PARTE I. WELFARE, EDUCAZIONE, LAVORO: COSTRUIRE UN DIALOGO PER
CAPITOLO 2. WELFARE ED EDUCAZIONE: DAL TRADE-OFF ALL’INTEGRAZIONE PER
2.4. Is education special? Evidenze empiriche sulla specificità delle politiche educative
L’integrazione tra istruzione e welfare in un’unica prospettiva analitica non rappresenta tuttavia motivazione di per sé sufficiente per rigettare le già citate osservazioni su uno statuto speciale o comunque una specificità delle politiche educative. Procediamo con ordine: innanzitutto, nei suoi scritti Wilensky sottolinea gli esiti redistributivi delle politiche tradizionali di welfare, affermando come questi non siano necessariamente il risultato di un intervento di policy nell’ambito dell’educazione. Tuttavia, se è vero che il welfare state costituisce un’istituzione redistributiva, questo non vuol dire che automaticamente agisca effettivamente nella direzione di ridurre le disuguaglianze: va considerato primariamente una sorta di salvadanaio collettivo o “collective piggy bank” (Barr, 2001) e non un meccanismo produttore di uguaglianza. Infatti, come ricordano Esping-Andersen & Myles (2009), le origini del welfare state sono rintracciabili nelle azioni di riforme di stampo conservatore (come Bismarck), il cui scopo era principalmente la riproduzione, più che il
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cambiamento o l’annullamento delle differenze tra gruppi. Il welfare state è stato definito un sistema di stratificazione (Esping-Andersen, 1990), poiché agendo sulla distribuzione delle risorse influisce sulla struttura delle disuguaglianze propria di una società. A questa funzione di “assicuratore” si aggiunge tuttavia anche quella di miglioramento delle condizioni di povertà e bisogno attraverso la riduzione delle differenze di benessere: sarà quindi l’equilibrio tra le due funzioni ricordate a determinare l’impatto della redistribuzione operata dal welfare state rispetto alla distribuzione del reddito basata sul mercato, in termini di riduzione delle disuguaglianze.
Un ragionamento simile può essere ripetuto anche per le politiche educative, come peraltro segnalato dallo stesso Wilensky: se infatti tali interventi sottostanno a un differente principio di giustizia sociale, ovvero quello dell’uguaglianza delle opportunità, le evidenze empiriche disponibili non confermano tuttavia che gli stati che investono maggiormente in istruzione sono anche quelli con maggiori tassi di mobilità sociale. Il legame fra “origine” e “destinazione” è meno significativo nei regimi socialdemocratici piuttosto che in quelli liberali (Beller & Hout, 2006). In sé, un aumento delle opportunità di accesso al sistema di istruzione non garantisce una maggior uguaglianza delle opportunità e non esercita necessariamente una mediazione positiva che implichi l’aumento dell’uguaglianza nelle opportunità occupazionali. Anzi, sembra che determinate politiche educative possano avere l’effetto di rinforzare le differenze di classe e status rafforzando quindi la trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze, con l’esito ultimo di un aumento delle disuguaglianze delle condizioni per via di un mancato impatto positivo sull’uguaglianza delle opportunità.
Già Wilensky sottolineava, a proposito del sistema di higher education della California, come le prospettive occupazionali dei giovani laureati fossero connesse ai livelli di qualità del percorso educativo, i quali a loro volta erano strutturati dal background sociale degli individui (Wilensky, 1975). Più recentemente, Verbist & Matsaganis (2012) hanno analizzato gli esiti redistributivi delle varie tipologie di benefits in kind (servizi), sottolineando come la capacità dei servizi di ridurre le disuguaglianze e la povertà risulti differenziata a seconda delle misure di policy considerate. Innanzitutto, gli studi effettuati dimostrano che i trasferimenti in denaro rappresentano il principale strumento di policy a favore delle fasce più povere della popolazione, poiché operano una redistribuzione di risorse tale da migliorare sensibilmente le condizioni di vita dei gruppi più svantaggiati. Questo riporta alla redistribuzione tramite riduzione delle disuguaglianze di reddito, connessa al concetto tradizionale di protezione sociale e ai sottostanti valori egalitari. Tra le misure in kind invece, maggior efficacia redistributiva è stata riscontrata per i servizi connessi a sanità e educazione obbligatoria, oppure all’educazione prescolare. Esping-Andersen (2013) si sofferma sul ruolo svolto dalla cura ed educazione della prima infanzia (1-6 anni): evidenze empiriche dimostrerebbero infatti che la condizione familiare di partenza e l’intervento sociale/educativo nei primi anni del bambino sono cruciali per la formazione delle sue capacità cognitive, che gli permetteranno in seguito di raggiungere positivi risultati scolastici e di inserimento nel lavoro.
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Se dunque ampi investimenti nell’educazione prescolare risulterebbero efficaci nell’interrompere la trasmissione intergenerazionale di status favorendo la parità di opportunità, ciò non è necessariamente vero per i gradi successivi del sistema educativo. Molto più complesso e difficile da districare appare infatti il ruolo del sistema scolastico secondario superiore e del sistema terziario di istruzione superiore (HE). Ad esempio, la spesa in educazione terziaria non sembra avere rilevanti effetti di riduzione delle disuguaglianze ed anzi in alcuni paesi contribuirebbe a favorire ulteriormente gli strati più ricchi della popolazione (Verbist et al., 2012). Similmente, rispetto al caso italiano, Barone (2013) analizza gli esiti in termini di equità sociale dell’espansione della base sociale di partecipazione all’università, dovuta all’aumento delle iscrizioni ai corsi di laurea triennale in seguito alla riforma universitaria del 1999. Tuttavia, considerando l’istruzione come un bene posizionale, l’autore sottolinea come ai fini degli esiti di opportunità (educative e sul mercato del lavoro), non conti solo il livello di studi raggiunto, ma la sua posizione relativa nella gerarchia dell’istruzione. Quindi, se è vero che con l’aumento della partecipazione i gruppi sociali più deboli si iscrivono più spesso all’università, i gruppi più forti mantengono comunque un vantaggio competitivo: proseguono più spesso fino alle lauree magistrali o a qualifiche post-laurea, investendo quindi maggiormente nelle tappe successive. Questo aiuta a comprendere perché, dopo anni di espansione dell’istruzione, in Italia e nei paesi occidentali, le disuguaglianze di opportunità nel mondo del lavoro restano spesso molto marcate: ciò deriva dalle disparità economiche e culturali che continuano a incidere sul percorso educativo e sugli esiti nel mercato del lavoro (uguaglianza delle opportunità) e poi, di conseguenza, sulla struttura delle disuguaglianze economiche. Anche Ansell (2008) sottolinea come, di per sé, un aumento della spesa in politiche educative possa avere effetti inattesi dal punto di vista delle disuguaglianze: se i percorsi nel sistema di HE sono strutturati sulla base del reddito degli individui, un aumento delle risorse può tradursi nell’aggravarsi delle esistenti differenze economiche.
Nell’ambito degli studi sulla stratificazione, Checchi et al. (2014) e Braga et al. (2013) riassumono le principali analisi sugli esiti di varie politiche educative in termini di disuguaglianze educative intese come competenze conseguite (qualità dell’educazione). In particolare, alcune politiche (come l’espansione dell’educazione obbligatoria o i supporti finanziari per l’istruzione universitaria) riducono le disuguaglianze soprattutto innalzando la parte bassa della distribuzione degli esiti educativi conseguiti; mentre altre (soprattutto quelle dirette a espandere l’autonomia delle istituzioni educative) possono avere effetti più incerti sulle disuguaglianze, poiché tendono a favorire la differenziazione tra scuole e università. Gli autori sviluppano inoltre delle misure dell’attività di riforma in sei aree di azione delle politiche educative, che poi utilizzano come regressori rispetto alle disuguaglianze educative nelle varie coorti di età per i paesi europei considerati. Queste ultime sono misurate attraverso due dimensioni: la dispersione degli anni di scolarizzazione all’interno della stessa coorte d’età; la persistenza della suddetta dispersione attraverso coorti differenti (correlazione tra esiti educativi di genitori e figli). I risultati dimostrano che le politiche di espansione dell’accesso
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(supporti finanziari per l’iscrizione di studenti con background svantaggiati) hanno prodotto una tendenziale diminuzione delle disuguaglianze, mentre soprattutto le politiche rivolte specificamente all’educazione terziaria tendono a rafforzare la persistenza intergenerazionale (autonomia e selettività delle università). Misure connesse all’educazione pre-primaria, alla qualificazione degli insegnanti e all’autonomia e responsabilizzazione scolastica hanno effetti generalmente positivi ma più deboli e non statisticamente significativi.
Tabella 2.1: riforme educative e impatto atteso sugli esiti educativi (disuguaglianze)
Area di riforma Impatto atteso su disuguaglianze
Educative (literature review)
Impatto atteso su disuguaglianze Educative (nuove evidenze empiriche da Braga et al.)
Istruzione pre-primaria
Riduzione (attraverso miglioramento esiti per studenti con background svantaggiati)
Riduzione ma impatto non statisticamente significativo
Espansione scolarizzazione obbligatoria
Riduzione (attraverso miglioramento esiti per studenti con background svantaggiati)
Riduzione (espansione dell’accesso e
de-tracking)
Tracking (divisione in percorsi)
Ambiguo (percorsi professionalizzanti hanno durata inferiore, ostacolano l’iscrizione in percorsi accademici ma hanno bassi tassi di drop-out)
-
Autonomia scolastica
Ambiguo (adattabilità all’ambiente sociale, accresciuta competizione in presenza di un controllo
centralizzato)
Riduzione ma impatto non statisticamente significativo
Responsabilizzazione scolastica (agenzie nazionali di
valutazione, …)
Aumento (differenziazione scolastica, selezione e divisione degli studenti)
Riduzione ma impatto non statisticamente significativo
Qualificazione degli insegnanti Ambiguo (migliore qualità
dell’insegnamento porta benefici a studenti da background svantaggiati ma conduce a una maggiore differenziazione)
Riduzione ma impatto non statisticamente significativo
Supporto finanziario a studenti
Riduzione (aumento delle iscrizioni di
studenti da background svantaggiati) Riduzione (espansione all’accesso supportando l’iscrizione di studenti a percorsi terziari)
Autonomia e selettività delle università
Aumento (l’aumento del valore di
signalling dell’educazione terziaria
richiede una più intensa selettività nell’ammissione ai corsi universitari)
Aumento (rinforzo della persistenza intergenerazionale)
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Solga (2015) affronta la questione del rapporto tra educazione e disuguaglianze declinandola proprio secondo i principi dell’investimento sociale. In particolare, l’autrice parte dal presupposto che il potenziamento dell’uguaglianza delle opportunità attraverso l’investimento in politiche di sviluppo e valorizzazione del capitale umano possa condurre a una maggiore partecipazione di qualità al mercato del lavoro, e a maggiori redditi diffusi con minori disuguaglianze. Ad essere investigata è quindi la relazione tra politiche educative e disuguaglianze economiche, mediata in particolare dalle opportunità lavorative e dai redditi derivanti da un’occupazione. Secondo l’autrice, il ruolo dell’educazione come “equalizzatore” nel ridurre povertà e disuguaglianze economiche non deve essere sopravvalutato. Infatti, coerentemente con altri risultati empirici riportati in precedenza, misure “dirette” di redistribuzione tradizionale del reddito operata dai welfare state risultano più efficaci soprattutto nel combattere la povertà, rispetto a misure “indirette” che coinvolgono il sistema educativo. Vista l’ambiguità di singole misure di policy che possono rientrare nel generico concetto di investimento nel capitale umano, la riduzione delle disuguaglianze e il contemporaneo aumento della partecipazione al mercato del lavoro possono essere ottenute solo agendo contemporaneamente su due dimensioni di politiche educative, da considerarsi complementari e non mutuamente esclusive ai fini del “social investment (welfare) state”: politiche atte a un aumento della qualità del sistema educativo, ovvero a fornire alti livelli di educazione a più individui; politiche atte a un aumento dell’equità del sistema, per raggiungere alti livelli di uguaglianza degli esiti educativi (Allmendinger, 2009). Questo duplice obiettivo, riduzione delle disuguaglianze negli esiti educativi e innalzamento del livello complessivo di skills o competenze della popolazione, può essere perseguito da differenti
welfare mix (Solga, 2015): questi possono comportare alti livelli di spesa in protezione sociale e
sistemi educativi (come nei paesi scandinavi), ma anche varie combinazioni di alti livelli di protezione sociale tradizionale con livelli medi o medio-bassi di spesa pubblica in education, caratterizzati però da investimenti e priorità attribuite ad esempio alla formazione professionale (competenze
occupation-specific), spesso con il coinvolgimento di attori non pubblici. Non si tratta dunque
semplicemente di considerare il ruolo di capitale umano e politiche educative, ma è l’interazione tra queste e altri fattori che possono generare esiti positivi (Desjardins & Schuller, 2006).
Ad essere rilanciata è insomma la tematica dell’interazione tra sistema di istruzione e più ampio sistema di welfare, in particolare, per quanto riguarda i giovani, attraverso politiche educative, politiche del lavoro e sociali che strutturano il passaggio dall’istruzione all’occupazione. In questo senso, il contributo analitico del social investment appare promettente, dal momento che favorisce l’integrazione di education e welfare in un un’unica strategia di policy avente come obiettivo la partecipazione qualitativamente soddisfacente dell’individuo al mercato del lavoro (more and better
jobs) e la rottura della catena intergenerazionale di trasmissione delle disuguaglianze (focus
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percorsi di istruzione). Il rischio, tuttavia, è quello di non considerare adeguatamente lo statuto speciale delle politiche educative e i relativi esiti ambivalenti in termini di riduzione delle disuguaglianze che abbiamo documentato, presupponendo erroneamente che un aumento degli investimenti si traduca necessariamente in un corrispondente aumento di qualità ed equità.
Queste ultime osservazioni riportano in primo piano l’opportunità di analizzare i differenti policy e welfare mix, ovvero le differenti configurazioni istituzionali, utilizzando come riferimenti analitici e criteri di benchmarking i principi dell’investimento sociale (Hemerijck, 2013). Infatti, come confermato anche da recenti dati provenienti dall’indagine PISA (OECD, 2013), l’investimento in education tende a spiegare una quota pari al 20-25% della varianza in termini di performance ed esiti dei vari sistemi educativi: il nucleo delle possibili spiegazioni, quindi, risiede nel design istituzionale e nelle politiche adottate.