai servizi per l’infanzia all’educazione prescolare, fino all’istruzione superiore di livello terziario) e formative (formazione professionale e
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formazione continua); politiche attive del lavoro (per fornire nuove competenze a lavoratori marginalizzati).
Ciò crea anche una vasta area di ricerca che tocca la spesa in tali politiche, la regolazione delle stesse, gli esiti in termini di qualità ed equità, l’interazione con la regolazione e struttura del mercato del lavoro (dalle certificazioni e quindi la possibilità di vedersi riconosciute le competenze acquisite, alla domanda di lavoro, più o meno qualificata, espressa).
Accenniamo un altro punto analitico, che sarà approfondito nel capitolo successivo, parlando di mercati del lavoro giovanile e politiche di transizione scuola-lavoro: nel dibattito sul SI, skills e competenze sono fondamentali innanzitutto in quanto marketable, ovvero rivolte a consentire l’accesso al mercato del lavoro. Ne deriva una considerazione di rischio che abbraccia non soltanto i low-skilled, ma anche i giovani e le donne che mancano di esperienza e competenze pratiche, o le cui qualifiche non sono riconosciute dal mercato del lavoro. Si tratta, in questo senso, di un approccio che mostra segni di re-commodification, in quanto l’azione dello stato non punta a sottrarre l’individuo dalla necessità di rivolgersi al mercato per il proprio sostentamento (per approfondire il concetto di
de-commodification si veda Esping-Andersen, 1990), ma a fornire all’individuo le capacità per
realizzarsi in un’ottica di fatto ristretta di cittadinanza (rispetto all’ampio raggio adottato dell’approccio delle capabilities di Amartya Sen) identificata principalmente con l’occupazione. Occorre quindi valutare come si configuri nei diversi contesti nazionali l’equilibrio tra re-
commodification e investimento in capitale umano e empowerment (de la Porte & Jacobsson, 2012),
poiché su questa linea sottile ma determinante si gioca la differenza tra un approccio di investimento sociale e uno di neoliberismo e attivazione “workfaristica”.
Come detto, rispetto all’approccio delle Varieties of capitalism (Hall & Soskice, 2001), delle capabilities (Robeyns, 2000) e all’ampio dibattito sull’attivazione, la prospettiva del social investment si caratterizza per una considerazione delle politiche sociali come fattori al contempo di crescita economica e inclusione sociale (Morel et al., 2012). L’esistenza di uno stretto legame tra educazione e lavoro è sostenuta dai sostenitori del SI, i quali aggiungono a tale equazione il ruolo del welfare state e del sistema di protezione sociale, chiamato ad investire nell’educazione per garantire l’uguaglianza delle opportunità e minimizzare il trasferimento intergenerazionale delle disuguaglianze. Obiettivo è l’empowerment dell’individuo attraverso una dotazione di competenze e abilità, acquisite durante il percorso educativo, che gli consenta di trovare occupazioni soddisfacenti in termini di salario e qualità (more and better jobs) sul mercato del lavoro (Jenson, 2012). L’educazione ѐ vista come cruciale strumento di investimento sociale e resilienza individuale (Giovannini, 2015), necessaria per la realizzazione di una concezione di cittadinanza in cui la partecipazione qualitativamente qualificata nel mercato del lavoro rappresenta il principale obiettivo, insieme alla rottura della trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze. Rispetto all’approccio VoC, che mira soprattutto alla spiegazione e classificazione dell’esistente (differenza tra CMEs e LMEs) o alla spiegazione delle cause
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storiche di tali differenziazioni, il SI adotta quindi una prospettiva normativa netta, orientata a all’inclusione sociale attraverso:
l’aumento della partecipazione di qualità degli individui al mercato del lavoro l’enfasi posta sull’uguaglianza delle opportunità
Inoltre, l’approccio VoC pone al centro dell’analisi il comportamento delle imprese (Hall & Soskice, 2001), relegando a una posizione secondaria il ruolo del welfare state. In questo senso, anche i concetti di coordinamento e complementarietà istituzionali vengono interpretati primariamente in termini di facilitazione del rapporto tra individuo e datore di lavoro. Nella prospettiva del SI al centro dell’analisi viene posto il welfare state e non l’impresa, dal momento che l’attore pubblico è considerato cruciale nel coordinamento tra settori di policy e attori differenti (Morel et al., 2012), per favorire la costituzione di complementarietà istituzionali e sinergie di policy (Hemerijck, 2017) in grado di innescare gli obiettivi sopra ricordati lungo l’arco di vita dei cittadini. Questa apre alla possibilità di declinare la questione del coordinamento sia nei termini dei differenti livelli istituzionali dell’attore pubblico (coordinamento verticale), sia nei termini delle relazioni tra attore pubblici e attori privati o corpi intermedi (coordinamento orizzontale) (Øverbye et al., 2010). Tale approccio fornisce quindi una cornice normativa di riferimento, o insieme di criteri di benchmarking (Hemerijck, 2013), per valutare e analizzare politiche e strutture istituzionali esistenti, nonché i processi di riforma e cambiamento degli stessi. Il dibattito, anche critico, sul SI si sta dunque concentrando sulla rilevanza dell’operazionalizzazione e analisi delle prassi di policy, sottolineando il ruolo delle specifiche configurazioni istituzionali di interfaccia tra welfare state, mercato del lavoro e sistema educativo, nonché di più ampie condizioni contestuali che possono influenzare l’esito degli interventi di policy (Kazepov & Ranci, 2016).