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Il capitalismo fondato sul cliente

2. Crisi e Responsabilità Sociale d’Impresa

2.3. Il capitalismo fondato sul cliente

Una recente analisi, condotta da IBM su 244 dirigenti aziendali di tutto il mondo, illustra come un numero crescente di aziende si stiano focalizzando sempre di più su obiettivi che attengono al campo socio-ambientale in ottica strategica. Il 60% degli intervistati afferma che la RSI ha assunto maggiore rilievo all’interno delle loro organizzazioni, rispetto ad un 6% del campione che riserva alla RSI una priorità più bassa18.

La Responsabilità Sociale d’Impresa sta assumendo dunque i connotati di una lente, attraverso la quale un’impresa è valutata, e ciò che spinge in questa direzione sono l’interesse e le crescenti aspettative degli stakeholder. Oltre due terzi delle aziende che hanno partecipato al sondaggio, considerano la RSI parte integrante delle loro strategie per accrescere il capitale e conquistare i mercati emergenti. Per mettere a punto strategie sostenibili però, è necessario comprendere i trade-off tra qualità, servizio clienti, costi e altri fattori.

A ciò viene associata anche una nuova visione del consumatore: gli utenti oggi non prestano attenzione solamente alle buone cause che le imprese prendono in carico, ma sono piuttosto interessati a come si sviluppa tutta la catena del valore, dai fornitori ai distributori. È necessario per le imprese capire il ruolo fondamentale che assumono sempre più gli stakeholder, con cui esse devono rapportarsi. È necessario stare al passo con i tempi, e soprattutto in tempi di crisi come quelli che l’economia globale sta attraversando, è importante concedere maggiore considerazione al cliente, lo stakeholder che per primo ha il potere di determinare il successo e la vitalità di un’azienda. In momenti finanziari difficili, infatti, chi fidelizza i suoi consumatori sopravvive e ha successo, chi si trova senza utenti invece soccombe.

Il capitalismo si può dividere in due epoche principali. La prima, quella del capitalismo manageriale, ebbe inizio nel 1932 e fu contraddistinta dall’idea, all’epoca innovativa e rivoluzionaria, che le imprese dovessero avere un management professionale. La seconda, il capitalismo del valore per gli azionisti, ha avuto inizio nel 1976. La sua premessa centrale è che lo scopo di ogni impresa

18 www.bilanciarsi.com

dovrebbe essere quello di massimizzare la ricchezza degli azionisti. Se le imprese perseguono tale obiettivo, afferma questo ragionamento, allora sia gli azionisti che la società ne trarranno beneficio19. Ma questa è una premessa imperfetta, che è il momento di abbandonare definitivamente per giungere ad una terza era.

Dopo tre decenni, in cui dirigenti hanno fatto dello shareholder value la priorità assoluta, ora è il tempo di cambiare rotta e avvicinarsi ad un capitalismo fondato sul cliente. Le prove suggeriscono, infatti, che gli azionisti, ottengono risultati migliori quando le imprese antepongono il cliente a tutto il resto.

La prima epoca vide l’introduzione di manager professionisti, ovvero la separazione tra proprietà e gestione dell’azienda. I proprietari iniziarono ad affidare le imprese ben avviate a professionisti preparati, affidabili e meno volubili. Poi nel 1976 l’articolo “Theory of the Firm: Managerial Behavior, Acengy Costs and Ownership Structure” di M. Jensen e W.Meckling diffuse la teoria che i dirigenti di professione davano poche attenzioni ai proprietari delle aziende, puntando a migliorare il proprio ritorno economico piuttosto che il vantaggio degli azionisti. Gli autori del saggio sostenevano che i manager, muovendo le risorse a beneficio dei propri interessi, portavano a consistenti sprechi per l’economia, e soprattutto a perdite per gli azionisti. La critica mossa dai due economisti ha così aperto la strada ad una seconda concezione, quella dell’era attuale: il capitalismo fondato sul valore per gli azionisti.

I consigli di amministrazione hanno riveduto il loro lavoro cercando di allineare gli interessi dei manager e quelli degli azionisti, collegando le retribuzioni dei primi al valore delle azioni.

La figura più importante del nuovo corso è probabilmente stata quella di Jack Welch, amministratore delegato di General Eletric dal 1981 al 2001, che con il suo lavoro segnò un netto passaggio verso l’ottica del profitto sopra ogni cosa. Egli fu un grande sostenitore dell’impresa incentrata sul valore per gli azionisti, ed ottenne retribuzioni su base azionaria senza precedenti, arrivando a possedere quasi 900 milioni di dollari in azioni di General Electric, al momento in cui ne lasciò il comando20.

Ma gli azionisti non si sono effettivamente arricchiti da quando i manager sono stati posti alla guida del business. Dal 1933 alla fine del 1976, gli azionisti delle società

19Harvard Business Rewiew Italia

20http://en.wikipedia.org

che rientrano nell’indice S&P 500 hanno ottenuto un rendimento reale annuo composto del 7,6%, nonostante si presumesse che avessero un ruolo secondario rispetto rispetto ai manager professionisti. Dal 1977 alla fine del 2008 invece, gli azionisti del paniere S&P 500 hanno registrato un notevole peggioramento, ottenendo rendimenti reali del 5,9% annuo21. Non esiste, dunque, alcun segno che gli azionisti abbiano avuto maggiori benefici da quando i loro interessi sono stati messi in primo piano, date le performance abbastanza simili dei due periodi.

Probabilmente concentrare i propri sforzi esclusivamente sul maggior aumento possibile del valore per gli azionisti non è il modo migliore perché questi traggano vantaggio. Si dovrebbe invece puntare a massimizzare la soddisfazione del cliente, in altre parole ricondurre l’impresa a perseguire il suo scopo primario: acquisire e mantenere i clienti. Ci si potrebbe chiedere, secondo tale ragionamento, se fosse possibile mirare ad un duplice obbiettivo: massimizzare sia la soddisfazione del cliente sia il valore per gli azionisti.

Purtroppo però, come sostiene la teoria dell’ottimizzazione, non esiste nessun modo per ottimizzare contemporaneamente due differenti variabili. È possibile portare ai massimi livelli il valore per gli azionisti arrecando un minimo danno alla soddisfazione del cliente, o massimizzare la soddisfazione del cliente con un minimo svantaggio per il valore apprezzato dagli azionisti, ma non è possibile ottimizzare entrambe le variabili allo stesso tempo.

Se l’idea di massimizzare il valore per gli azionisti ha sempre allettato i manager, farlo diventare realtà si rivela un lavoro complesso, e la difficoltà è legata al modo in cui viene questo valore viene generato.

Gli azionisti detengono un diritto residuale sulle attività e sui ricavi dell’impresa:

ottengono da essa ciò che rimane dopo aver liquidato tutti gli altri aventi diritto come dipendenti, fornitori, fisco e creditori. Il valore delle azioni è così il valore attualizzato dei flussi di cassa futuri, sottratti i pagamenti sopraelencati.

Non avendo certezze per il futuro, i potenziali investitori dovranno stimare quale sarà il flusso di cassa, e le loro aspettative determineranno il valore dei titoli azionari.

Ogni azionista, che attende un valore attuale dei proventi da partecipazioni future nella società inferiore al prezzo corrente, venderà le proprie azioni. Ogni azionista

21Harvard Business Rewiew Italia

potenziale, che preveda un valore attualizzato futuro superiore al prezzo corrente, acquisterà le azioni. Tale meccanismo implica che il valore per la totalità degli azionisti non ha quasi nulla a vedere con il presente, e in effetti gli utili presenti non sono che una minima componente del valore delle azioni ordinarie. Negli ultimi dieci anni il multiplo prezzo/utili medio annuo per l’S&P 500 è stato 27x, il che significa che gli utili correnti rappresentavano meno del 4% del valore delle azioni22.

Prendendo una data impresa, se le aspettative di performance future sono positive, il valore per gli azionisti crescerà. Nel 2009 i titoli di Google sono stati scambiati a un multiplo intorno a 35, perché la gente pensava che i ricavi delle società potessero ancora crescere. I titoli della Exxon Mobil, invece, sono stati scambiati ad un valore di circa 12 volte gli utili, perché gli investitori non sono fiduciosi sul futuro a lungo termine delle industrie petrolifere.

Per i manager le implicazioni sono chiare: migliorare le aspettative sull’andamento futuro della società è l’unico modo sicuro per far crescere il valore delle azioni.

Purtroppo però i dirigenti non possono farlo a tempo indeterminato.

Gli azionisti guarderanno ai buoni risultati, si entusiasmeranno e faranno salire le aspettative fino a livelli che diventano insostenibili per i manager. È ben documentato come gli azionisti si entusiasmino troppo a seguito di buone prospettive, e come si abbattano eccessivamente di fronte a previsioni negative. Ecco per quale ragione i mercati azionari sono molto più volatili rispetto al reddito delle imprese prodotto con le consuete attività.

Alla fine del 2001, il rapporto P/E dell’indice S&P 500, costruito fra prezzo corrente del titolo e utili societari di sua pertinenza, è stato un 46x23, perché gli azionisti pensavano che il mondo degli affari fosse entrato in una nuova dimensione. Ma una volta terminata l’euforia, il rapporto P/E è andato alla deriva fino a 19x e vi è rimasto fino al 2007, per poi passare a 25x poco prima del crollo del mercato azionario del 2008.

Ai giorni nostri è ormai lecito affermare che la creazione di valore per gli azionisti è ciclica e, cosa fondamentale, non è sotto il loro controllo. È possibile aumentare il valore per gli azionisti con impennate di breve durata, ma al momento opportuno i

22Harvard Business Rewiew Italia

23Harvard Business Rewiew Italia

prezzi inizieranno a scendere di nuovo. Così i manager investono in strategie a breve termine, e sperano di lasciare la guida dell’impresa prima dell’inevitabile crack.

Spesso poi, criticano il loro successore per non essere in grado di evitare un declino annunciato. Altrimenti, cercano di gestire le aspettative verso il basso in modo da poter aumentare costantemente il valore per gli azionisti per un periodo di tempo più lungo. In altri termini, poiché i dirigenti non possono avere la certezza di uscire vincitori dalla prova che sono chiamati a superare, cercano di creare una strategia che permetta loro di vincere per il tempo che li vede protagonisti.

È per tale motivo che l’obbiettivo di massimizzazione del valore per gli azionisti e il sistema retributivo che lo accompagna sono un male per gli azionisti. Gli stessi manager che devono raggiungere tale obiettivo si rendono conto che non è possibile.

I bravi amministratori possono accrescere la quota di mercato e le vendite, migliorare i margini e usare il capitale con maggior efficienza, ma per quanto siano abili, non possono comunque riuscire ad aumentare il valore per gli azionisti se le aspettative superano la realtà. Un valore per gli azionisti sempre in crescita significa un continuo innalzarsi delle aspettative sulle performance future, e ciò semplicemente non è possibile. Quanto più un dirigente è spinto a forzare l’aumento del valore delle azioni, tanto più sarà incoraggiato a fare mosse che in realtà danneggiano gli azionisti.

Volendo portare un esempio concreto, Jack Welch, l’amministratore delegato simbolo della massimizzazione del valore per gli azionisti, considerato il padre dello shareholder value, è famoso per essere la persona che ha trasformato General Electric da un’impresa con una capitalizzazione di mercato di 13 miliardi di dollari nel 1981 nella società di maggior valore nel mondo: 484 miliardi di dollari nel 2001, quando andò in pensione. Per far sì che il valore per gli azionisti aumentasse di continuo, Welch ha dovuto costantemente forzare la società, spingendola verso una crescita sempre maggiore. Il principale motore di crescita a sua disposizione era in principio una piccola unità chiamata GE Capital, che, alla fine della sua carriera, era divenuta la principale fonte di profitti di General Electric. Eppure nel 2009 la società ha dovuto ammettere il fallimento di GE Capital e ha assistito al crollo della propria capitalizzazione di mercato fino al minimo di 80 miliardi di dollari. Così mentre l’enorme aumento del valore per gli azionisti di 471 miliardi di dollari realizzato

sotto la supervisione di Welch sembrava meraviglioso al momento del suo pensionamento, è lecito chiedersi quanto gli azionisti ne abbiano tratto vantaggio nel lungo termine.

Lo stesso Jack Welch ha ritrattato il suo shareholder value, che ha regnato incontrastato nel mondo delle grandi società per oltre due decenni. L’ex dirigente ha fatto marcia indietro sulle sue teorie, dichiarando al Financial Times che è “stupido”

da parte dei dirigenti concentrarsi esclusivamente sui profitti trimestrali e sull’aumento del valore delle azioni. Welch ha dichiarato che la tanta attenzione destinata dai manager allo shareholder value è stata un errore24.