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PARTE I. WELFARE, EDUCAZIONE, LAVORO: COSTRUIRE UN DIALOGO PER

CAPITOLO 2. WELFARE ED EDUCAZIONE: DAL TRADE-OFF ALL’INTEGRAZIONE PER

2.2. La relazione tra educazione e welfare state: trade-off e tentativi di integrazione

Per lungo tempo, welfare ed education sono stati considerati due settori di policy alternativi. Ne è conseguito lo sviluppo separato di studi sui sistemi nazionali di istruzione e di studi sui sistemi nazionali di protezione sociale (Paci, 2013).

Questa impostazione trova le sue origini nell’opera di Wilensky (1975), che ha sancito lo statuto “speciale” delle politiche educative rispetto ai programmi volti alla protezione sociale. Infatti, secondo questo autore, l’essenza del welfare va individuata nel fatto che lo stato riconosca e garantisca standard minimi di reddito, alimentazione, salute, alloggio e istruzione. Tuttavia, il nucleo del welfare state è primariamente composto da programmi mirati a garantire l’eguaglianza assoluta o delle condizioni, ovvero ad esiti seppure parziali di redistribuzione del reddito tra strati della popolazione, derivanti dall’individuazione di rischi e bisogni rispetto ai quali proteggere l’individuo. Viceversa, le politiche educative sono considerate solo secondariamente dirette verso l’uguaglianza assoluta: in quanto guidati da valori meritocratici, lo sforzo formativo costituisce invece un contributo all’uguaglianza delle opportunità, intesa come accresciuta possibilità di mobilità sociale ascendente per gli individui dotati di skills e talenti (Agostini, 2013).

Riassumendo, lo statuto “speciale” o la specificità dell’educazione era ricondotto ai differenti principi di giustizia sociale perseguiti (Castles, 1989; Busemeyer & Nikolai, 2010): l’uguaglianza di opportunità per le politiche educative, finalizzate primariamente a garantire opportunità di mobilità ascendente; l’uguaglianza degli esiti o condizioni per le politiche sociali, orientate alla riduzione delle disuguaglianze intese come differenze tra ricchi e poveri, giovani e anziani, gruppi di minoranza e maggioranza (Allmendiger & Leibfried, 2003). Questa impostazione paradigmatica ha in seguito generato una certa risonanza con il consolidarsi dell’idea secondo cui le assicurazioni sociali rappresentano il fondamento storico del welfare state, generando classificazioni e tipologie incentrate primariamente sui trasferimenti monetari di tipo assicurativo (Esping-Andersen, 1990; Leibfried, 1992; Ferrera, 1998).

L´analisi comparata dei sistemi di welfare tende a favorire una prospettiva di analisi macro diretta primariamente alle caratteristiche dei programmi di welfare definiti, attraverso le politiche sociali adottate e il modo in cui esse attuano la redistribuzione di risorse e rischi sociali (Esping-Andersen, 1990). Tale approccio di ricerca ha sistematicamente comportato, per lungo tempo, l´esclusione dei

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sistemi educativi da una rilevante porzione delle analisi effettuate sul welfare, in accordo con le argomentazioni di Wilensky secondo cui educazione e politiche sociali necessiterebbero di una strategia analitica volta alla sistematica distinzione nell’ambito dei programmi di welfare, tra politiche educative e politiche sociali.

Questa prospettiva si pone all’origine della scissione fra istruzione e welfare, rafforzata dalle analisi che hanno evidenziato l’esistenza di un trade-off tra i due settori (Agostini, 2013), ovvero di strategie alternative di sviluppo dei sistemi di protezione sociale nazionali. A una differente concezione di “buona società” e dei relativi mezzi da impiegare per il miglioramento delle disuguaglianze sociali sarebbe quindi corrisposta un’enfasi sull’obiettivo dell’uguaglianza delle opportunità (principalmente negli Stati Uniti) o delle condizioni (nella maggior parte dei paesi europei) (Heidenheimer, 1983). Nei paesi europei, che pongono l’accento sulla solidarietà interna a determinate categorie occupazionali o fra gli individui appartenenti a una stessa società, il principio della competizione meritocratica sarebbe quindi meno rilevante anche nello spiegare il costituirsi dei sistemi nazionali di istruzione, processo accompagnato invece per lo più da esigenze di formazione della classi dirigenti, di riproduzione sociale o tutela delle identità nazionali (Benadusi, 2006). Numerosi studi hanno sostenuto l’ipotesi del trade-off tra politiche sociali e dell’istruzione, enfatizzando soprattutto la costitutiva differenza in tal senso tra regimi di welfare conservatori (il cui nucleo si caratterizza per la centralità delle assicurazioni sociali) e quelli liberali (in cui il welfare state tradizionalmente inteso è meno sviluppato e viene posta maggior enfasi sulla competizione meritocratica e sulla mobilità) (Hega & Hokenmaier, 2002; Pechar & Andres Lesley, 2011).

In seguito, i mutamenti intervenuti nella società contemporanea hanno condotto al superamento della separazione tra questi due settori di studio: con l’avvento dell’“economia della conoscenza”, l’educazione e la formazione diventano un fattore produttivo cruciale e di grande interesse per le politiche economiche e sociali (Paci, 2013). Parallelamente, la prospettiva del trade-off ha incontrato critiche crescenti, sottolineando invece la necessità di sviluppare standard di ricerca e prospettive analitiche in grado di indagare le connessioni tra istruzione e politiche sociali includendo sistematicamente l’analisi di politiche educative e sistemi di istruzione all’interno della ricerca comparata sui sistemi di welfare (Busemeyer & Nikolai, 2010). Alcuni contributi hanno infatti rigettato dell’ipotesi del trade-off, promuovendo l’opportunità di utilizzare prospettive analitiche che integrino politiche di welfare ed education, attraverso l’individuazione di caratteristiche comuni tra modelli di istruzione e regimi di welfare. È stata inoltre richiamata la necessità di chiarire la relazione tra investimenti in politiche educative, istituzioni educative e distribuzione delle opportunità durante il corso di vita all’interno di differenti sistemi di welfare (Allmendinger & Leibfried, 2003; Peter et al., 2010). È questo il caso del lavoro di Busemeyer & Nikolai (2010), che individuano corrispondenze tra clusters di paesi europei con regimi formativi simili e relativi sistemi di protezione sociale. Anche West & Nikolai (2013) individuano nell’education una componente chiave dei sistemi di welfare, e

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analizzano i principali caratteri istituzionali dei vari regimi educativi in Europa sottolineandone le connessioni con i rispettivi regimi di welfare. Willemse & de Beer (2012) focalizzano l’attenzione su un oggetto di ricerca ancora più specifico, integrando l’analisi dei sistemi di higher education esistenti all’interno del filone dell’analisi comparata dei sistemi di welfare.

Nella stessa direzione di questi contributi di modellizzazione si dirigono anche prospettive di analisi più strutturate che promuovono l’integrazione tra educazione e politiche sociali e dunque una più stretta comunicazione tra le letterature in oggetto. Di seguito, ci soffermeremo in particolare sull’approccio della varieties of capitalism e sull’approccio delle capabilities; nel paragrafo successivo approfondiremo invece il contributo del social investment.

Nella prospettiva delle varietà di capitalismo (VoC), al centro della riflessione è posto il comportamento delle imprese (Hall & Soskice, 2001): la domanda di formazione dei datori di lavoro, interagendo con istituzioni politiche ed economiche, è il fattore che spiega la diversità dei percorsi di sviluppo dei regimi di produzione e del welfare state. L’approccio VoC vede nelle politiche sociali il mezzo per risolvere questioni di contrattazioni e fiducia tra lavoratori qualificati e datori di lavoro. Ne è derivato lo sviluppo di una modellistica che ha integrato regimi di welfare e regimi delle competenze (o skill formation systems), intesi come insiemi di istituzioni interconnesse in materia di istruzione e formazione professionale, relazioni industriali, mercato del lavoro e politiche di welfare (Estevez-Abe

et al., 2001; Busemeyer, 2009; Busemeyer & Trampusch, 2012). Anche se il dibattito critico è

successivamente proseguito (Hancké et al., 2008), due sono i principali regimi produttivi individuati: le economie coordinate di mercato (CMEs) e le economie liberali di mercato (LMEs). Le prime si fondano principalmente su dotazioni di competenze specifiche, che possono essere utilizzate soltanto all’interno di una specifica impresa (firm-specific) o settore industriale/occupazionale (industry-

specific). La formazione in azienda rappresenta una porzione importante dei relativi sistemi di

competenze, che generano tuttavia questioni problematiche di contrattazione tra lavoratori- apprendisti e datori di lavoro. In questa situazione, organizzazioni intermedie come i sindacati e le associazioni datoriali, o attori quasi pubblici come le Camere di Commercio, dell’Industria e dell’Artigianato in Germania, mettono in atto pratiche di monitoraggio, sanzione, standardizzazione della formazione (soprattutto quella in-firm che deriva dall’investimento di attori privati). Politiche sociali generose (tra cui un pronunciata protezione del posto di lavoro) promuovono il coordinamento tra gli attori e il mantenimento di tali sistemi formativi, nonché la volontà dei singoli individui lavoratori di investire nell’acquisizione di competenze specifiche. Nelle LMEs invece, il sistema economico si fonda sull’esistenza di competenze più ampie e generali, mancano organizzazioni intermedie con la stessa forza di contrattazione e le politiche sociali sono meno sviluppate. Questo preclude la costituzione di sistemi educativi strutturati basati sulla formazione interna alle imprese (Nelson & Stephens, 2009).

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In un influente contributo, Iversen & Stephens (2008) propongono un‘integrazione tra VoC e la Power

ReFonte Theory (PRT) per spiegare la variabilità transnazionale negli investimenti in differenti

politiche educative connesse allo sviluppo del capitale umano. Gli autori utilizzano l’approccio delle varietà di capitalismi soprattutto in relazione ai sistemi VET di formazione professionale; mentre ricorrono all’approccio delle risorse di potere per spiegare i sistemi di formazione di competenze generali (istruzione generalista esclusivamente scolastica e higher education). Nell’approccio PRT, il welfare state viene visto come agente redistributivo, per cui gli sviluppi delle politiche sociali sono intesi come sforzi atti a ridurre le disuguaglianze sociali e aumentare l’uguaglianza delle opportunità. La redistribuzione operata dal welfare state è considerata dipendente dalle “risorse di potere” detenute dalla classe operaia (densità organizzazioni sindacali e forza dei partiti di sinistra); e dalle strategie adottate dai partiti cristiano-democratici che potevano vantare un approccio multi-classe, soprattutto nei paesi dell’Europa continentale (Korpi, 1983; Esping-Andersen, 1990). Secondo l’analisi degli autori, sistemi VET forti e strutturati con ampia partecipazione di soggetti privati si sviluppano con più facilità nelle CMEs, come predetto dall’approccio VoC. Lo sviluppo dei sistemi di competenze generali tuttavia si differenzia sulla base della struttura partitica, seguendo la PRT. Tale sviluppo è stato più marcato in paesi a economia coordinata di mercato con forti partiti di sinistra, come nei paesi del Nord Europa. Dopo la seconda guerra mondiale, l’obiettivo primario in questi paesi nelle politiche educative è stato migliorare le opportunità educative per i gruppi con minor reddito: i partiti socialdemocratici hanno quindi promosso la partecipazione universale nell’istruzione secondaria e il

de-tracking dei percorsi educativi. In seguito, a questi obiettivi si è aggiunta l’espansione della

partecipazione all’istruzione terziaria. In paesi a economia coordinata con forti partiti cristiano- democratici (Europa continentale), è stato più frequente il supporto accordato a politiche destinate a specifiche categorie occupazionali più che universali, anche perché il sostegno multi-classe a tali partiti non comprendeva i lavoratori scarsamente qualificati. Di conseguenza, in questi paesi si sono strutturati forti sistemi VET in cui tuttavia il pubblico investimento è minore rispetto ai paesi socialdemocratici; e nel dopoguerra non sono state intraprese politiche di forte universalismo, espansione all’accesso e de-tracking. In questi paesi, lo stato gioca un ruolo non particolarmente forte nello strutturare i sistemi educativi e incontra difficoltà nel riformare i sistemi VET rispetto alle nuove richieste di skills generate dai mutamenti nell’economia. Invece, nelle LMEs i sistemi di formazione professionale sono molto meno rilevanti rispetto al filone dell’istruzione generalista. L’investimento pubblico in politiche educative è generalmente medio-basso e, soprattutto nel settore dell’istruzione terziaria, si rilevano importanti quote di investimenti privati. Gli individui scarsamente qualificati hanno scarse opportunità di acquisire competenze che saranno poi significative nelle loro carriere lavorative, e sono quindi spesso relegati a lavori marginali e poco pagati (Iversen & Stepehens, 2008; Stephens & Nelson, 2009).

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Se l’approccio delle VoC risulta lontano da una logica normativa e dice poco rispetto ai cambiamenti in materia di policy e struttura istituzionale che i diversi stati dovrebbero intraprendere, l’approccio delle capabilities, derivante dagli studi di Amartya Sen, costituisce invece un framework normativo utilizzabile per valutare il benessere degli individui con riferimento a uguaglianza e povertà. In questa visione, il benessere individuale va oltre i tradizionali indicatori di reddito, consumo, bisogni sociali; ma si estende alla reale capacità di scelta e realizzazione delle preferenze individuali. Ne deriva la volontà di promuovere l’empowerment dei destinatari degli interventi di policy, rispetto a cui politiche del lavoro e formazione non possono limitarsi a un’ottica ristretta di occupabilità dell’individuo: si richiede invece che istruzione e occupazione di qualità siano obiettivi chiave per l’azione pubblica nell’ambito delle politiche del lavoro. A quest’ampia visione prospettica tende tuttavia ad accompagnarsi una certa difficoltà di operazionalizzazione dei concetti delineati ai fini dell’analisi empirica (Agostini, 2013).